Refugees Welcome Italia, Genova

Accogliere in casa *qualsiasi* profugo: l’attivismo di Refugees Welcome Italia

In questo tempo di grande empatia e spirito europeo, riflettiamo sul salto culturale che dobbiamo fare. Due parole con Refugees Welcome Italia.
5 Aprile 2022
14 min
1.6K views

Mamma, anche noi potremmo ospitare una famiglia, una persona che scappa dall’Ucraina!…aspetta, potremmo ospitare qualsiasi famiglia, qualsiasi persona che scappa da una guerra!’, ha detto così l’altra sera a cena mia figlia. Ci è arrivata anche lei: non ci sono profughi più belli, ma, purtroppo, solo persone che scappano e cercano rifugio e accoglienza.”

Sono le parole dei bambini e dei ragazzi quelle che sanno sempre colpire meglio, perché sono autentiche e immediate. Sono le parole della figlia di Marta Cambiaggi, referente Famiglie del gruppo di Genova di Refugees Welcome Italia.

Ho voluto parlare con lei. Anzi, è lei che ha voluto la ascoltassi, la ascoltassimo tutti noi, per raccogliere una voce certamente coinvolta e certamente schierata a favore delle persone. Appunto, dalla parte di tutte le persone, senza distinzioni né preferenze.

Abbiamo toccato quota sessantamila persone arrivate in Italia dall’Ucraina: per noi liguri vuol dire tante persone come una nuova Savona, o due Rapallo, o una ampia Sanremo.

In diretta con il Parlamento italiano riunito, il Presidente ucraino Volodomir Zelenski ha paragonato la città portuale di Mariupol, assediata e distrutta dall’esercito russo, proprio alla nostra Genova (Link la Video). Non possiamo esimerci dal fermarci a riflettere. La guerra infuria e la diplomazia boccheggia. I cuori e le menti sono presi dal sentimento forte della solidarietà per il popolo ucraino. Ma la ragione deve sempre continuare ad operare e peraltro cogliere spunti preziosi per progredire, ancora.

Voglio allora lasciare a Cambiaggi molto spazio, e ascoltare più che chiedere o affermare

Marta Cambiaggi: “La crisi è vicina, lo capiamo e lo percepiamo. Ci tocca più da vicino, perché siamo in Europa, perché magari persone di nazionalità ucraina che vivono e lavorano qui a Genova le conosciamo. Però come RW [Refugees Welcome, così d’ora in avanti, nda] non possiamo fare distinzioni tra questa guerra e qualsiasi altra egualmente sciagurata guerra, di qualsiasi altro Paese del mondo, di cui magari non sappiamo proprio un bel niente. Cerchiamo di mantenere la barra dritta, comprendendo appieno – e in parte anche vivendo – i motivi di tutta questa emotività ed empatia per la situazione ucraina e le persone ucraine, ma cercando di spiegare anche alle famiglie che si iscrivono al nostro programma che noi non vorremo denaturare il nostro progetto, ma vorremmo andare avanti così. Perché è importante.

E speriamo anche che questa crisi faccia riflettere le persone su questa cosa: che non si possono fare distinzioni tra rifugiati.

Non possiamo non registrare ed evidenziare che, purtroppo e ancora, c’è l’elemento forte del razzismo, anche nei territori al confine con l’Ucraina e non solo. Nel senso che non passi, ti fermano, ti fanno tante più domande, ti respingono in base al colore della tua pelle. Emergono situazioni tragiche che dobbiamo, purtroppo, portare alla luce.

Perché il profugo, nero, che viene qui scappando dall’Africa non ha mai avuto un treno gratis, nemmeno per ricongiungersi con un parente, una persona cara, che lui sa abitare in Francia, o in Germania. Perché? Invece i profughi ucraini ora hanno treni gratis in tutta Europa.

Perché un profugo nero che arriva in Italia non ha automaticamente un permesso di soggiorno per tre mesi, per poter andare dove ritiene opportuno e necessario per sé, per avere diritto alla libertà di movimento? Invece i profughi ucraini ora lo hanno, immediatamente.

Non sto dicendo che sia solo una questione di colore della pelle, però questi dati, ora più che mai, emergono e ci fanno interrogare, ci devono far interrogare.

Pensiamo a qualche mese fa, alla questione bielorussa: l’arrivo di voli dal Medio Oriente (Minsk ha un volo diretto ogni giorno da Damasco) con tremila persone che cercavano di varcare il confine e entrare in Polonia. La stessa Polonia che ora è la porta di ingresso in Europa per i profughi ucraini. In quella occasione la reazione è stata opposta.

