ESAGERATƏ | riscriviamo la storia dei nostri corpi”

#2 ESAGERATƏ | “Basta diete – riscriviamo la storia dei nostri corpi”

Il reportage a puntate che racconta e riflette sulle tematiche dell’evento transfemminista di Sorelle di corpo.
17 Novembre 2024
11 min
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Questo articolo fa parte del reportage che ti racconta com’è andata questa avventura di un giorno: workshop, laboratori creativi, swap party, talk e panel, show e quiz. Un meraviglioso spazio di sorellanza e inclusività dove essere se stessə!  
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“Ma come sei esageratə!” Se ti hanno mai detto questa frase questo è il posto giusto per te. Tantə di noi si sono sentitə rivolgere queste parole – soprattutto donne (ma non solo).

Esageratə per come ci vestiamo, per lo spazio che occupiamo, per quello che mangiamo, perché ci lamentiamo o, per meglio dire, perché non stiamo zittə davanti a situazioni “normali” che però feriscono, e lo facciamo perché siamo delle femministe guastafeste che lottano per un mondo più inclusivo e meno giudicante alzando la mano facendo svanire il “bel clima goliardico” dei commenti sessisti, omofobi e grassofobici. 

Esageratə – riscriviamo la storia dei nostri corpi” è l’evento transfemminista organizzato da Sorelle di corpo ad Albisola Superiore (SV) lo scorso 7 settembre e che ci aspettiamo ritorni alla fine della prossima estate.

Questo è il reportage che ti racconta com’è andata: workshop, laboratori creativi, swap party, talk e panel, show e quiz. una giornata culturalmente arricchente ma anche divertente, perché chi lo ha detto che la lotta deve essere noiosa? Una lotta può essete gioiosa, carica di strass e di rosa barbie!

Cosa c’entrano i DCA (disturbi del comportamento alimentare) col femminismo?

#2 ESAGERATƏ | “Basta diete – riscriviamo la storia dei nostri corpi”
Le relatrici del panel sul palco. Foto di Jacopo Grosso

Il punto di partenza della prima conferenza è il libro “Basta diete!” della dietista Veronica Bignetti, pioniera nell’alimentazione intuitiva in Italia, un approccio volto a fare pace con il cibo e con il proprio peso naturale.

Sul palco insieme a Valuh ci sono Beatrice Soli (personal trainer e attivista dei DCA che ha tenuto uno dei laboratori di cui abbiamo parlato qui), Ilaria Di Lorenzo, Ilaria Dagnino e Beatrice Zamagni, dietiste e nutrizioniste che accompagnano le persone nel proprio percorso attraverso un approccio non prescrittivo e inclusivo dei diversi corpi.

Il libro della dottoressa Bignetti intende riscrivere la storia dei nostri corpi, non è l’ennesimo libro sulle diete, introduce invece un approccio completamente diverso, anti-dieta:

la dieta non esiste ed è sostituita da un’alimentazione intuitiva gentile, autodeterminata e fondata sull’ascolto dei propri bisogni.

Non siamo rotelle di un meccanismo economico, dice il libro, ma esseri umani di cui ascoltare i corpi.

Ilaria Di Lorenzo introduce l’approccio intuitive eating: non prescrittivo e non focalizzato sul peso. Si tratta di un approccio gentile ed equilibrato di ascolto dei segnali del corpo come fame, sazietà, dolore; in un mondo in cui si parla di controllo del corpo questo è dirompente e richiede di decostruire la diet culture.

Dobbiamo reimparare ad ascoltare i nostri corpi e ad essere gentili verso noi stessə per prenderci cura di noi; occorre la guida di figure professionali perché anche se ascoltarsi è naturale tutte siamo sottoposte a pressioni ed influenze esterne che ci hanno fatto disimparare questo meccanismo.

Negli anni ‘80 alcune nutrizioniste vicine a movimenti femministi e di giustizia sociale iniziarono ad occuparsi di come le diete non funzionassero e avessero conseguenze negative sulla salute, nacque così un nuovo approccio che mettesse al centro la salute attraverso l’alimentazione anziché focalizzarsi sul peso.

Tuttə noi abbiamo esperienze di vita diverse che determinano il nostro rapporto col corpo, anche a livello di privilegio socioeconomico e di genere, non è vero che abbiamo tutte le stesse 24 ore e anche mangiando e allenandoci allo stesso modo non potremmo mai avere gli stessi corpi, inoltre essere donne ci mette di fronte a un’oppressione di partenza che determina aspettative sociali sul corpo.

