Era questo il titolo del talk che ha avuto luogo venerdi 29 aprile scorso in piazza dei Giustiniani nell’ambito di W:OW, la rassegna organizzata da wall:out magazine per celebrare il suo compleanno.
Prendendo spunto dal titolo di un libro di Susan Sontag “REGARDING THE PAIN OF THE OTHERS” e alla luce dei recenti studi che hanno rilevato come molti approcci artistici degli ultimi anni siano andati nella direzione di un’arte impegnata, il dibattito si è concentrato sulla riflessione del ruolo dell’arte e della fotografia nella società e dell’incontro tra arte e politica.
Scopo del talk era quello di capire l’impatto dell’arte nella vita della gente, come la aiuti a comprendere la realtà, in particolare in momenti storici critici come quello che stiamo tutti vivendo.
L’incontro si è rivelato un momento fruttuoso di riflessione su questi temi grazie all’apporto dei relatori, ovvero Gianluigi Ricuperati, noto scrittore e curatore torinese; Davide Dormino, artista romano; Francesca Volpi, fotoreporter bresciana; Marco Balostro, fotogiornalista di Genova e Pietro Buatier, fondatore di “Frammenti di Storia”.
Cercando di capire come uscire dalla gabbia che ci vede da un lato scioccati spettatori di atroci immagini di guerra e, dall’altro, figuranti abitudinari delle nostre azioni quotidiane, Ricuperati, particolarmente coinvolto dal conflitto in Ucraina e impegnato in azioni di aiuto, spiega che siamo in un momento in cui è impossibile non prendere una posizione e mettersi dalla parte di quello che, secondo un necessario “calcolo morale”, è la parte del bene.
Innescare una reazione
L’arte, dice ancora Ricuperati, con i suoi mezzi, deve contribuire a fare conoscere e a innescare una reazione.
In questo senso, il talk ha potuto contare sulla preziosa testimonianza di Davide Dormino, scultore romano che concepisce l’arte come pratica sociale. Per lui l’arte deve produrre qualcosa che abbia un senso per la collettività e che “faccia vedere lati nascosti della realtà”.
Davide racconta come nella sua ricerca l’ascolto e il coinvolgimento del pubblico siano fondamentali. Porta l’esempio di “ANYTHING TO SAY”, forse la sua opera ad oggi più conosciuta, in cui affronta il tema di Wikileaks e di Julian Assange. Ci spiega come questa opera itinerante serva a stimolare un’azione nello spettatore che viene invitato a salire su una sedia per prendere in considerazione un punto di vista diverso sulla storia.
Partendo dalla considerazione che molta arte impegnata di questi ultimi anni ha preso in prestito i metodi di altri linguaggi, come quello del giornalismo, del documentarismo e della fotografia, la riflessione sposta il ragionamento su come quest’ultima, soprattutto nella sua veste di fotografia documentaristica, sia un mezzo di conoscenza e di testimonianza, capace, forse più di altre discipline, di generare un rapporto empatico con lo spettatore.
Fondamentale e coinvolgente si rivela la testimonianza di Francesca Volpi, che ci spiega come stare a lungo in un contesto sia importante per conoscerlo a fondo e quindi documentarlo con la dovuta accuratezza e con il necessario rispetto nei confronti di chi lo abita.
Francesca, che è reduce dall’Ucraina dove è stata inviata del TG1 nelle prime settimane di guerra, racconta come si fa ad entrare nella vita delle persone senza urtare la loro sensibilità ma, al contrario, facendo loro capire di essere veicolo di testimonianza di quello che succede proprio grazie al racconto delle loro storie.
Se Francesca Volpi è un volto noto per il suo impegno in zone pericolose, Marco Balostro, ha potuto raccontare di come anche il contesto urbano metta duramente alla prova le emozioni.
Marco, fotogiornalista genovese le cui foto sono pubblicate quasi giornalmente sul Secolo XIX, è un fotografo di cronaca con l’approccio dei migliori fotoreporter internazionali. Molto nota la sua foto dell’esplosione dell’ultimo moncone del ponte Morandi in cui lui decide di includere anche le persone accorse a osservarla (marcobalostro.it).
È una foto emblematica di come egli concepisce il suo lavoro, ovvero, “considerare l’umanità che sta dietro a ogni situazione un elemento fondamentale”.
Il potere trasformativo dell’arte
La riflessione su cosa significhi documentare un evento passa poi ad analizzare i rischi di una sua sovraesposizione, come sta accadendo per la guerra in Ucraina, e sulle dinamiche che innescano nello spettatore.
Assieme a Pietro Buatier, si è cercato di capire cosa si intende quando si parla di pornografia del dolore e anestetizzazione dei sentimenti e, assieme a Francesca e Marco, ci si è posti la domanda se sia giusto mostrare tutto o se al contrario sia corretto porsi un limite.
Il talk si è aperto col video di Zelensky, il presidente dell’Ucraina, che, nel suo intervento alla cerimonia di apertura della Biennale d’Arte di Venezia, fa un appello al potere trasformativo dell’arte e alla sua capacità di dare speranza e cambiare le cose.
Quasi un sogno quindi. E, citando Yona Friedman, in chiusura dell’incontro, i relatori non potevano che essere chiamati a rispondere a questa inevitabile domanda “Qual è la vostra utopia realizzabile in questo momento?”.
Un interrogativo che il talk rivolge anche a tutti noi.
Immagine di copertina:
Foto di Greta Asborno
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