Negli ultimi anni il tema del gender pay gap ha conosciuto una popolarità sempre maggiore, in modo del tutto giustificato. Brevemente, il gender pay gap non è altro che la differenza tra la retribuzione oraria lorda media dellɜ dipendenti secondo il genere. Restando nell’Unione Europea, questa differenza è sempre a sfavore delle donne, sebbene in misura diversa in ogni paese.
Tuttavia, resta un indicatore limitato, che andrebbe affiancato ad altre statistiche. Infatti il gender pay gap prende in considerazione solamente lɜ lavoratorɜ dipendenti, escludendo quindi tuttɜ lɜ non-dipendenti e, soprattutto, lɜ disoccupatɜ.
È quindi necessario fare riferimento a un dato più esauriente.
A venire in supporto sono Theresa Neef e Anne-Sophie Robilliard, autrici della ricerca “Half the sky? The female labor income share in a global perspective” raccolta all’interno del World Inequality Report 2022.
Neef e Robilliard decidono di valutare la quota di reddito derivante dal lavoro piuttosto che la retribuzione oraria lorda. Il loro assunto è che nel reddito da lavoro sono comprese informazioni riguardanti non solo il lavoro dipendente, ma anche quello non dipendente e la disoccupazione: il lavoro non dipendente produce reddito come quello dipendente, mentre chi non lavora di reddito non ne produce.
Questa ricerca, il cui titolo fa riferimento alla celebre frase di Mao Zedong “Le donne sostengono metà del cielo”, rappresenta il più grande database su scala globale sulle quote di reddito femminile proveniente dal lavoro e descrive un lasso di tempo di 30 anni, dal 1990 fino al 2019.
Unendo i dati del 2019 della Commissione Europea sul gender pay gap con quelli di Neef e Robilliard sulle quote di reddito (sempre del 2019), il quadro europeo risulta altamente eterogeneo, come mostrato in figura.
Un paese senza discriminazioni di genere sarebbe collocato nell’angolo in alto a sinistra: lì il gender pay gap è pari allo 0% e la quota di reddito femminile al 50% (le donne rappresentano il 50% della popolazione numericamente). Come si può tristemente notare nessun paese si avvicina lontanamente a questo scenario.
La quota di reddito più alta spetta all’Estonia con quasi il 45%, la più bassa all’Austria ferma al 35%, mentre la media si attesta al 40%. Questo significa che il reddito di un uomo in Europa corrisponde a quello di una donna, più il 50% del reddito di un’altra donna europea. Un solco ancora importante.
Guardando poi al gender pay gap, è di nuovo l’Estonia a registrare il valore più alto con un 21,7% (anche se questa volta non è un dato di cui vantarsi come nel caso precedente), mentre il Lussemburgo mette a referto con un 1,3% il dato minore di gender pay gap, quando la media europea segna un 12,7%.
Insomma, nell’Unione per ogni mille euro guadagnati da una donna, un uomo mette in tasca 1270 euro. È interessante notare certi pattern caratteristici: i paesi dell’ex blocco sovietico Estonia e Lettonia sono paesi in cui le donne lavorano molto (in Lettonia più a lungo degli uomini) grazie alle politiche del secolo scorso, ma conoscono un fortissimo gender pay gap. Similmente nei paesi dell’Europa centro-orientale (Austria, Germania, Ungheria, Slovacchia e Repubblica Ceca), dove tuttavia la trattenuta sulla quota di reddito è ancora più significativa a causa di una, seppur alta, minor durata delle carriere delle donne (più le bolle sono grandi, maggiore è il divario di genere circa la lunghezza media della carriera).
Vi è poi il blocco dei paesi del sud Europa (Spagna, Grecia, Malta e Cipro) più l’Irlanda, dove le carriere femminili sono molto più brevi di quelle maschili a fronte di un gender pay gap ridotto.