Questi aspetti sono parte del problema che non è limitato al solo corpo ma che vanno tenuti in considerazione globalmente:

non c’è solo l’aspetto medico sanitario ma anche quello sociale, economico, di genere eccetera.

Occorre distaccarsi dalla mentalità della dieta: l’obbiettivo non può essere solo un peso perchè dimagrimento non corrisponde a salute. Devo conoscere tutte le variabili e dedicare le mie energie ad attività fruttuose, smettendo di sentirsi in colpa e di ossessionarsi per il peso.

Il processo di decostruzione della mentalità della dieta è faticosissimo e l’alimentazione intuitiva non è (come a volte erroneamente si pensa) mangiare troppo, mangiare quello che si vuole, mangiare lo stesso elemento preferito all’infinito.

Ilaria Dagnino ci ricorda che dobbiamo recuperare quello che sente il nostro corpo, inclusa la componente di piacere.

L’alimentazione intuitiva si differenza dalla classica dieta che si basa su segnali esterni quali cosa, quanto e quando mangiare, consiste invece nel recuperare il contatto coi propri segnali creando delle bussole interne, reimparando che la fame non va ignorata (non è essere bravi sentirla ed ignorarla) ma è il segnale della necessità di energie.

I messaggi esterni, il passato di restrizioni alimentari o addirittura di disturbi del comportamento alimentare ci portano a distaccarsi dalla capacità innata di sentire la comunicazione fra noi e il corpo, interrotta a furia di non ascoltarla.

Temiamo che ascoltando il nostro corpo mangeremmo di tutto e tutto il tempo, ma non è un’alimentazione impulsiva e istintuale bensì dettata dalle nostre esigenze e necessità pratiche correlate al contesto in cui viviamo.

I segnali corporei sono una bussola ma siamo noi a contestualizzarli sulla base della nostra giornata e delle nostre conoscenze: la voglia di mangiare ossessivamente un alimento non è naturale ma è conseguenza di restrizioni eccessive, naturalmente il corpo punterebbe alla varietà sia per il piacere sia per completezza nutrizionale.

Quando un alimento è proibito diventa speciale, attraente ed affascinante, in più sappiamo che ci darebbe piacere e quindi diviene estremamente desiderabile e se ci concediamo di mangiarlo perdiamo il controllo, quindi ci sembra che l’unica soluzione possa essere mangiarlo tutto il tempo o non mangiarlo affatto, occorre rendersi conto di questa dinamica e ricostruire una dimensione sana e di benessere col nostro corpo mangiando tutto quello di cui abbiamo bisogno, prevedendo qualsiasi tipi di alimento senza restrizioni.

Esageratə è il claim della giornata, perché dobbiamo sentirci esagerate se mangiamo anche il dolce?

Quando sviluppiamo attenzione a questi temi ci accorgiamo come la diet culture sia ovunque, e noi veniamo percepitə come esageratə e troppo sensibili al tema.

Valuh racconta un paio di aneddoti sul tema, ma sicuramente a tuttə ne vengono in mente altri:

A spiaggia (si, è scorretto ma si dice così nel savonese) una bambina chiede il gelato al papà e lui glielo nega davanti a tutti perché “ha mangiato come un drago a pranzo”, l’intenzione non era umiliare sua figlia ma era un modo goliardico di dire qualcosa di totalmente inappropriato che però ha delle conseguenze nel modo di relazionarsi col corpo fin da bambine.

Una mamma cammina con un bambino molto piccolo in braccio e dicendogli “eh con tutte le focacce che abbiamo mangiato hai voglia a camminare”, abbiamo bisogno di sfogare un senso di colpa legata al cibo perfino con un bambino che non è in grado di capire.

Beatrice Zamagni ci parla di linguaggio perché è proprio il linguaggio a determinare il nostro rapporto col cibo e col corpo, il marketing ha un linguaggio aggressivo e violento sul corpo:

“ammazza la fame”, “taglia i carboidrati”, “brucia i grassi” e ciò ci porta a fare la guerra contro i nostri corpi, non vedendoli come alleati.

Questo linguaggio ha un impatto molto negativo sulla percezione del nostro corpo, molte persone hanno addirittura paura di chiedere aiuto ad unə professionista perché lə nutrizionista è vistə come un nemico che battaglia contro il peso; l’approccio  accademico è ancora molto pesocentrico perciò lə stessi professionistə delle diete devono decostruire per liberarsi di una terminologia aggressiva.

