Meritocrazia

Caro 2023, vorrei una società empatica, non meritocratica!

Anno nuovo, dieta nuova: ho fatto indigestione di meritocrazia.
19 Gennaio 2023
8 min
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Dopo aver trascorso un pantagruelico Natale all’insegna del cibo, mi ritrovo sul letto, il giorno di Santo Stefano, a fissare il vuoto e a fare i fatidici conti con l’anno appena passato, con i miei successi tanto quanto i fallimenti, le gioie e i disastri, i pianti e le risate.

Sarò breve: scrivere questo articolo mi è essenziale per distrarmi dal divorare gli avanzi dell’arrosto che sonnecchiano nel frigorifero. Per quel che vale, prendete queste pagine per quel che sono, ovvero un esercizio di distrazione. 

In questi giorni tra Natale e Capodanno, i social sono stracolmi di pensieri più o meno ottimisti sull’anno appena trascorso. Credo che sia umano vedere il 31 dicembre come l’ultima pagina di un capitolo di vita, di cui vogliamo istintivamente scrivere un piccolo riassunto. Che sia per celia, per celebrarsi, lamentarsi o fustigarsi, è una vera e propria tradizione del nuovo millennio e io, come tanti, sento il richiamo irresistibile a unirmi a questa foresta di voci.

Dopo quattro anni passati oltre Manica, mi viene ancora più naturale voler fare i conti con l’anno trascorso, perché l’esito di ogni tentativo o scelta fatta sembra dipendere direttamente dalla decisione di partire. È naturale pensarla in questo modo, perché quando ci si risolve a comprare quel biglietto di sola andata ti senti gli occhi addosso e il peso di una grande responsabilità (a volte, forse, più del necessario).

Quasi invincibile

A costo di essere odiata, mi tocca ammettere che il 2022 mi abbia riempita di soddisfazioni, quindi il primo istinto sarebbe quello di elencare tutti i successi, tutti i traguardi: la mia prima casa, la agognata fine del dottorato, il mio nuovo lavoro, le boccette di calmanti cestinati (spero una volta per tutte).

Il secondo istinto è quello di dedicare la vittoria a me stessa. Nei miei momenti buoni, questo autunno mi sono sentita quasi invincibile, forte e con una consapevolezza che non avrei mai osato sognare fino a qualche mese fa.

Avete presente Lady Gaga in “Telephone”? Ecco, proprio così. Ed è proprio su questo secondo istinto che vorrei riflettere un po’, per distrarmi dal tacchino che mi chiama dal frigorifero. 

La tentazione moderna più forte è quella di aprire LinkedIn e sguinzagliare i polpastrelli: io ho fatto, io ho ottenuto, veni, vidi, vici! Quest’anno non ha fatto eccezione, almeno per me. Ma prima di iniziare a scrivere alcun post su LinkedIn o Facebook ho sentito qualcosa saltarmi sulla spalla, e un sussurrio all’orecchio (ovviamente in senso figurato) ed eccolo lì, in tutto il suo splendore, un grillo parlante, arrivato per portarmi sulla terra, trascinandomi giù dalla galassia in cui stavo svolazzando persa nel mio ego.

Il grillo parlante sarebbe quella parte della mia mente dove tengo i libri letti, i video e gli audiolibri, gli spettacoli teatrali, i film (forse “Pinocchio” di Guillermo del Toro mi sta influenzando le metafore). In particolare, mi è sovvenuto il nome di uno degli intellettuali contemporanei che ho amato di più negli ultimi due anni — Michael Sandel, arguto filosofo americano e professore di “teorie dei governi” nella blasonata e dorata Harvard, che tra tanti libri ha scritto “La tirannia del merito”.

Che cosa sarebbe la tirannia del merito?

Sperando di aver imparato qualcosa da Sandel, io la definirei in modo grezzo come quel modus vivendi che ci porta a pensare che ce l’abbiamo fatta da soli, dimenticandoci di tutte quelle persone, situazioni e botte di deretano che ci hanno aiutati/e a diventare ciò che siamo. È un qualcosa di sottile, che si insinua nelle crepe della mente per non andarsene più, una colla che si appiccica a parole e pensieri, come quando si esclama fieri “io non devo niente a nessuno!”.

