Elena Garbarino e Mara Surace, classe 1994, genovesi, sono le autrici di “Genova fuori rotta”, libro edito da Bottega Errante Edizioni. Sarà disponibile nelle librerie da mercoledì 15 Marzo, giorno in cui alle 18.00 le autrici presenteranno il volume alla libreria l’Amico Ritrovato in compagnia della giornalista Laura Guglielmi. “Genova fuori rotta” fa parte di “Le città invisibili”, collana che comprende altri undici volumi che raccontano con uno sguardo originale altrettante città.
Tanto si è già scritto su Genova, cosa ci dice di più questo libro le cui autrici hanno una formazione antropologica?
Quando pensiamo ad un antropologo troppo spesso abbiamo ancora in mente il buon vecchio Malinowski, con il suo look da esploratore, che da dietro i suoi occhialetti tondi pone il suo sguardo coloniale sui selvaggi (sic!) della Melanesia nord-occidentale. Della serie “Tu Tarzan. Io Jane”.
Ma l’antropologia oggi, un secolo dopo, è qualcosa di completamente diverso, capace di plasmare uno sguardo che può essere usato per fare un giro lungo e arrivare a comprendere noi stessi. E così le due scrittrici esplorano il carattere genovese, forgiato da una città priva di spazi, e si chiedono cosa raccontino di loro le scritte che i genovesi affidano ai muri, e non stiamo parlando solo di Melina Riccio, spesso contro la gentrificazione del centro storico.
Cercando di catturare il genius loci di Genova si arriva alla citazione disneyana: “gli orchi sono come le cipolle, hanno dentro più cose di quanto uno creda”, “non mi interessa che cosa piace a tutti”. questo vale anche per Genova.
Noi di wall:out siamo abituè dell’esplorare la città: oltre ai numerosi articoli (ultimo in ordine di tempo quello sulla Genova raccontata dal poeta Caproni) recentemente ci siamo occupati anche di deriva situazionista con un talk collaterale alla mostra Janua: Da Dogana a Ponte dei Mille – tra storia dell’arte, sociologia visuale e situazionismo.
Serendi-città
Scoprire Genova, essere “turisti” di un luogo che si sente proprio, è una magia che non smette mai di catturarci, anche perché – come mi è capitato di leggere negli atti di un convegno di urbanistica – Genova è un caso di serendi-città (città serendipica) cioè in cui si fanno per caso inattese scoperte.
Questo libro ci accompagna in rebighi (deviazioni) per i caruggi, e non solo, della città: è sicuramente capitato a tutti di imboccare vicoli a caso per evitare la ressa di via Luccoli e via San Luca, lasciamoci trasportare allora da questo gioco.
Raccontare la propria città non è semplice, proprio perché la si conosce nel profondo si ha paura di non riuscire a rendere a pieno la sua complessità e le sue sfumature, a maggior ragione ciò vale per Genova che è una città stratificata: medievale, barocca, industriale, ma non solo. È impossibile da racchiudere, anzi rinchiudere, in un libro.
Ma Garbarino e Surace restituiscono una Genova ingarbugliata come l’ordine dei capitoli che non c’è e che riflette a pieno l’impressione che la città sa dare di sé. Le autrici del libro scelgono infatti di strutturarlo a immagine e somiglianza della città, una città in cui ci si perde continuamente per poi ritrovarsi diversi da come si era prima.
Ci sono posti che per noi sono solo luoghi di passaggio ma che, fermandoci a conoscerli, ci svelano un passato ricco di aneddoti e di Storia con la S maiuscola, in una città che in mezzo secolo si è liberata da sola dai nazifascisti e ha vissuto il G8, episodio raccontato nel libro come una fiaba fantastica comunque più verosimile di certe ricostruzioni.
Questo libro ci svela alcune di queste narrazioni, raccontando anche ai foresti (forestieri, turisti) come le hanno vissute i genovesi, ma soprattutto ci aiuta a guardare con occhi nuovi ciò che di solito vediamo superficialmente.
