C’è un passaggio obbligato dalla Sala delle Meridiane verso il Salotto Turco in cui campeggia un espositore di cartoline. L’armonia decadente delle stanze del Capitano d’Albertis è lacerata e insieme esaltata da un magro stand da negozio di souvenir.
L’asta centrale è come un perno attorno al quale lɜ visitatorɜ seguono il senso orario della giostra delle cartoline, grazie al quale notano forse per la prima volta, con l’immancabile sorriso appena accennato di chi la sa proprio lunga, oggetti e decori che si erano lasciatɜ sfuggire pochi attimi prima, nelle stanze appena percorse.
Sul retro delle immagini, la scritta “I can hear them chirping” (“Li sento cinguettare”), il cui significato si coglie meglio accedendo al QR code stampato al posto del francobollo.
L’opera di Emma Sandstrom e Stefano Conti è uno dei nove lavori installati da Mixta per la mostra “It Takes a Thousand Voices to Tell a Single Story” al Museo delle Culture del Mondo, nell’ambito di Code War Project 2021.
Il fascino della mostra sta tutto lì, nell’interazione profonda con l’esposizione permanente del museo
È un fatto noto che Castello D’Albertis sia una delle Cenerentole della rete museale cittadina, tanto ricco di manufatti di incredibile valore quanto penalizzato dalla sua collocazione immediatamente fuori dai – sempre troppo ristretti – percorsi turistici promossi da #Genovamorethanthis.
Ecco, Mixta ha voluto giocare con questa condizione per mettere la collezione in dialogo con un’altra forma d’arte poco frequentata dallɜ genovesi, ossia l’arte contemporanea.
Un’operazione delicata sia sul fronte materiale dell’allestimento, per altro condotto con una sagace eleganza un po’ snob, tipicamente artsy, sia sul fronte della selezione dei lavori e in particolare dell’esecuzione di quelli site-specific, che si inseriscono in un ambiente dal codice comunicativo totalizzante e in quanto tale potenzialmente soverchiante.
Curiosamente, sono proprio le opere più contenute, meno aggressive visivamente, o meno ingombranti, a interagire al meglio con le stanze del museo.
Al punto di mimetizzarsi, adeguarsi all’ambiente in modo così comodo da richiedere uno sforzo di attenzione da parte dellɜ fruitorɜ per essere individuate: in particolare, “This may be” di Indiara di Benedetto e “Rupestri” di Federico Zurani e Timoteo Carbone diventano un tutt’uno con gli apparati del museo, creando di fatto molteplici possibilità di lettura anche in senso museografico.
Ciò che colpisce, e che è oltremodo sottolineato nel comunicato di accompagnamento alla mostra, è la disponibilità del museo a ospitare un’operazione che discute, e a tratti mette in crisi, alcuni suoi aspetti costitutivi e peculiari.
Come si pone Castello D’Albertis verso la modernità e la tecnologia? Cosa vedono e notano lɜ visitatorɜ quando ne percorrono gli spazi? Come si leggono gli oggetti in esposizione, come testimonianze storiche, curiosità, pezzi da archeologia? Che valore ha l’apparato decorativo? In che rapporto stanno l’istituzione museale e le culture del mondo, quel mondo altro, non bianco, non occidentale, da cui trae il suo nome e la sua ragion d’essere? Cosa rimane oggi del progetto collezionistico del Capitano D’Albertis?
Alzi la mano chi ricorda l’ultima volta che a Genova si sia vista una capacità di dialogo così forte, serena e urgente rispetto alle tematiche del contemporaneo.
La ricerca sulla decolonizzazione, sullo sguardo bianco e sulla voce bianca, sul senso stesso del museo ai nostri giorni è quantomai viva in tutto il mondo. Fa bene tenere a mente come una riflessione puntuale, approfondita ed equilibrata in merito ci sia stata portata da due outsider del panorama culturale cittadino – ognunə tragga da sé le sue conclusioni.
La visita al Castello, già di per sé occasione di scoperta e meraviglia continue, si tinge grazie a Mixta di una complessità che non appesantisce la narrazione espositiva, anzi ne mette in risalto la capacità di connettersi a tutto ciò che vive al di fuori delle sue mura e la predisposizione a creare una relazione significativa tra voci apparentemente lontane, sia nello spazio sia nel tempo.
“It Takes a Thousand Voices to Tell a Single Story” sarà visitabile fino al 18 dicembre 2021.
Immagine di copertina:
GabrielaAcha, It Takes a Thousand Voices to Tell a Single Story, Genova. Foto di Mixta
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