Nell’aprile del 2018 ho scoperto di essere incinta. Era una gravidanza cercata e l’unica sorpresa riguardava la rapidità con cui era arrivata. Una sorpresa felice e bellissima, che nulla aveva a che vedere con ben altre situazioni sorprendenti che mi sarei trovata a vivere nei mesi e negli anni a venire.
Se c’è infatti qualcosa di vero nell’odioso adagio “quando sarai madre/genitorǝ capirai”, a mio parere non consiste tanto nell’apprendere come possa essere profonda, viscerale questa relazione, quanto piuttosto nell’acquisire consapevolezza di cosa implichi crescere unǝ figliǝ, dentro e fuori dall’utero. E di come lo si debba fare da solɜ.
Una solitudine abissale che trascende il nucleo familiare comunque sia composto e organizzato, o meglio lo penetra, lo innerva e lo condiziona, perché proviene da un ambito di appartenenza ben più inaggirabile: cioè dalla società stessa.
È in questo contesto che emergono le maggiori criticità, le lacune, le assenze rispetto a quelle che sono le esigenze dellɜ nuovɜ piccolɜ cittadinɜ e di chi ne è genitorǝ. Nonostante l’onore del giudizio sulla genitorialità sia sempre rivendicato socialmente, per cui chiunque si sente in diritto di esprimere pareri, lodi e condanne su come altrɜ sono genitorɜ, di rado la società assume la responsabilità di tutti gli oneri che questo interesse dovrebbe comportare. Vediamo come.
La gravidanza non è una malattia
Una volta appresa la notizia di essere in stato di gravidanza è necessario procedere con una serie di controlli e visite, il cui numero variabile dipende da alcuni fattori.
In primo luogo, da quanto la gestazione sia fisiologica, come di norma è. Perché la gravidanza non è una malattia, come la maggior parte di noi apprende solo quando si trova a viverla – e talvolta neanche in questa circostanza: la via maestra è sempre quella della medicalizzazione, che, sebbene sia quella che io stessa consapevolmente ho scelto, spesso si impone come unico percorso possibile in quello che è un processo così intimo da dover essere più rispettoso dell’individualità che sta intorno all’utero in questione.
In secondo luogo, cioè, dovrebbe essere possibile per qualunque gestante avere accesso alle informazioni che lǝ permettano di decidere come portare avanti la gravidanza, da quali figure farsi seguire, quali controlli eseguire, quali esami approfondire. Scelte che solo con un adeguato supporto possono davvero essere compiute, perché si tratta come sempre di mediare tra ciò che è necessario, e che solo unǝ specialista può individuare, e ciò che è opportuno, e che soltanto la persona incinta può definire.
Si tratta quindi di restituire dignità di soggetto senziente allǝ gestante, di cui invece verrà tendenzialmente deprivatǝ per il resto del suo percorso genitoriale.
Le eccezioni non mancano: esistono figure capaci di guidare attraverso l’esperienza della gravidanza di modo che sia vissuta in prima persona, ma, facendo la tara di eventuali conoscenze personali, nel pubblico si incontrano spesso molto tardi (solo durante il cosiddetto corso pre-parto, negli ultimi mesi di gravidanza), se si incontrano, mentre nel privato occorre avere le risorse adeguate, sia in termini di cognizione delle varie strutture, sia per ciò che concerne la propria disponibilità economica.
Occorre avere le risorse adeguate
Un fattore, quello delle risorse, che si rivela cruciale a ogni stadio della riproduzione, ben più di quanto si potrebbe comunemente pensare. Per esempio, laddove ci si trovi nella condizione di dover eseguire una serie di controlli, obbligatori o volontari che siano, si scoprirà che occorrono una serie di requisiti estrinseci come il tempo per aspettare di poterlo fare nel pubblico o il denaro per rivolgersi al privato.
E ancora, se si ha un impiego, serve un contratto di lavoro in cui siano previsti appositi permessi, non solo per poter eseguire gli esami, ma talvolta anche per ritirarne i referti, per i quali non sempre è possibile delegare altri.
Poniamo che, in qualche modo, la gestione sanitaria della gravidanza sia stata organizzata: ancora a questo stadio ci sono alcune situazioni da considerare.