L’intenzione è quella di tentare di decifrare qualcosa di questa città e di noi che la viviamo quotidianamente, attraverso un libro in qualche modo personale ma in cui le autrici, da brave genovesi, non si svelano del tutto, al massimo ci lasciano sbirciare le loro storie.
Storie in cui almeno in parte ciascun genovese può rispecchiarsi e attraverso cui ciascun foresto può trovare chiavi di lettura per cercare di comprendere i genovesi.
Nel libro si susseguono riflessioni sul concetto di periferia e sulle differenze fra quella di Levante e quella di Ponente, residenziale e borghese l’una, storicamente industriale e spesso trascurata l’altra.
Gli abitanti dei quartieri che ormai da un secolo fanno parte della Grande Genova e però si sentono ancora prima di tutto voltresi, sestresi, nervesi eccetera, come vedono il centro? Quanto lo conoscono? E qual è il rapporto fra periferie limitrofe? Se tutti, o quasi, siamo in grado di muoverci agilmente nelle vie principali del centro, cosa accadrebbe invece se ci spostassimo nei vicoli meno battuti o in un quartiere diverso dal nostro? Che cosa può essere percepito o definito come degrado?
Le autrici rispondono a queste e altre domande portandoci in una tana degna del bianconiglio: nella stessa frase citano Engels, filosofo tedesco, e Sonny Willa, rapper ligure, riuscendo a rendere perfettamente il concetto.
Perché dai poeti Genovesi (Montale, Caproni, Sbarbaro) ai trapper di periferia del XXI secolo passando per la scuola cantautorale genovese del centro storico gli artisti raccontano un luogo capace di entrarti dentro.
Il libro tocca le ferite della città.
Il G8 del 2001, l’alluvione del 2011, il crollo del ponte Morandi nel 2018. Ma le racconta senza ricorrere alla solita retorica, riuscendo a trasmettere l’idea di come tutto ciò sia stato vissuto in prima persona, in una giornata qualunque in cui le nostre vite si sono fermate per un momento.
Simbolo di Genova è la Lanterna, che le autrici descrivono come “schiva e pratica come i cittadini” perché riveste la funzione di faro e perché decentrata rispetto alle zone più turistiche. Ma i luoghi che sentiamo più genovesi di tutti sono i locali dei caruggi del centro storico e le funicolari, e il rapporto dei genovesi con questi luoghi è raccontato in altri capitoli.
Fra i personaggi forgiati da Genova che trovano posto tra le pagine:
un clochard-filosofo-pittore che espose alla Biennale di Venezia, una traduttrice che ha fatto conoscere all’Italia Hemingway e la beat – generation e che scelse per sé la definizione, contraddittoria come la città, di “vittoriana anarchica”, una partigiana sampierdarenese, vicecomandante di una brigata completamente femminile, che nascondeva posta, denaro e materiale per i partigiani nel proprio banco del lotto, un dio bifronte fondatore di una città come lui contraddittoria.
Riuscite a riconoscerl*? Se non conoscete i loro nomi cercateli in “Genova fuori rotta”.
Spero che questi assaggi vi abbiano fatto venir voglia di assaporare l’intero volume. Fra tapulli, caruggi, mastrussi, rebighi, mugugni, anguscia, rumenta, musse, creuze, bricchi e macaia (ma senza troppi foresti) nel tentativo di raccontare la città attraverso gli occhi di chi la vive.
Seguendo il mio personale rebigio sono arrivata a destinazione leggendo poco più di un terzo del libro. Ma siamo sicuri che la meta sia arrivare alla fine di un percorso e non la strada che si fa per arrivarci?
Così, per non perdermi nulla, riparto dal via: maniman!
Immagine di copertina:
Immagine tratta dalla copertina di “Genova fuori rotta”. Courtesy le autrici e la casa editrice
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