Vico Indoratori

FONDO BRUNO | Sante, stelle e signorine

Nel cuore del centro storico, vico Indoratori nasconde storie dove sacro e profano si mescolano, attraversando i secoli.
27 Luglio 2020
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Oggi niente ricette scovate nei vecchi appunti del nonno cuoco ma un po’ di storia di Genova e di quel caratteristico vicolo che ha accolto, nel secondo dopoguerra, proprio il mio bisnonno Nino Bergese e il suo ristorante. Vico Indoratori

Dopo una vita da cuoco a servizio della nobiltà sabauda e delle case altoborghesi, con la fine della guerra – e con il declino di quella stessa classe nobiliare che gli aveva permesso un’importante carriera – mio nonno Nino aveva deciso di aprire un suo ristorante.

Invece che rimanere a Torino, la loro città, i miei bisnonni avevano deciso di spostare le ricerche del locale su Genova, città in cui era andata a vivere una delle sorelle della bisnonna Sandra.

È così che nel 1947 i miei nonni rilevarono una trattoria nel cuore del centro storico genovese, in vico Indoratori, una diagonale che collega via di Scurreria a via Orefici. “La Santa”.

Vico Indoratori
Vico Indoratori, Genova. Foto di Alessandra N.

Il nome e la relativa insegna in ferro – dove la scritta in giallo TRATTORIA LA SANTA risaltava sullo sfondo azzurro, incorniciando un’icona mistica – rimasero gli stessi, nonostante il cambio gestione, così come il menù tipicamente ligure: il vecchio locale era infatti una tradizionale trattoria ben avviata e con una clientela fissa composta da professionisti, impiegati e commercianti della zona, tanto che il mio bisnonno decise, almeno per i primi tempi, di mantenere quel filone per poi gradatamente introdurre alcuni piatti di quella cucina classica francese e internazionale che era stata tutta la sua formazione e la sua carriera.

“La – nuova – Santa” con il passare di qualche anno riuscì così a diventare, grazie ad un menù costruito tra haute cuisine e ricette della tradizione piemontese e ligure, un ristorante apprezzato e frequentato anche da nomi celebri, artisti, politici, scrittori e industriali e da quella stessa nobiltà europea che mio nonno aveva abbandonato per mettersi in proprio.

Mia madre mi raccontava spesso di quando era venuto il re Costantino di Grecia in visita privata (era la fine degli anni ’60 ed era appena avvenuto in Grecia il golpe dei colonnelli) e all’ingresso del ristorante, così come ai vari imbocchi di vico Indoratori, si erano piazzati i carabinieri della scorta con i quali mia madre si era dovuta identificare “sono la nipote del titolare”, poi, entrata in ristorante e scoperto l’inaspettato cliente, non osando neanche entrare in sala, aveva mangiato la sua porzione di risotto mantecato seduta in un angolo della cucina.

Il ristornate e mio nonno si erano quindi fatti un nome e alla fine degli anni ‘60 arrivarono persino le due stelle Michelin. Un’altra, gli avevano confessato, avrebbe potuto completare il terzetto luminoso se non fosse stato per l’estetica del locale, un ambiente modesto con una finta boiserie alle pareti, che la mia bisnonna Sandra aveva ingentilito con mezzari appesi, tavoli ben apparecchiati e belle sedie chiavarine con schienale alto… già più elegante di una tradizionale trattoria ma comunque non all’altezza della qualità di cucina proposta. 

Ma soprattutto un locale posizionato in quello che era un tipico e popolare carruggio genovese, non certo una location prestigiosa in cui ci si poteva aspettare un ristorante tristellato. 

Il centro storico, vico Indoratori compreso, dopo il duro colpo della guerra, era ritornato ad animarsi con una varietà di attività commerciali, uffici e quant’altro. 

Ci si poteva ammirare l’industrialità umana e la sua eterogeneità. 

Nelle vicinanze de “La Santa”, ad esempio, si potevano trovare alcune signorine che lavoravano nei bassi lì accanto, con le quali la mia bisnonna Sandra, il gestore a tutto tondo del ristorante e accanita consumatrice di Nazionali senza filtro, intratteneva un rapporto di gentile vicinato: capitava che la mattina, quando mia nonna entrava a “La Santa”, le dicessero di aver scacciato la notte prima dei loschi individui un po’ troppo incuriositi dal ristorante – altro che guardie giurate! – oppure poteva capitare che mia nonna dovesse uscire dal locale per chiedergli di abbassare la voce e magari andare a litigare un po’ più in là per non disturbare gli avventori del ristorante. 

