Metti un pomeriggio nuvoloso d’estate. Metti che, dato il tempo, andare al mare è da escludere. Metti che avete ormai scartato tutte le varie alternative per passare il vostro tempo. Ecco che un’idea balzana vi salta in mente: visitare un museo!
Vi sottoponete così a e vecchi e nuovi rituali (comprare il biglietto, disinfettare le mani, misurare la temperatura) e siete finalmente dentro. Iniziate a vagare per le sale del museo senza un obiettivo preciso, lasciandovi attrarre dai colori e delle forme delle opere esposte.
Dopo un certo periodo di tempo, però, iniziate ad avvertire una certa stanchezza. Vi sentite affaticat*, vi accorgete che il vostro sguardo, anziché soffermarsi sui quadri, perlustra le sale in cerca di sedili dove potersi riposare o segnali che indichino la fine del percorso.
Non vi preoccupate: questa sensazione non significa necessariamente che voi e l’arte siete incompatibili o che i musei siano incredibilmente noiosi. In realtà questo fenomeno è piuttosto comune e si chiama ‘museum fatigue’.
Museum fatigue
Secondi gli studiosi di visitor studies, scienza che studia il comportamento del pubblico in luoghi di intrattenimento e di cultura, la museum fatigue è lo stato di stanchezza fisica e/o mentale determinata dall’esperienza museale.
Infatti, diversamente da quanto si ritiene comunemente, visitare un museo richiede un investimento di energie non indifferente, perché viene richiesto contemporaneamente uno sforzo fisico e mentale.
Concentriamoci sulla fatica fisica
Secondo Benjamin Gilman, curatore del Boston Museum of Fine Arts a cavallo tra il XIX e il XX secolo, la fatica fisica percepita dal visitatore deriva dalle posizioni che è costretto ad assumere mentre osserva le opere e legge le didascalie.
Nei suoi studi, Gilman ha infatti notato che gli oggetti riposti in teche posizionate in basso costringono il visitatore a flettere le ginocchia in avanti, così come le teche disposte in posizione quasi orizzontale, lo spingono a piegare i fianchi in avanti.
Questi movimenti, anche se apparentemente poco dispendiosi di energie, ripetuti nel tempo, generano affaticamento nel corpo. A questo si aggiungono le classiche azioni che uno compie al museo, come camminare per le sale, fermarsi e stare in piedi davanti alle opere. Certo, esse sono in generale attività fisiche a bassa intensità, ma non tutt* ci alleniamo per Tokyo 2021.
Ovviamente di diversa natura sono i fattori che determinano la stanchezza mentale
Come afferma lo psicologo Stephen Bitgood, specializzato in visitor studies, l’esperienza museale richiede uno sforzo mentale prolungato nel tempo, ponendo il visitatore di fronte a svariate sfide intellettuali.
Bitgood ne individua alcune, fra queste la serialità. Il visitatore si trova ad affrontare spesso una successione continua di opere piuttosto simili tra loro che contribuiscono a far calare l’interesse: una volta visti otto anelli d’oro etruschi, non avverto più il bisogno di soffermarmi sull’intera serie di settantré pezzi.
Un altro aspetto che può stancare è la sovrabbondanza di informazioni, spesso trasmesse da diversi media, come didascalie, audioguide e video interattivi, che rendono difficile l’assimilazione.
Un ulteriore elemento che mette a dura prova l’attenzione del visitatore è la talvolta eccessiva elaborazione dei testi, che presentano costruzioni sintattiche troppo articolate e concetti troppo complessi per essere immediatamente assimilati nel contesto di un’esperienza di tale genere. Tutti questi elementi, apparentemente secondari, contribuiscono invece grandemente a generare uno stato di affaticamento.
In generale, dalla letteratura emerge che la museum fatigue si percepisce maggiormente quando al visitatore viene richiesto di compiere uno sforzo in più, come avvicinarsi di più per osservare meglio l’opera o rileggere il testo più volte per capirlo.
Secondo Bitgood vi sono diversi accorgimenti che i musei possono adottare per ridurre l’affaticamento dei visitatori, come ad esempio rendere gli oggetti più distinguibili, aumentando il contrasto con lo sfondo, riprogettare il flusso del percorso, ripensare a come le informazioni sono presentate e offrire ai visitatori delle opportunità per prendersi delle pause dalla visita.
Sebbene lo studio della museum fatigue sia stato inaugurato con la ricerca di Gilman nel 1916, gli studiosi sono d’accordo nell’affermare che questo tema richiede maggiori approfondimenti, soprattutto in relazione al campo della psicologia cognitiva, che potrebbe fornire basi scientifiche alle osservazioni sociologiche.
Dunque, rasserenatevi: non siete sol*! E per la prossima volta che dissimulerete uno sbadiglio nel museo, non sentitevi in colpa.
Immagine di copertina:
Stephan Draschan
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