Quattro mesi fa, lo stesso Paese, la stessa Europa, gli stessi noi.

Forse perché quei migranti non erano europei? Forse perché la Bielorussia è un Paese a noi inviso, meno europeo, o che magari conduceva in mala fede questa operazione di pressione?

Però stavamo parlando allora di tremila persone: oggi sono tre milioni gli ucraini che si sono già mossi dal proprio Paese. Tremila persone in questa crisi ucraina vengono gestite in un solo giorno. Allora abbiamo sollevato un polverone pazzesco, con episodi anche di razzismo palese come squadroni di polacchi che al confine andavano a “dare la caccia al nero”, mentre oggi invece accogliamo tre milioni di ucraini.

È meraviglioso che questa crisi venga affrontata così bene dall’Europa: è la prova che siamo davvero ben organizzati e finalmente compatti. Mi domando però come mai la crisi bielorussa non sia stata affrontata nella stessa maniera.

Perché sarebbe anche stato uno smacco alla Bielorussia: “toh, guarda, queste tremila persone, che tu scacci e ci mandi addosso come strumento di pressione, noi sappiamo gestirle in un sol giorno”. E lo strumento della pressione migratoria ai confini la avremmo risolta. Problema azzerato. Invece lì ci siamo bloccati e di fatto abbiamo detto “il confine dell’Europa c’è, c’è quando l’Europa decide che ci sia”. Con la Bielorussia sì, con l’Ucraina no.”

Marta ha uno sguardo sereno e una voce ferma mentre mi pone questi profondi interrogativi che non possono non scuotere le nostre coscienze, come persone.

Alla luce di quanto detto, come si sta comportando l’Europa?

M.C.: “Esiste Frontex, l’agenzia europea che riceve cospicui fondi per proteggere i confini dell’Europa; non è proprio la nostra idea di Europa ‘sta roba qua. RW ha aderito a una campagna per abolire Frontex, e per mettere in piedi un altro sistema, più accogliente. Perché se noi non siamo accoglienti in Europa, l’Europa non funziona.

RWI: Rifugiati e profughi
Vignetta della campagna “Abolish Frontex”. Foto di Refugees Welcome Italia – Genova

La risposta all’Ucraina è la risposta più europeista possibile. La risposta però oggi, più che all’emergenza migratoria, è all’emergenza del rifugio, perché queste persone scappano da una guerra. Però ce ne sono tante altre centinaia, migliaia di persone che scappano da una guerra, pur non provenendo dall’Ucraina.

Bisogna pensare ad organizzarsi meglio per accogliere le persone che scappano da una guerra o comunque da situazioni terribili, qualsiasi sia il loro Paese di provenienza. Speriamo che l’Europa faccia tesoro di questa compattezza di comportamento di tutti i Paesi, non più solo quelli del Sud ma anche quelli dell’Est, e che la si possa utilizzare sempre.

Tutte le volte che l’Italia ha chiesto aiuto nella gestione dei profughi dall’Africa e dal Medio Oriente, il Gruppo di Visegrad (Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia e Ungheria) si è voltato dall’altra parte e ha negato l’aiuto. Questa risposta di oggi diverrà un argomento concreto e incontrovertibile della necessaria solidarietà e compattezza.

Tra i principi dell’Europa ci sono l’accoglienza, l’apertura, la democraticità. Un’altra cosa è diventare Paese dell’Unione Europea. Ma le persone che scappano dalla guerra devono ricevere sempre lo stesso trattamento. Così come oggi abbiamo finalmente deciso di abbracciare i profughi ucraini, da domani impariamo ad abbracciare qualsiasi profugo di qualsiasi Paese, di qualsiasi colore e credo religioso, perché staremmo comunque abbracciando un essere umano, nulla di più nulla di meno.”

La forte incoerenza che oggi si manifesta alla luce del sole: questo è ciò che ci mostra Marta.

Il vostro modello è l’accoglienza in famiglia: cosa cercate in una famiglia perché possa partecipare al vostro progetto?

M.C.: ”Il modello di accoglienza di RW è il modello di accoglienza in famiglia. Modello molto intimo e che funziona benissimo quando c’è la volontà da parte di entrambe le parti di creare questa magia. Per accogliere serve una famiglia, una stanza con un letto, la volontà di far parte di un progetto ad obiettivi, per una convivenza di minimo sei mesi e massimo un anno.

Sul territorio genovese le famiglie che si iscrivono sono tante, forse non lo si direbbe! In tante famiglie si propongono, noi le contattiamo e ascoltiamo le loro aspettative e raccontiamo loro il nostro progetto. C’è chi è pronto anche ad offrire il divano di casa propria, ma per un anno non si può certo ospitare su un divano… però quello che noto io, in veste di referente famiglie, è che il progetto piace sempre e a tutti tantissimo.