Occorre avere un linguaggio su cibo e corpo più gentile, perciò la dottoressa Zamagni ha elaborato una sorta di vocabolario con i termini da sostituire:

non più “giusto-sbagliato” ma “più o meno utile ai miei obiettivi di benessere”, 

non “peso forma o ideale” ma “peso naturale”,

non “controllo della dietista” ma “supporto” o “incontro”

non “cibo spazzatura/schifezze/porcherie” ma “alimenti a maggior contenuto di dolce/sale/carboidrati/grassi ecc.” o “più caloriche” senza che ciò lo renda giusto o sbagliato,

non “patologia cronica” ma “di lunga durata” perché sono termini molto stigmatizzante così come non “obesa”, “anoressica”, “bulimica”, “diabetica”, ma “persona con obesità/anoressia/bulimia/diabete” così da evitare di identificare le persone con la patologia di cui in quel momento soffrono e mettere invece al centro l’individuo.

Chi soffre di una patologia può finire per identificarsi con la patologia stessa, si parla di egosintonia, perciò per guarire occorre partire anche dal linguaggio.

Quella del linguaggio è una rivoluzione esagerata, una piccola cosa che possiamo fare tuttə, richiede uno sforzo perché sono cose dette senza pensarci, non con cattiveria, ma sarebbe di grande utilità.

Cambiare l’approccio linguistico non è un favore che facciamo alle persone con DCA, ma servirebbe a tuttə creare un modo di vivere meno bellicoso.

Beatrice Soli, personal trainer, ci illustra come la cultura della dieta sia strettamente connessa con l’allenamento che è ammantato di una narrazione tossica: bruciare calorie e creare muscolo non sono motivazioni corrette per praticare attività fisica, la gravano di valore morale e non ci permettono di scegliere un allenamento che ci faccia piacere fare.

Un allenamento viene percepito come di valore quando sudiamo moltissimo o bruciamo tante calorie, se il corpo fa male tanto da non riuscire a camminare allora abbiamo fatto un ottimo lavoro, “no pain no gain”.

Quanto è sbagliato tutto questo?

Non esiste un percorso professionalizzante per diventare personal trainer, solo piccoli corsi di un weekend, spesso basati su standard estetici e prototipi della cultura del fitness.

La grassofobia è estremamente diffusa nelle palestre e chi non ha un corpo conforme viene visto come qualcuno che non ha cura di se, ma non è la forma fisica a dirci se qualcuno pratica sport e si può essere felici anche in un corpo grasso.

Il corpo di una persona grassa viene visto come qualcosa da punire e modificare, l’utente della palestra non è visto come una persona ma come un corpo, si usano parole come “palla di lardo”, “ippopotamo col tutù”, “ammasso di ciccia” e si toccano i corpi senza consenso.

La trasformazione in eroe avviene quando si trasforma il corpo e il valore della persona sta nel modificare il corpo che prima era quello del mostro da mettere al patibolo.

Ma il corpo non è un oggetto fine a se stesso.

Come una relazione simile con i corpi incide sull’autostima e sul rapporto con se stessi? 

Recentemente c’è stato un cambiamento del linguaggio che però non è che l’ennesimo washing: amati così come sei (ma ma con la pancia piatta).

I personal trainer non ricevono alcuna formazione psicologica e nei DCA il movimento può diventare un metodo di compensazione di “abbuffate”, un modo per “meritarsi il cibo”, “premiarsi” col cibo solo se mi alleno, che in fondo non è che la degenerazione del “facciamo una passeggiata che abbiamo mangiato troppo”.

L’iperattività motoria è un DCA, nel mondo delle palestre sono moltissimi anche gli uomini che ne soffrono, non consiste solo nel fare moltissimo sport ma nel non riuscire a fare altro che allenarsi anche se fa caldo, anche se si ha la febbre alta, anche con una gamba rotta.

Non importa se si ha famiglia, lavoro, sa fare la spesa, vita sociale eccetera, si deve sempre trovare il tempo per allenarsi anche se per farlo ti devi svegliare alle tre del mattino. I DCA non riguardano solo corpo e cibo, sono mezzi di espressione del proprio se, per non pensare, per anestetizzare le emozioni e possono portare alla morte.

Il percorso di guarigione dal DCA spaventa perché il corpo si trasforma, abbandonare un DCA è un lutto perché il DCA è stato con me tanti anni quando ero da solə, l’egosintonia fa identificare con il proprio DCA.

