Alle elementari avevo un’insegnante davvero severa. Come spesso succede nei confronti di tantз insegnantз severз, ripenso a lei con immensa riconoscenza e grande stima. Ricordo ancora quando i primi anni, concentrandosi sulla grafia e l’ortografia, obbligava lз miз compagnз e me a riempire paginate di parole o lettere che scrivevamo in maniera sbagliata, per fare imprimere sulla carta e nella memoria la formula corretta.
L’italiano, nello specifico la sua grammatica, è sempre stata una delle mie discipline preferite a scuola: adoravo cimentarmi in analisi grammaticali e logiche, e più erano complicate più il divertimento era assicurato.
Crescendo ho compreso che le lingue rappresentavano per me qualcosa di non completamente comprensibile e conoscibile, eppure si sono rivelate tra gli aspetti più rassicuranti della mia vita. Per questo, probabilmente, ho deciso di frequentare il liceo linguistico: le parole avevano per me un’importanza fondamentale; grazie ad esse, ai corretti accostamenti di sostantivi e predicati, alla costruzione di proposizioni lineari, mi rendevo conto di quanto il modo in cui ci esprimiamo, spesso, riflette ciò che siamo.
Ciò che diciamo e il modo in cui decidiamo di dirlo necessariamente si riflettono poi nellз nostrз interlocutorз, che, a seconda della propria sensibilità e conoscenza linguistica, percepirà le nostre parole in modo diverso da ognunǝ dellз altrз interlocutorз.
Questa narrazione della mia sfera personale serve a sottolineare il profondo riguardo nei confronti della lingua che parlo, che scrivo e con la quale mi esprimo. Più che altro con l’intenzione di rassicurare lǝ lettorǝ, ché io non sono una di quelle persone che dice “se io vorrei” (ho un brivido lungo la schiena) e se ne frega. Tuttavia, mi piacerebbe evidenziare come, a tutti gli effetti, la lingua italiana abbia subìto delle inevitabili quanto necessarie modificazioni e che tuttora stia continuando a subirle.
Ci terrei, quindi, con la forza delle parole e dei pensieri, ad avvalorare una tesi che da tempo ho nella mia testa, e la cui validità ho riconosciuto come sempre più tangibile e consistente leggendo articoli e informandomi su testi di sociologia e linguistica:
La lingua CAMBIA
E, aggiungo, cambia in base a diverse necessità che la società e le persone incontrano nel loro percorso (si spera) evolutivo.
Tra i maggiori contributi per un linguaggio non sessista e inclusivo, ci tengo a citare, tra i pilastri degli ultimi anni, quello di Alma Sabatini del 1987, Il sessismo nella lingua italiana, di Cecilia Robustelli, Linee guida per l’uso del genere nel linguaggio amministrativo, per finire poi con le ultime ricerche di Vera Gheno con il suo Femminili singolari.
Dobbiamo farcene una ragione. Noi cambiamo, come cambiano continuamente la nostra vita e la società nella quale ci troviamo immersз. Ci rendiamo conto ogni giorno di più di quanto il cambiamento, in questi ultimi decenni, sia molto più drastico e repentino di quanto non sia mai stato fino ad oggi. E va bene così. Io, onestamente, ho piena fiducia nelle persone che lavorano con e per la nostra lingua ogni giorno, che ne hanno fatto la loro professione, e non solo una passione. Che tentano di dare all’italiano tutta la dignità che necessita e che cercano di farlo tenendo conto di tutto e di tuttз.
Perché c’è necessità di una lingua inclusiva?
Perché la lingua italiana è una lingua flessiva. Ciò significa che esistono due generi, femminile e maschile, e che ogni pronome, articolo, aggettivo e persino participio passato dev’essere necessariamente declinato al genere di appartenenza del soggetto di riferimento.
Cosa succede quando il genere del sostantivo di riferimento non è necessariamente dichiarato, oppure quando il soggetto è un gruppo misto?
A scuola ci hanno sempre insegnato che, per esempio, se in un gruppo di 10 persone c’è anche solo una presenza maschile, allora tutti i pronomi, gli articoli, gli aggettivi e i participi passati andranno declinati al genere maschile. Si chiama “maschile sovraesteso” oppure “universale”.
