“Il grado e mezzo è vivo, ma il suo battito è flebile” afferma Alok Sharma, presidente della COP26. Nella cornice di Glasgow sono state due settimane di tensioni emotive, di accordi fatti e poi disfatti, di sogni e frustrazioni. Alla fine, lo slogan è salvo, per ora.
Con gli occhi di tutti puntati addosso, la COP26 era stata dipinta come l’ultima chance per salvare la Terra. Se questa pressione aveva sì montato illusioni sproporzionate, allo stesso modo ha probabilmente suscitato una reazione nei delegati, che possono marcare a referto qualche punto significativo.
Keep 1.5 alive è stato il mantra di Glasgow
Così si è deciso di rinnovare il famoso obiettivo degli accordi di Parigi del 2015: impegnarsi globalmente a non superare entro il 2100 la soglia dei 1,5°C di surriscaldamento rispetto ai tempi preindustriali. Da qui tutto deve partire.
Ecco quindi come nel Glasgow Final Pact, il documento che riassume gli obiettivi e gli accordi sanciti presso la COP26 di Glasgow, viene riconosciuta l’importanza di diminuire del 45% le emissioni di CO2 entro il 2030 (rispetto al 2010) e di ottenere un bilancio nullo verso metà secolo (net zero emissions).
Bisogna subito chiarire come il Glagow Final Pact sia più che altro un insieme di impegni non vincolanti piuttosto che un regolamento vero e proprio, delle prese di coscienza e non delle leggi, un coacervo di pledges, acknowledgments, welcomes, recognizes, termini che esprimono concetti e decisioni tutt’altro che irreversibili. Non mancano però i provvedimenti più concreti ed ecco che, restando nel tema Keep 1.5 alive, si è presa la decisione di regolare gli impegni sulle emissioni annualmente e non più ogni cinque anni, per favorire un migliore monitoraggio.
A questo punto il nocciolo della questione diventa come a Glasgow si sia pensato di limitare le emissioni globali.
Al termine della COP26 ci ritroviamo con quattro accordi principali tra le mani.
- La questione delle fonti fossili.
Più di 100 stati hanno preso l’impegno a diminuire del 30% le emissioni di metano entro il 2030. Tuttavia l’attenzione era calamitata su Cina e India, i due paesi più popolosi al mondo e soprattutto due sistemi socioeconomici che ambiscono e pretendono di svilupparsi massicciamente, con tutto ciò che ne deriva, incluse inevitabili e altrettanto estese emissioni. L’accordo finale ha lasciato l’amaro in bocca ai paesi del Primo Mondo, anche perché rivisto in favore dei due stati asiatici sul finire della COP26. Entrambi si impegneranno a diminuire (phase-down, e non più abbandonare come previsto nelle prime bozze, phase-out) l’utilizzo di carbone, la fonte fossile che rilascia più CO2 a parità di energia fornita e quindi la più inquinante, di cui Cina e India fanno ancora largo utilizzo. L’India poi ha annunciato che metà della sua energia proverrà da fonti non fossili entro il 2030 e che raggiungerà l’obiettivo net zero emissions entro il 2070.
Il termine phase-out viene menzionato quando si parla di sussidi alle fonti fossili in generale, i quali ammontano a circa 400 miliardi di dollari ogni anno. Resta da capire se e come questo obiettivo estremamente ambizioso verrà realizzato.
- Il nodo foreste.
Più di 100 stati si impegnano ad annullare la deforestazione entro il 2030. Tra questi ci sono anche Stati Uniti, Cina, Russia e soprattutto Brasile. Il piano copre l’85% delle foreste mondiali e prevede lo stanziamento di 20 miliardi per la sua realizzazione.
- Gli aiuti per le economie più povere.
Nella COP di Copenaghen del 2009 fu deciso di stanziare 100 miliardi all’anno entro il 2020 di fondi per i paesi del Terzo Mondo da reinvestire in programmi per la mitigation, cioè lo sviluppo sostenibile, e l’adaptation, ovvero la creazione di sistemi che possano fronteggiare i cambiamenti climatici, un’azione quindi più a valle. Si tratta di una questione fondamentale, dal momento che i paesi più poveri sono purtroppo anche quelli ambientalmente più fragili, pur essendo ironicamente quelli che emettono di meno in assoluto. Finora il programma del 2009 non si è mai compiuto del tutto e il supporto è sempre stato minore rispetto a quello promesso. Per questo motivo il programma è stato rinnovato per cinque anni, senza compensazioni, sperando che stavolta venga rispettato al 100%.