Da quando è scoppiata la guerra si è iscritto un numero di famiglie superiore a quante famiglie si sono iscritte ogni anno negli anni scorsi. Nel momento in cui ti iscrivi a RW e dici che sei di Genova la richiesta viene dirottata al gruppo territoriale di Genova.

Quanto ai requisiti richiesti alle famiglie, noi non facciamo distinzioni, così come non ne facciamo per i profughi.

Per noi famiglia è tante cose: un papà una mamma e due bambini, come da immaginario, così come una persona singola e un cane, una coppia omosessuale, un gruppo di coinquilini, qualsiasi formula comunitaria o anche una sola persona, purché abbia una casa con una stanza singola da mettere a disposizione. 

Questo è il nostro modo di lavorare: appena le famiglie si iscrivono noi le chiamiamo, facciamo una chiamata di  primo contatto e capiamo quali sono le loro motivazioni, le loro aspettative, le loro disponibilità. 

Per prima cosa profiliamo le famiglie, tutte. La profilazione è necessaria per verificare che siano idonee sia al progetto di Refugees Welcome in generale sia alle opportunità presenti a Genova.

In tante famiglie ci dicono “non abbiamo una stanza da mettere a disposizione, ma vorremmo ospitare dei profughi per un breve periodo”, e automaticamente non sono idonee all’accoglienza di RW, ma non disperdiamo questa disponibilità, solo la reindirizziamo verso altre proposte ed altri progetti. Tanti quando spieghiamo il progetto, comprendendolo, si rendono conto di non essere pronti, ma è già capitato ci abbiano ricontattati quando si sono attrezzati e preparati.

Anche gli Stati e le istituzioni dovrebbero cercare di sostenere il modello di accoglienza promosso da RW, in nome dei valori sia della solidarietà sia della sussidiarietà, di cui spesso ci si riempie la bocca ma che poi è così difficile realizzare efficacemente. RW ci riesce, per davvero, e benissimo, anche se noi siamo tutti e solo volontari, il che richiede uno sforzo gigante: lavoriamo, abbiamo famiglia, sia con figli sia con nostri genitori, abbiamo il tempo e le forze che abbiamo.”

Dovrebbe forse lo Stato agire di più? Questo modello di accoglienza, questo vostro lavoro, diciamo, dovrebbe essere svolto dallo Stato?

M.C.: “Non lo so. Sono due gli aspetti autenticamente belli di RW. Il primo è che non servono soldi. Noi attivisti siamo volontari. Non servono soldi per fare accoglienza in famiglia, perché la famiglia accogliente è pronta per un anno a sostenere e accompagnare con vitto e alloggio la persona che accoglie. Un’associazione in cui non c’è denaro lavora al meglio: non ci sono interessi altri, non ci sono conflittualità da ciò derivanti.

La seconda è la permanenza del modello di RW, che è uno solo, non cambia cambiano le Amministrazioni e i Governi. Il nostro modello funziona e deve continuare al di là del momento politico.
Se mai si potrebbe suggerire ad ogni amministrazione locale, confermato che il modello RW funziona, di sostenerlo, di promuoverlo, di dargli visibilità. È un modello che nasce e vive grazie a sensibilità politiche di ampio spettro: fanno parte del programma famiglie con orizzonti politici e ideali del tutto opposti tra loro.

Conoscendole, abbiamo osservato che l’esperienza dell’accoglienza in casa ha un valore pazzesco: la famiglia sceglie l’ospitalità come occasione di confronto e crescita, anche per i propri figli, attraverso il contatto con persone che portano con sé un preciso bagaglio culturale ed esperienziale.

Quindi no, non dovrebbe essere lo Stato a farlo, ma le persone, le comunità, le famiglie.”

L’accoglienza in famiglia come modello: come mai?

M.C.: “Refugees Welcome Italia non è mai stata prima accoglienza. E il modello di RW vuole proprio andare contro il modello di accoglienza d’emergenza, perché è una accoglienza frettolosa, fatta male, non profonda, e che non dà al rifugiato che poi ottiene i suoi documenti la possibilità di iniziare la sua vita autonoma qua sul territorio.

Interveniamo infatti proprio nel momento in cui il rifugiato ha i documenti e viene buttato fuori da un centro di accoglienza. 