E cosa succede se all’interno del gruppo è presente una persona che non si identifica con un genere prestabilito?
In quel caso, sia usare il maschile sovraesteso che utilizzare invece la formula binaria di “le ragazze e i ragazzi” non andrebbe bene, poiché escluderebbe di conseguenza molte altre categorie.
Vi sarà sicuramente capitato di incontrare persone nuove con le quali attivare un dialogo. Per certo nel primo approccio ognunə di noi fa attenzione ai temi che affronta, alle parole che utilizza, per cercare di non urtare la sensibilità altrui e di creare un’atmosfera grazie alla quale la persona di fronte a noi si possa sentire più a proprio agio possibile. Attenzione e accortezza. Ecco, questo vale in qualsiasi situazione ci troviamo, giusto?
Dire che utilizzare il maschile universale significa includere tuttз non è corretto, poiché c’è sempre una piccola postilla che non deve mai sfuggirci quando parliamo della nostra società (e di conseguenza della lingua, secondo l’equazione che facevo anche precedentemente): le radici sulle quali si fonda sono nate, cresciute e si sono consolidate in un terreno profondamente patriarcale, dove solo gli uomini partecipavano alla vita pubblica e le donne erano recluse al focolare. Di conseguenza, non solo la società civile nasceva con tali presupposti, ma anche la lingua si adeguava a tutto ciò, e si articolava senza ombra di dubbio considerando l’uomo e il genere maschile come al centro di tutto.
Se siamo così ciechɜ da pensare che “il maschile include tuttз, non discrimina!”, purtroppo sarebbe necessario soffermarci maggiormente sul nostro privilegio: se il maschile universale non tocca minimamente la nostra sensibilità e ci include a priori, di conseguenza a noi cosa interessa combattere per un cambiamento?
Teniamo sempre bene a mente che il linguaggio che utilizziamo è la prima potenziale forma di oppressione nei confronti di qualcuno. E l’identità di genere è uno degli aspetti più sensibili dell’identità di una persona.
Allora come facciamo a dimostrare la nostra sensibilità e il nostro interesse verso l’altrǝ?
Nel tempo ci sono stati vari escamotage: l’asterisco, la chiocciola, la desinenza –u. Ognuna di queste varianti ha dimostrato avere diverse criticità. Nei primi due casi il problema riguarda, oltre che la forma scritta in ambito soprattutto editoriale, anche l’equivalente vocale, dato che i due simboli non sono pronunciabili. Nel caso della -u, la vicinanza fonetica alla –o è problematica perché la avvicina nuovamente al maschile e, inoltre, non è declinabile al plurale.
L’alternativa che al momento sembra conciliare meglio le problematiche di scrittura e di pronuncia è quindi l’utilizzo dello schwa (ǝ) e dello schwa lungo (з).
Lo spiega molto bene il sito Italiano inclusivo, che delinea con molta precisione le motivazioni della scelta di introdurre lo schwa come alternativa a tutte le opzioni, e spiega tecnicamente come utilizzarlo sui nostri telefonini e con i nostri computer, anche se purtroppo, dobbiamo ricordare che i servizi di lettura automatica ancora non riescono a interpretare questo simbolo, motivo per il quale c’è ancora molta strada da fare in tal senso.
Chiaramente, la scelta di utilizzare questo tipo di linguaggio è una scelta prima di tutto politica, dettata dal nostro interesse a cambiare le cose. Altrettanto chiaramente, la questione del linguaggio inclusivo non si risolve semplicemente con l’introduzione dello schwa, saranno necessarie ancora molte ricerche e molti studi prima di arrivare ad una formula completamente soddisfacente. Ma intanto, il dibattito è bene aprirlo.
Vera Gheno, in un intervento a TEDxMontebelluna, ha detto: ogni parola che usiamo è un atto di identità.
Esprimendoci, comunicando, scegliendo deliberatamente alcuni termini piuttosto che altri, noi stiamo dichiarando alle altre persone chi siamo. Quindi, a noi la scelta. Vogliamo avere cura dellз altrз?
Immagine di copertina:
wall:in media agency su opera di Ambra Castagnetti, BALALAJKA.
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