Se questi aiuti andranno quindi a coprire i danni climatici causati dai grandi inquinatori nei prossimi anni nei confronti dei paesi meno industrializzati, l’accordo non prevede alcun risarcimento per i danni “passati”. Infatti, i paesi più deboli hanno chiesto un indennizzo per i decenni di inquinamento provocato dalle grandi economie globali a discapito dei loro ecosistemi, ma la trattativa si è conclusa con un nulla di fatto, tra la delusione dei delegati del Terzo Mondo.
- I crediti di carbonio.
Con l’accordo di Kyoto del 1997 si introdusse il concetto di crediti di carbonio. Ovvero un paese più inquinante poteva comprare crediti di carbonio presso un paese meno inquinante per compensare il rilascio nell’ambiente di larghe quantità di gas serra. Questo processo non è stato esente da critiche negli anni, soprattutto per quanto riguarda le modalità applicative “Vogliamo un mercato credibile che possa portare alla diminuzione delle emissioni, non solo un lasciapassare per gli stati per comprare crediti offshore a basso costo per soddisfare i propri obiettivi nazionali” dice Ian Fry, negoziatore delle Isole Solomon. Per questo motivo, una serie di dettagli tecnici è stata aggiornata in modo da favorire la trasparenza per le rendicontazioni e consentire analisi veritiere tra gli stati dal 2024.
Secondo i calcoli, se si dovessero seguire le promesse di Glasgow, nel 2100 il surriscaldamento toccherà il livello di +1,8°C, mentre se si seguisse l’andamento attuale si raggiungerebbe un drammatico +2,7°C. Tuttavia, guardare al 2100 oggi ha poco senso.
In primis poiché le politiche e gli avvenimenti cambiano in modo imprevedibile anche in lassi di tempi molto ridotti; secondariamente va purtroppo ribadito il concetto di come gli accordi come quello della COP26 non siano vincolanti per gli stati, i quali infatti in larga parte non dichiarano, rinnovano o migliorano specifici obiettivi che li riguardano (i Nationally Determined Contributions, NDC).
Non tutto è però da buttare.
Oltre al lancio di iniziative importanti e concrete come quelle descritte in precedenza, COP26 ha dimostrato la centralità che ricopre oggi la questione ambientale: qualcuno dirà che è solo bla bla bla, forse anche a ragione, ma aver voluto mantenere vivo l’1,5 nonostante il suo respiro si flebile, resta un segnale forte. Non si è caduti nella tentazione di resettare tutto e giocare al ribasso.
Il fatto poi di voler intensificare gli incontri, le analisi e le scadenze rappresenta un ottimo passo in avanti e la COP27 in Egitto è già in programma per Novembre 2022. La partita è lunga e, per quanto l’urgenza sia massima, non possiamo credere che tutto si risolva all’interno di una COP, in due settimane.
E Genova?
Se è vero che la questione ambientale rappresenta un fenomeno globale, ogni comunità nel suo piccolo può fare la differenza ogni giorno, Genova inclusa. Il cambiamento passa anche dalle politiche locali, non solo dal mega summit internazionale.
Genova, per esempio, rientra nel 30% dei capoluoghi di provincia che applicano almeno l’80% dei Criteri Ambientali Minimi nelle procedure di gara. Non mancano poi diverse iniziative interessanti.
In primis, il progetto Green ports, presentato dall’Autorità di Sistema Portuale del Mar Ligure occidentale in risposta al bando del Ministero della Transizione Ecologica nell’ambito del PNRR. Un progetto da 35 milioni di euro che riguarda i porti di Genova a Savona e ne prevede l’ammodernamento attraverso l’impiego di impianti per l’utilizzo di energia pulita all’interno dei porti stessi, in particolare sfruttando l’energia solare e l’idrogeno.
Restando in tema porti, spostandoci in quello di Prà, sono stati progettati miglioramenti nelle connessioni tra l’autostrada e il porto, favorendo anche la capacità di movimentazione ferroviaria. Si tratta di lavori che renderanno il traffico più fluido con conseguente impatto positivo sulle emissioni di CO2.
Infine, come non menzionare la tanto chiacchierata sperimentazione della mobilità pubblica gratuita genovese iniziata il 1 Dicembre e in programma fino al 31 Marzo? Essa vedrà coinvolta la metropolitana e gli impianti verticali nelle fasce non di punta. Si tratta quindi di un’iniziativa piuttosto limitata, oltre ad essere accompagnata da molti sospetti che la vedono esclusivamente come un puro spot elettorale in vista delle prossime elezioni comunali primaverili. Tuttavia Genova non può non fare i conti sia con i suoi porti che con la sua mobilità fortemente privata se vuole allinearsi agli obiettivi della COP26.
Immagine di copertina:
COP26 UN Climate Change Conference UK 2021
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