Noi allora partiamo con la convivenza in famiglia, di sei mesi o un anno, perché alla fine dell’esperienza la persona rifugiata ha potuto intessere delle relazioni che gli permettono di comprendere meglio il mondo in cui si trova, capire cosa vuole fare nella vita, se rimanere a Genova o andarsene, e tanto altro. E allo stesso tempo matura una solida conoscenza della burocrazia cittadina, dell’importanza ed utilità di tessere relazioni anche con genovesi e italiani.

Perché chi sta solo nel centro di accoglienza sta con altri ragazzi profughi, non parla l’italiano, non entra in contatto con le nostre usanze, le nostre particolarità, il nostro territorio. Conosce solo alcune zone della città, perché vanno tutti a Caricamento: quello è il luogo di riunione. Per non parlare di chi poi viene subito reclutato dalla malavita per spacciare, o peggio.

Il punto è che qui parliamo di rifugiati, parliamo di persone che non vogliono entrare nel mondo della malavita, spesso anche perché è proprio da quel mondo che stanno scappando! L’opportunità di convivere con una famiglia genovese dà loro lo spazio fisico (ad esempio, la propria stanza) e mentale per riflettere su quali siano le loro intenzioni per il futuro.

Ora, in questo momento con i profughi ucraini la situazione – per certi versi per fortuna – è ben diversa: arrivano, hanno già il documento, non hanno passato un periodo che va dall’anno e mezzo ai tre anni già qua in Italia, in un C.A.S. o in uno S.P.R.A.R., già capendo un po’, parlando un po’ la lingua, e ciò che ne consegue.

Oggi arrivano direttamente dall’Ucraina da cui sono partiti pochi giorni prima. In questo contesto, è importante ribadire che il modello RW funziona alla grande dal 2015 ed è a disposizione di chiunque entri nel Paese.”

Come avviene e si svolge il percorso di convivenza?

M.C.: “Ci sono due attivisti di riferimento per ogni convivenza: un attivista di riferimento per la famiglia e un altro per la persona ospitata, per tutta la durata della convivenza. Ci sono convivenze che vanno molto bene, in cui non ci si sente mai, pensate che ci sono famiglie che sono già alla seconda o anche alla terza convivenza!

Il progetto è a termine e ad obiettivo, e l’obiettivo è che l’ospite a fine convivenza spicchi da solo il volo.

Gli obiettivi si decidono assieme al rifugiato e gli si spiega sin da subito che la convivenza finirà: attiviamo la convivenza solo se il ragazzo ha capito bene il nostro progetto, cioè avere obiettivi definiti e perseguirli nel tempo di un anno.

Esempi di progetto possono essere:

Ottenere la licenza media, prendere la patente, imparare l’italiano, trovare un lavoro, cose di questo tipo. L’obiettivo deve essere concreto, misurabile, verificabile. Svolgiamo svariati incontri preliminari sia col ragazzo e con la famiglia, sia tra loro assieme e noi attivisti presenti.

Poi, prima dell’inizio della convivenza, rifugiato e famiglia firmano il “patto di ospitalità di Refugees Welcome” [ripensandoci post intervista, mi son chiesto se non sia erede in qualche modo dell’alto concetto di Xenia – in greco antico: ξενία, xenía – …dopotutto siamo ben figli anche del mondo ellenico, nda]: ci sono scritte le regole di convivenza, per esempio “ti do le chiavi”, “hai orari di rientro”, “aiutarmi a pulire casa”, cioè regole di convivenza, che non ci si dà in una famiglia solitamente perché sono accortezze e regole che si stipulano cammin facendo, ma qui devono essere date tutte in un solo momento.

I ragazzi rifugiati sono tutti maggiorenni, non possono essere minori, perché i minori debbono seguire proprio un altro iter, fatto certamente anche da assistenti sociali e competenze ulteriori che noi non abbiamo. A volte invece gli ospitati sono mamme con bambini, è già capitato. Ma più spesso i rifugiati sono maschi, tra i 20 e i 30 anni.

Man mano che va avanti la convivenza, noi attivisti sentiamo ragazzo ospitato e famiglia. Solitamente dopo il primo mese, qualora non ci sia già stata occasione, per chiedere come sta andando il percorso, se il ragazzo ha cominciato a perseguire per l’obiettivo fissato. E poi certamente ci si sente – se non ci si è ancora e già ulteriormente sentiti lungo il percorso – ad un mese dalla fine prevista per la convivenza: accompagniamo anche l’uscita del ragazzo dalla famiglia, aiutiamo il ragazzo e la famiglia a trovare un altro alloggio.

È già capitato che alcune convivenze durino di più, cioè si decida di comune accordo di andare avanti ancora un poco: magari manca poco al conseguimento dell’obiettivo fissato, e allora ragazzo e famiglia scelgono di proseguire la convivenza.