Insomma, uno scorcio di umanità perfettamente – e direi anche cinematograficamente – in contrasto con quel nome mistico, “La Santa”, corredato da un’immagine allusiva, che campeggiava oscillante in vico Indoratori. 

Ma ecco, perché proprio quel nome su quella insegna? – che ancora oggi identifica l’ennesimo locale passato di gestione in gestione – Chi era la Santa? 

Per rispondere bisogna fare un salto indietro nella storia. 

Nel 1447 a Genova, proprio in vico Indoratori, nel palazzo che oggi corrisponde al civico numero 2, nacque Caterina Fieschi. 

(oggi è ancora visibile lo splendido portale quattrocentesco in marmo istoriato, accanto al quale è stata affissa una piccola targa – invisibile se non sai che proprio lì devi alzare lo sguardo! Il centro storico di Genova andrebbe visitato tutto guardando verso l’alto…ogni volta si scoprono dettagli inaspettati e sorprendenti ma troppo spesso lasciati andare!)

Vico Indoratori
Portale quattrocentesco in marmo del palazzo dove nacque Caterina Fieschi. Foto di Alessandra N.

Le nobili origini di Caterina le permisero di ricevere un’adeguata istruzione e, nonostante una sua manifestata inclinazione per la vita religiosa, la famiglia decise di darla invece in sposa a Giuliano Adorno, importante nome dell’aristocrazia genovese. Dopo i primi anni di matrimonio vissuti con spensieratezza, una profonda crisi religiosa, scatenata da una duplice visione, condurrà Caterina a un radicale cambiamento. 

Discipline ascetiche, penitenze rigorose e opere di assistenza agli ammalati nell’ospedale di Pammatone divennero tutta la sua vita, tanto che l’Adorno decise di seguire la moglie in questa nuova dimensione spirituale e caritatevole. Caterina divenne un punto di riferimento per quanti operavano a favore dell’assistenza pubblica: attorno a lei si creò un piccolo cenacolo grazie al quale la sua dottrina spirituale che veniva maturando – e che si può collegare al filone del misticismo italiano – ebbe un’importante cassa di risonanza. Si crede inoltre che la composizione dell’ Opus Catharinianum sia il risultato di una lunga elaborazione delle testimonianze, scritti e ricordi di Caterina ad opera proprio dei suoi discepoli, tra il 1495 e il 1551. I suoi ultimi anni di vita trascorsero in crescenti sofferenze a causa di un tumore allo stomaco – che gli agiografi considereranno invece un male di natura soprannaturale – che le portò continue visioni e stati di delirio.

Morì a Genova nel 1510; venne sepolta nella Chiesa dell’Annunziata di Portoria e la sua tomba venne fatta subito meta di un culto popolare. Poco più di un secolo dopo Caterina Fieschi venne beatificata e proclamata patrona di Genova, poi, ai primi del ‘700 canonizzata. Infine papa Pio XII, nel 1944, la proclamò compatrona degli ospedali italiani. Ancora oggi il corpo della santa, miracolosamente incorrotto e conservato in una teca settecentesca sorretta dal mirabile complesso in marmo realizzato da Francesco Maria Schiaffino, è visibile all’interno del magnifico Santuario di Santa Caterina da Genova in Santissima Annunziata di Portoria. La chiesa, oggi nascosta dal Palazzo di Giustizia ma dotata anche di un ingresso secondario sulla spianata dell’Acquasola, è ricca di opere dei maestri della pittura genovese tardo cinquecentesca e seicentesca, da Giovanni Battista Castello a Luca Cambiaso e Domenico Piola. 

Ecco dunque la storia delle due sante di vico Indoratori che, attraverso le insegne affisse una di fronte all’altra, ci ricordano ancora oggi come Genova sia una città dove sacro e profano convivono nascosti, una città continuamente da scoprire. 

Immagine di copertina:
wall:in media agency


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Nata a Milano nel 1991, da quasi venti anni vive a Genova, dove ora si dedica all’associazione culturale EdArte, di cui è co-fondatrice. Una formazione umanistica e un’indole creativa e curiosa la portano ad entusiasmarsi per l’arte, le diverse culture e cucine del mondo - che prova a reinterpretare ai fornelli. Ama stare in movimento, nel verde, in acqua o appesa a tessuti aerei; si diverte a creare gioielli, illustrazioni e oggetti di ogni genere.

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