Infine troviamo un gruppo centrale (forse i paesi più equi) che comprendono i paesi Scandinavi ma anche Portogallo, Francia, Bulgaria, Croazia e Lituania. In quest’ultimo insieme le carriere femminili sono piuttosto lunghe, il gender pay gap è limitato e infatti la quota di reddito è maggiore della media.
E l’Italia?
Il Belpaese rappresenta uno dei casi più particolari dal momento che ha valori tra i più bassi sia per il gender pay gap sia per la quota di reddito da lavoro femminile. Un risultato dal sapore agrodolce, poiché se è vero che se per il gender pay gap siamo il terzo paese più equo (4,7%) non dobbiamo farci illusioni: quando guardiamo al più completo dato della quota di reddito (36,1%) ci accorgiamo che fanno peggio di noi solo Austria e Germania.
Insomma il gender pay gap non sembrerebbe quindi la causa delle diseguaglianze di genere nel mercato del lavoro in Italia (come lo è ad esempio nei paesi ex-sovietici e dell’Europa Centro-Orientale).
Quali sono allora le cause?
In realtà sono assolutamente note, ma repetita iuvant: l’Italia è il secondo peggior paese in Europa quando si guarda alla differenza di durata di carriera espressa in anni (fate caso quindi alle dimensioni della bolla che sono impressionanti). Gli uomini italiani lavorano in media 9,4 anni in più delle donne e hanno un tasso di occupazione di 17,8 punti percentuali più alto.
La lontananza dal lavoro è dovuta principalmente all’interruzione della carriera in seguito alla maternità, il vero elefante nella stanza.
Quando si guarda al tasso di occupazione delle donne occupate con figlɜ che vivono in coppia, questo non va oltre il 53%, contro l’83% degli uomini a pari condizioni! E pensare che dellɜ laureatɜ italianɜ, il 57,1% sono donne.
Questa assenza dal mercato del lavoro fa crollare la quota di reddito femminile in Italia più di ogni altro fattore e di fatto rappresenta il problema più grande quando si guarda alla questione di genere italiana in ambito lavorativo.
Il gender pay gap non è l’unico problema
Un altro dato impressionante riguarda infatti il tasso di imprenditorialità femminile, un parametro fondamentale in ottica di reddito di lavoro dellɜ lavoratorɜ non-dipendenti.
In Italia per le donne la situazione è nuovamente drammatica e i numeri sono impietosi.
Dei paesi dell’area europea riportati in tabella, l’Italia ha i numeri peggiori: tendenzialmente le donne hanno scarse motivazioni da principio a mettersi in proprio (3,1% delle donne) e quelle poche che vorrebbero non vanno avanti né a uno stadio embrionale del proprio business (0,9%) né a uno maturo (0,8%).
Se è vero quindi che il gender pay gap sicuramente contribuisca ad abbassare la quota di reddito femminile in Italia, tuttavia non dà rappresentazione della causa principale del divario.
La troppo bassa quota di donne imprenditrici e soprattutto il fatto che le carriere femminili durano quasi 10 anni di meno di quelle degli uomini affossano drammaticamente la quota di reddito. Infine, osservando nel tempo l’evoluzione della quota di reddito femminile derivante dal lavoro, dal 1990 al 2019, si nota come l’ultimo decennio abbia rappresentato un periodo di stagnazione preoccupante: il livello è rimasto invariato al 2010, anzi è addirittura calato leggermente.
Quindi quando in Italia si osservano disparità di reddito tra uomini e donne e si vuole provare a capirne le cause, bisognerebbe sempre pensare a quella volta in cui il Professor Woodward disse ai suoi studenti di medicina:
“Se stai camminando per strada e senti un rumore di zoccoli dietro di te, non voltarti aspettandoti di vedere una zebra. Aspettati un cavallo.”
Il nostro cavallo, quello su cui ci ostiniamo a puntare nella scommessa truccata delle pari opportunità, è rappresentato dalla disoccupazione.
Immagine di copertina:
wall:in media agency con illustrazione di Martina Spanu
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