Chiaramente noi siamo ben contenti che ciò segua il proprio iter, però noi attivisti allo scadere dell’anno li salutiamo. La convivenza può liberamente andare avanti, ma noi ci mettiamo da parte, il nostro compito si conclude al termine previsto. Sia per una coerenza di metodo d’azione, sia per una questione di numeri interni nostri. Ed è già capitato che quando poi si è arrivati al momento dell’uscita, la famiglia e il ragazzo ci abbiano richiamato per aiutarli, ed ovviamente e con gioia abbiamo nuovamente messo a disposizione il nostro tempo e la nostra azione per questa operazione di accompagnamento. Al momento abbiamo quattro convivenze attive, il che vuol dire otto dei nostri attivisti impegnati.”

Quindi per ogni progetto di convivenza sono impegnati due attivisti: caspita, tanti! È importante trovare nuovi attivisti?

M.C.: “Di attivisti ce n’è bisogno, sì! Il nostro è un attivismo gestibile, perché flessibile, incastrabile nella vita di ciascuno, perché riesci a gestire il tuo tempo. Io ho un lavoro full time, sono moglie e madre, e riesco anche ad essere attivista di RW.

La riunione di équipe del mercoledì è obbligatoria: cementifica il team work, che è imprescindibile per la buona riuscita di ogni percorso. Parliamo delle famiglie e dei ragazzi che incontriamo e pian piano si crea il matching. Questo lavoro è irrinunciabile.

Per divenire attivista c’è un lungo percorso di formazione, poi se l’attivista è idoneo lo facciamo stare un mese ad ascoltare le nostre riunioni, e poi lo coinvolgiamo assieme a noi, andiamo in coppia a sentire le famiglie e i ragazzi.

E lavoriamo ovviamente con fogli di lavoro informatici condivisi, dove appuntiamo tutti i dati e gli elementi che raccogliamo, così che siamo tutti egualmente aggiornati a proposito dei ragazzi e delle famiglie.

RWI: Rifugiati e profughi
Un momento di formazione. Foto di Refugees Welcome Italia – Genova

Non ne abbiamo parlato, ma Refugees propone anche altri progetti di accompagnamento per i rifugiati, per esempio il Mentoring, cioè il percorso in cui una persona italiana non ospita in casa il rifugiato, per scelta o per impossibilità, ma lo segue nel suo percorso con le pratiche burocratiche, con le difficoltà che incontra e cose simili.

È un percorso altrettanto bello, ma purtroppo al momento non abbiamo forze a sufficienza: servirebbe un gruppo ad hoc. Ecco un ulteriore motivo per divenire attivisti di Refugees.”

Come vi si trova?

M.C.: “Digitando su un motore di ricerca “accoglienza rifugiati”. Su Google il primo link è proprio il nostro di Refugees Welcome, ancora prima del sito del Ministero dell’Interno. Sulla pagina internet nazionale si iscrivono tutti i soggetti che vogliono aderire al progetto: sia le famiglie che vogliono accogliere, sia i profughi e i rifugiati, sia gli attivisti. Quando dicono che sono presenti sul territorio genovese, la richiesta arriva al Gruppo territoriale nostro di Genova.

La piattaforma internet nazionale di Refugees Welcome è la nostra vita. Qui il Link.

Poi abbiamo anche la pagina Facebook nazionale e Instagram nazionale e la pagina Facebook del nostro gruppo territoriale di Genova.

A Genova siamo una decina di attivisti, età diverse, provenienze diverse, ceti diversi, ma tutti con la stessa linea, il mercoledì ci sediamo e abbiamo tutti le stesse idee in testa.”

L’invito quindi è di informarvi! Sul sito nazionale, sulle pagine FB e IG. Marta e tutto il gruppo di Genova di Refugees Welcome vi aspetta, aspetta ogni persona, a braccia aperte.

Immagine di copertina:
Refugees Welcome Italia – Genova


Scrivi all’Autorə

Vuoi contattare l’Autorə per parlare dell’articolo?
Clicca sul pulsante qui a destra.


Humanitarian Response Plan
Articolo Precedente

LABIBA | 2022 e bisogni umanitari in Palestina: una strategia programmatica

Genova Slam
Prossimo Articolo

Genova Slam: la voce della poesia

Ultimi Articoli in Interviste

Giornata Internazionale di solidarietà con il popolo palestinese

LABIBA |  Giovane Palestina

Il 29 novembre ricorre la Giornata internazionale di solidarietà al popolo palestinese. Qual è il significato di tale giornata nel difficile momento storico attraversato dalla Palestina?
TornaSu

Don't Miss