Durante la gestazione possono subentrare delle nuove esigenze, meno prorogabili che in altri momenti della propria vita corporea, dall’usare un bagno con maggiore frequenza al doversi sedere più a lungo. Per ciò che concerne l’accesso ai servizi igienici, quelli pubblici sono pochi e mal distribuiti: non si può davvero pensare ogni volta di sgattaiolare dentro a qualche negozio oppure di affidarsi alla disponibilità, per non dire al buon cuore, dellɜ gestorɜ di bar e caffè.
Per quanto riguarda invece la possibilità di prendere posto a sedere, nonostante la cartellonistica sia molto fiera dell’attenzione corrisposta allɜ gestanti, vi assicuro che prendere qualsiasi mezzo pubblico in città non ha mai comportato la stessa premura da parte dellɜ suɜ viaggiatorɜ né un’adeguata sollecitudine da parte di chi potrebbe far rispettare queste gentili indicazioni.
La dimensione fisica non è tuttavia disgiunta da quella psichica ed entrambe sono coinvolte nel percorso di accompagnamento alla nascita che molti consultori pubblici e molti reparti ospedalieri offrono. O offrivano, prima che la pandemia spostasse la nostra vita online.
Sebbene nello specifico di questi corsi sia possibile apprendere le nozioni fondamentali anche per questo tramite, può tuttavia venire a mancare l’accesso a quella comunità di futurɜ genitorɜ che possono sostenersi nei mesi a venire, anche una volta partorito. Soprattutto allora.
Una voragine di scarsa attenzione
Nella fortunata circostanza in cui si riesca a vivere il momento del parto senza subire violenza ostetrica (senza cioè che vengano imposte o negate procedure mediche e/o che venga meno il sacrosanto rispetto per la persona), dopo si apre una voragine. Tutta la scarsa attenzione già ricevuta da gestante dilegua in una specie di buco nero.
Intanto durante la degenza, in cui di rado è possibile scegliere tra le diverse opzioni di accudimento e di sostegno, spesso proposte come vincolanti nella versione ritenuta Verbo dal personale in turno, e in cui in epoca pandemica non si può neanche contare sulla presenza dell’altrǝ genitorǝ.
Ricordo i giorni in ospedale come momenti arricchiti dal supporto dellɜ parenti e dalle lunghe ore di visita di mio marito, nonché resi sostenibili dalle infermiere pediatriche che mi hanno aiutata, anche a dormire qualche ora occupandosi di mia figlia mentre mi stavo riprendendo da quell’intervento di chirurgia maggiore che è un parto cesareo. Non oserei immaginare cosa sia per chi non ha avuto queste possibilità se non me lo avessero raccontato.
Ma la gravidanza e il parto non sono che l’inizio.
Prima della pandemia solo alcuni dei consultori pubblici sul territorio offrivano una serie di percorsi post-nascita (in parte traslati ora online), molto importanti sotto diversi profili. Intanto perché ricreavano uno spazio di confronto non giudicante che alleviava il peso della solitudine, tipica delle prime settimane di vita neonatale. Eventuali difficoltà psicologiche avevano qui un luogo protetto in cui emergere ed essere affrontate.
Lo stesso valeva per l’apprendimento di tutte quelle attività di accudimento che nessuna persona ha innate: nutrire al seno o con il biberon, monitorare peso e sonno, medicare il cordone ombelicale e pulire correttamente i genitali, interpretare le richieste non verbali, gestire l’addormentamento e la consolazione dal pianto in sicurezza, acquisire informazioni importanti sullo sviluppo psico-fisico dellǝ bambinǝ.
Rientrano in questo ultimo aspetto tutte quelle proposte formative che recuperano il senso ampio della cura, dal massaggio infantile all’introduzione della lettura con gruppi come Nati per Leggere. Così come appartengono a un senso più specifico del termine corsi come quello della disostruzione delle vie aeree – un fondamentale salvavita – e tutte le informazioni relative alle vaccinazioni, obbligatorie e consigliate.
Dobbiamo davvero presupporre che qualunque genitorǝ abbia accesso a tutte queste opportunità? Dove trovarle se l’offerta pubblica è inadeguata e quella privata inaccessibile?
Non che altri aspetti della vita quotidiana vadano meglio. Uscire di casa con una fascia è qualcosa per cui si deve essere adeguatamente formate, cosa che non avviene quasi mai gratuitamente, mentre con un passeggino è un’impresa ai limiti del sovrannaturale, almeno in una città come la nostra dove i marciapiedi sono piccoli, dissestati, spesso impegnati da macchine in divieto di sosta accuratamente non multate.
