Un bicchiere di vino, una cioccolata calda e due biscotti al burro, io e i miei amici, gli uni con gli occhi sugli altri pronti a condividere un po’ di vino, un biscotto e le idee. Quelle mille idee che ci affollano la testa, quelle mille idee che ci vengono negate, quelle libertà che ci vengono tolte.
Una tisana, una coperta, le mani attorno alla tazza, rannicchiate a raccontare cosa c’è che non va, cosa ci annebbia e come vorremmo che fosse la nostra vita.
Un ragazzo e una ragazza in riva al mare si scambiano gli sguardi, si abbracciano alla ricerca di un orizzonte.
Un gruppo di amici passeggia, in sottofondo un turbolento rumore di vento, e animatamente discute di quel lavoro, di quel capo, di quella giornata, un po’ sorridendo e un po’ cercando una mano amica tesa in suo aiuto.
E sempre noi da soli davanti a un pc, seduti sulla stessa scrivania, ogni giorno, osserviamo il mondo fuori, il mondo dentro, le parole delle altre persone, i discorsi vuoti, le lamentele di chi non fa nulla per cambiare, e ci chiediamo:
Ma io qui, ancora, cosa ci sto a fare?
Ho pensato di “introdurmi” in questo magazine dando voce a tutti quei pensieri che ci affollano la testa e di cui, ormai quotidianamente, mi capita di rubare qualche parola per strada o prenderne pienamente parte. Mi riferisco allo stile di vita che ci viene richiesto e che non risuona più alla nostra frequenza.
Argomento ampiamente trattato dalla genovese Biancamaria Cavallini (Psicologa del lavoro e Customer Success & Operations Director di Mindwork) nel podcast “Troppo Poco”, a firma di Will e Mindwork, in cui si parla di salute mentale a lavoro.
Oggi siamo di fronte a un grande interrogativo: sono i giovani a essere incapaci di reggere i ritmi o sono i ritmi a essere esagerati?
È così che si apre uno degli episodi del podcast che si pone come obiettivo, partendo dalle riflessioni degli ascoltatori, quello di parlare di benessere psicologico a lavoro portando alla luce tutti quegli interrogativi che spesso ci vengono posti o che poniamo a noi stessi senza però riuscire a dare una risposta.
Quali danni ha fatto la cultura del sacrificio? Siamo una generazione rotta? Fragile? Emotiva?
“Si tratta di una cultura che ha fatto tanti danni e di cui oggi stiamo vedendo i limiti ma per la quale non abbiamo ancora un modello culturale con cui sostituirla”, spiega la psicologa Biancamaria Cavallini.
Solo qualche anno fa, c’era la concezione che senza il sacrificio, senza la fatica non si potesse parlare di lavoro. Il lavoro era di base un qualcosa dove era richiesto faticare senza riflettere sulla dimensione mentale. Riflessione invece molto presente al giorno d’oggi, tanto che alcuni si domandano:
Quando abbiamo permesso al lavoro di farci così male?
Troppo presto, dobbiamo decidere chi siamo e chi vogliamo diventare. E una volta deciso, dopo tutti i sacrifici impiegati, non ci viene concesso di vacillare.
Molti si sentono messi all’angolo dalla pressione della scelta: la stabilità economica o il benessere psico-fisico?
Scelgo me e dunque l’ignoto, l’instabile e il mutevole oppure scelgo la stabilità per un domani, un domani del tutto incerto ma per cui mi viene richiesto di sacrificare il qui e ora?
Il sacrificio per “un domani“ non permette di vivere l’adesso e questo la nostra generazione lo sa. Ore di lavoro extra, mansioni che non ci spettano, trattamenti sgradevoli non meritati, manipolazioni che gravano sulla nostra salute psico-fisica. Sacrifici che pesano sulle nostre vite, sempre più apatiche, sempre più spente, prive di tempo e di energia. La nostra energia.
Qualcuno prova a incastrare tutto, qualcuno prova a reggere i ritmi, qualcuno vede passare gli anni più belli della propria vita dividendosi tra lavoro e casa, casa e lavoro.
Cerchiamo parole di conforto, da chi prima di noi c’è passato, ma raramente le troviamo, e spesso riceviamo risposte come “ci siamo passati tutti. Tanto è così. Tieni duro che questi sacrifici un giorno varranno la pena”.
“Io penso che non è che i giovani d’oggi non abbiano valori; hanno sicuramente dei valori che noi non siamo ancora riusciti a capire bene, perché siamo troppo affezionati ai nostri”
14 febbraio 1998 Fabrizio De André, Teatro Brancaccio Roma
Dunque, nella cultura del sacrificio ci sentiamo scomodi. Ci siamo fatti carico dei corpi implosi e poi esplosi della generazione precedente, ci sentiamo stretti dentro ai pantaloni con i quali i nostri genitori sono cresciuti e che hanno continuato a indossare in attesa della pensione.
Ci sentiamo soffocare, ci manca il respiro e ci viene tolta la parola a parlare di un futuro così. Per cui, abbiamo deciso di non volere più vivere seguendo le loro orme.
Ma se non seguiamo le loro orme allora dove andiamo? In quale direzione?
Ed ecco quindi che ci troviamo in piena fase di sperimentazione, dove i pazienti siamo noi. Pieni di dubbi, di ansie, di vuoti, di silenzi, di parole non dette o dette a bassa voce.
Ma siamo anche capaci di urlare, di fare sentire la nostra voce e il nostro pensiero. Chiediamo di essere visti e capiti così, come siamo, senza maschere.
Vorremmo poter scegliere incondizionatamente quello per cui ne vale la pena, ciò che ci dà energia invece di toglierla e mettere all’angolo il senso di colpa di un futuro indefinito. Vorremmo essere liberi di cambiare idea, di partire e poi tornare, di metterci in discussione e di credere in noi. Essere liberi di fare cadere le maschere che da anni vengono indossate.
Un titolo, una laurea, non ci definiscono. Quello che ci definisce è la nostra luce negli occhi e non possiamo stare a guardare mentre si spegne.
Immagine di copertina:
Foto di @viviana.zaccagnini
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