Accetto il mio corpo che cambia ma solo se in un determinato modo, rimane la paura di un corpo grasso radicato nella nostra società anche senza il DCA, perciò vado ad allenarmi per controllare e modellare il corpo consumando calorie, non facendo attività come yoga o pilates che mi riconnettono col mio corpo.

Nei percorsi di guarigione dal DCA è necessaria anche una figura professionale che si occupi della parte legata all’attività fisica, altrimenti il rischio è quello di fare della palestra un disturbo di cui ho pieno controllo e per cui tutti intorno fanno complimenti per i risultati estetici e la forza di volontà, sebbene in realtà non sia che una nuova forma di DCA fatta di controllo di calorie bruciate e di macronutrienti.

Il DCA porta a proibirsi eventi sociali e vivere in una reclusione in cui siamo io e il mio corpo contro il mondo, senza la socialità:

per le persone con vigoressia (un DCA legato all’attività fisica) l’obiettivo non è più la magrezza, bensì la tonicità ma a livello psicologico non è diverso da altri DCA.

Qualsiasi corso fitness usa frasi come “prepararsi all’estate”, “bruciare il pandoro” o “meritarsi gli sgarri del weekend” e tutto questo è problematico e ciò non riguarda solo persone con DCA ma gli enti sportivi e i loro utenti poiché quando parliamo di corpi in movimento li disumanizziamo.

Dobbiamo cambiare la narrazione dell’attività fisica

Un corpo forte ci serve per fare cose: per non avere il fiatone a fare le scale, per goderci le vacanze, per invecchiare bene, il corpo è un alleato per ciò che ci permette di fare, non sappiamo neanche più respirare e respirare è il gesto con cui noi viviamo.

L’ambiente delle palestre è ostile e focalizzato al dimagrimento, basta parlarne, non deve essere questo l’aggancio per andare in palestra: vigoressia, anoressia, dismorfismo corporeo, ne soffrono gli stessi personal trainer che arrivano a doparsi, sono simili ad altri DCA ma più accettati dalla società.

Questo è uno dei motivi per cui è raro sentir parlare di DCA in uomini cisgender, nonostante siano sempre di più a soffrirne, ci si aspetta che una persona socializzata come uomo rientri in determinati standard, non soffra, non abbia bisogna di condividere né di chiedere aiuto.

La donna che soffre di DCA viene letta come poverina che si guarda allo specchio ed è malata, l’uomo in fissa con la palestra viene visto dalla società come vincente.

In medicina parliamo di DCA al femminile e quindi si fa fatica a riconoscerli negli uomini, ma noi femministe lottiamo per tuttə, non solo per noi.

Come diventare impermeabili ai commenti sul corpo?

È impossibile cambiare la mentalità di tutte le persone che ci circondano e che magari sono molto vicine a noi, ad esempio i nostri genitori, e quindi diamo peso ai loro commenti.

Non è però responsabilità di chi sta facendo un percorso di guarigione cercare di cambiare la mentalità di chi la circonda.

Dobbiamo imparare a riconoscere l’impatto degli stimoli esterni e piano piano lavorare sulla nostra consapevolezza interiore, un suggerimento pratico è mettere dei paletti chiedendo alle persone che ci circondano di non toccare alcuni argomenti (come il nostro corpo o il cibo) perché non ci sentiamo compresi, stabilendo dei confini per sentirsi un pochino più al sicuro.

Il diet talk è socialmente accettato, il libro da cui siamo partite fornisce strumenti banali per affrontarlo, ad esempio in pausa pranzo in ufficio fra donne è comune commentare il cibo e le calorie ma noi non possiamo prenderci la responsabilità di decostruire tutte le altre persone disperdendo energie.

Ciò che si può fare è far presente che questo argomento non interessa e non apporta valore al pasto che stiamo condividendo, suggerire altri argomenti come “cosa hai fatto ieri?”, “serie tv” o parlare del cibo in modo gentile ad esempio condividendo una ricetta.

Sono piccole soluzioni ma permettono di autotutelarsi non siamo obbligatə ad assorbire sempre il negative talk degli altrə.

Insomma il femminismo ti rovinerà la vita, ma nel modo migliore possibile.

Continua a seguirci per leggere i prossimi articoli sulla giornata!
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Immagine di copertina:
Locandina dell’evento. Graphic designer Paolo Bona


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