Non so se avete mai provato a sollevare una carrozzina, magari con i postumi di un parto comunque sia avvenuto, solo perché un microscopico gradino ha impedito alle ruote di continuare a scivolare dall’attraversamento al marciapiedi, ma, credetemi, non è divertente. Così come non lo è stato compiere la stessa operazione – questa volta con la versione passeggino-ovetto del medesimo, orrendamente pesante, set trio – per salire su un autobus di linea lə cui conducente si è ben guardatə dall’utilizzare una pedana (senza menzionare l’umana decenza di scendere ad aiutare un’altra persona).
Non posso neanche dirmi sfortunata perché il quartiere dove abito, Pegli, permette sicuramente di muoversi molto meglio di altri, sebbene la sua stazione ferroviaria non sfiguri vicino alle altre quanto a barriere architettoniche.
Ma se io ho vissuto queste difficoltà nei pochi anni in cui mia figlia ha avuto bisogno di un supporto per muoversi, cosa possiamo dedurne sull’accessibilità della nostra città?
Non mi arrogo il diritto di rispondere a una domanda su cui le persone disabili sono le uniche autorizzate a esprimersi, ma penso non sia inopportuno ricordarci che l’essere abili è solo una condizione temporanea nella vita di tuttɜ noi.
Il problema degli spazi, peraltro, si estende a dismisura: mancano sufficienti luoghi per svolgere tutte le attività di accudimento, dal cambiare un pannolino all’allattare, così come quelli che possano permettere attività ricreative senza dover mettere mano al portafogli. Quando ci sono, sono pochi, il che significa che non sono semplici da raggiungere, e sugli spostamenti ho già detto molto.
Spazio significa però anche un luogo in cui le responsabilità della crescita vengano condivise, così che le madri – sono soprattutto loro a farsi carico del lavoro di cura, ma vale per ogni genitorǝ – possano riorganizzare il tempo della propria vita, per esempio rientrando al lavoro, dato che non tutti i contratti garantiscono tutele per chi ha preso maternità, le lavoratrici indipendenti nemmeno possono immaginarlo e sul congedo paterno la discussione politica si è non sorprendentemente arenata.
Servizi all’infanzia
Parliamo di servizi all’infanzia nella fascia 0-3: i cosiddetti asili nido comunali o convenzionati sono in effetti molti e i sostegni economici per le famiglie esistono (o, dovrei dire, esistevano prima dell’assegno unico che ne ha modificato l’erogazione).
Ma gli accrediti arrivano quando arrivano, il che significa che ci si può dover trovare ad anticipare dai 350 ai 600 euro circa ogni mese, cifra che si somma a tutte le altre spese che unǝ figliǝ comporta e che spesso includono anche il ricorso a ulteriori figure accudenti, perché non tutti gli orari di lavoro sono coperti dai servizi educativi e non tutte le famiglie possono contare su parenti disponibili 24 ore al giorno.
Potrei proseguire, a lungo, pur essendomi limitata alla mia esperienza che non ha mai dovuto fare i conti con situazioni di difficoltà extra-fisiologica, in nessuna sua fase. Sono anche certa che negli anni a venire scoprirò ancora molti altri aspetti della genitorialità per cui l’unica reazione della collettività suona sempre come “Hai voluto la bicicletta?…”. Una domanda a cui è necessario dare una risposta radicalmente diversa dal silenzio colpevole che spesso coglie chi è impegnatǝ nella genitorialità.
La responsabilità di unǝ genitorǝ è immensa e incedibile, ma non include anche quegli aspetti della vita condivisa che non spetta a lǝi fornire o compensare. Erogare e garantire i servizi qui menzionati è invece dovere della città e della città soltanto, così come è compito della società sia sincerarsi che esistano, sia, in generale, prendersi cura dell’altrǝ.
Perché se davvero siamo interessatɜ all’impatto che la denatalità può avere su scala nazionale (mentre in ottica transnazionale potrebbe essere la salvezza del pianeta), dobbiamo anche cominciare a fare i conti con ciò che ogni nascita comporta. Al di là della retorica che spesso gonfia il petto delle autorità ufficiali e ufficiose, imparare ad assumerci la responsabilità di essere quel villaggio che è indispensabile per crescere unǝ figliǝ.
Immagine di copertina:
wall:in media agency con illustrazione di Martina Spanu
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