Non fraintendetemi, un dottorato o una laurea sono frutti di duro lavoro, così come l’acquisto di una casa. Tuttavia, il percorso verso il successo definito secondo i canoni del nostro tempo non è uguale per tutti.

Per alcuni di noi, il lavoro è doppio, per altri triplo, per altri forse dimezzato, a seconda di dove e come si nasce. A me piace vederla così: alla nascita, a ognuno di noi viene distribuito un fagotto di strumenti per cominciare a vivere, dentro il quale ci possiamo trovare libri, sogni e una grande casa, oppure violenza e un appartamento pieno di muffa.

Nel mio caso specifico, posso dire di aver dovuto lottare parecchio per essere dove sono, e so di aver lavorato duro senza avere molti sconti rispetto a una gran parte di coetanei. Sono consapevole di essere circondata da persone che hanno avuto un’infanzia più facile della mia, e forse per questo hanno avuto meno ansie. Troppo spesso, ciò mi tenta a pensare di non aver bisogno di nessuno, di non essere in debito, insomma, di essere invincibile, io sola. La società non mi aiuta di certo a ridimensionarmi, anzi.

Ciò che è in gran parte dovuto a una predisposizione per le materie giuste al momento giusto è spesso confuso con un prodotto di mia sola creazione. Il fatto di essere una donna in un ambito prettamente maschile è, nel mio ambiente e nel mio tempo, frutto di elogi e rispetto. Il mio ateismo e l’amore per i libri vengono riconosciute come qualità da molti.

Interessante è notare come le stesse propensioni mi avrebbero potuta trascinare su un rogo nel 1500, o legata a un termosifone dentro un manicomio nel 1800.

Se mi pizzico sul braccio, mi risveglio dal torpore, e a quel punto trovo spaventoso il fatto che possa seriamente credere che la mia carriera, la mia istruzione e tutto ciò che ho oggi sia stato dovuto solo a me, isola in mezzo a tante isole. Come disse Michael Sandel, in una delle pagine che mi hanno colpita di più: 

For the more we think of ourselves as self-made and self-sufficient, the harder it is to learn gratitude and humility. And without these sentiments, it is hard to care for the common good.

MICHAEL J. SANDEL — THE TYRANNY OF MERIT

Diventa assai difficile comprendere l’importanza del bene comune, una volta che si sentiamo forti e auto-sufficienti al punto da non avere bisogno degli altri. Forse questo mito del merito e dell’autodeterminazione ci sta avvelenando.

Nonostante l’autostima sia una buona cosa, talvolta necessaria, essa è come un sacco di luccicanti caramelle, di cui si può fare indigestione. Forse quest’anno ho fatto indigestione pure io, quindi per l’anno nuovo avrò bisogno di una dieta che mi riporti alla mia forma originaria. 

Pungolati verso il successo

Pizzicandomi ancora una volta il braccio, mi sono ricordata di come mi sentii esattamente un anno fa, alla fine del 2021, un anno difficile in cui mi sembrava di non aver concluso nulla, un anno di mediocrità accademica, una collezione di tentativi, delusioni e sapori amari in bocca. Insomma, di certo non mi aspettavo Mattarella spuntare dalla mia finestra con il premio di “Alfiere del Lavoro” e una pacca sulla spalla.

Di certo, se quello fosse stato il mio diciottesimo anno non avrei avuto nessuna “Carta del Merito”, e i professori mi avrebbero guardata perplessi, grattandosi il capo e interrogandosi su cosa fare con il mio nichilismo e la mia scarsa attitudine.

Forse, se avessi scritto un post sui social sarebbe stato una preghiera per un anno migliore e una fustigazione per i miei fallimenti, un breve pensiero astioso o forse tuttalpiù un perdono, un’accettazione delle mie lacune di essere umano fallibile.

Questo perché siamo pungolati verso il successo, verso alte vette fatte di promozioni e lauree, attestati, certificati, curriculum Europass, perfezione, frullati imbevibili e hobby detestabili. Le pressioni che ci portiamo nel nostro secolo sono uniche nel loro essere focalizzate sul merito, sulla capacità di imparare, di adattarsi ed essere ambiziosi. Tirarsi fuori dai guai da soli, costruirsi il successo da soli, tracciare il nostro unico e speciale percorso da soli.

Eppure, troppo spesso ignoriamo (o facciamo finta di ignorare) che ci sono delle doti e propensioni che sono favorite dal mercato, come quelle riguardanti le materie scientifiche, per la matematica e la programmazione. Ci sono personalità che sono preferite rispetto ad altre (evviva gli estroversi!). A seconda del paese dove nasciamo, determinati aspetti del nostro essere possono essere venerati o bistrattati. Nonostante ciò, troppo spesso il nostro giudizio si basa su fattori che tengono ben poco conto di ciò che è al di fuori del nostro controllo.

Ed ecco che siamo spinti a dividere le persone in compartimenti.

Voto basso? Sei mediocre. Paga bassa e carriera insoddisfacente? Forse non ti sbatti abbastanza. Reddito di cittadinanza? Mi dispiace doverglielo comunicare in questo modo, ma lei soffre di divanite acuta.

Fattori che plasmano le nostre vite

E allora non dovremmo forse considerare che parte della nostra probabilità di successo è dovuto a, oppure favorito, dalle propensioni e inclinazioni che la società in cui siamo nati o in cui viviamo ritiene giuste, utili, degne di rispetto o di una paga maggiore?

Non dovremmo forse ammettere più spesso che aver passato l’infanzia in un quartiere decente, in una famiglia che ci supporta, aver ricevuto carezze e non bastonate ci ha probabilmente dato quella spinta in più verso una vita di dignitoso equilibrio?

Forse essere nati vicini a quella scuola, aver incontrato quel maestro o quella maestra alle elementari, aver avuto quel consiglio durante l’open day delle scuole è stato un colpo di fortuna senza il quale non saremmo dove siamo ora.

Questo sì che è un cambio di prospettiva!

Forse allora quel post su LinkedIn non dovrebbe elogiare soltanto noi? Forse non dovrebbe essere accompagnato da un nostro primo piano ma da una foto di gruppo e una lunghissima fila di titoli di coda come nei film?

Quando ci si inizia a interrogare su quanti e quali fattori plasmano le nostre vite, diventa chiaro che niente dipende interamente ed esclusivamente da noi e dalle nostre azioni. La vita è una matassa che si dipana spinta da mille forze, alcune partono da noi, altre sono forze esterne, ma il risultato finale sarà un filo il cui percorso non è mai soltanto nostro, ma del mondo che gira insieme a noi.

Forse alcuni penseranno che questi siano deliri da comunisti, e che potrebbero trascinarci tutti nel baratro dell’autocommiserazione. Lungi da me commiserarmi per non aver pubblicato su Nature o per aver lasciato un libro di Robert Musil a metà, per carità di Dio! Di certo non è questo il messaggio che voglio dare.

Questo articolo vuole piuttosto essere un invito all’empatia (e alla lettura de “La tirannia del merito”) non solo verso noi stessi ma anche e soprattutto verso chi ci circonda. Quell’empatia che Sandel definisce necessaria per comprendere l’importanza del bene comune, per poter avvicinarci agli altri e avere una visione della vita più completa. Quella stessa empatia che ci invita a riflettere sul valore immenso della democrazia e di una società dove chi non rientra necessariamente nei canoni contemporanei non viene preso a calci ma sostenuto.

E per concludere, una poesia di Brian Bilston per consolare chi ha odiato il proprio 2022:

This was the year that was not the year
I repaired the bathroom tap
and emptied out the kitchen drawer
of a lifetime’s worth of crap.

This was the year that was not the year
in which I launched a new career.
A West End hit eluded me,
as did Time Person of the Year.

This was the year that was not the year
I became a household name.
Action figures were not sold of me.
I wasn’t made a dame.

This was the year that was not the year
I spent less time on my phone.
Nights of passion did not happen
in boutique hotels in Rome.

This was the year that was the year
I didn’t get that much done –
much the same as the year before,
much like the one to come.

By Brian Bilston

Immagine di copertina:
Foto di Jeswin Thomas


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Genovese di nascita e scozzese di adozione. Dopo una laurea in fisica si è buttata all’avventura in un dottorato in scienze dei materiali e ottica quantistica a Edimburgo. Nel tempo libero ama leggere libri (tranne quelli di divulgazione scientifica), accarezzare gatti, ascoltare De André e cercare di riprodurre la focaccia genovese nel forno di casa.

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