Memorie

FONDO BRUNO | Memorie condivise

Un featuring intergenerazionale alla scoperta di un grande chef del passato.
14 Settembre 2020
3 min
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Erano i giorni di quarantena forzata ed era l’inizio di questa avventura scribacchina su walloutmagazine. Sfogliavo i quaderni di appunti culinari del mio bisnonno Nino Bergese e le raccolte di articoli su di lui per trovare ispirazioni da aggiungere ai miei ricordi, al “fondo bruno” della mia memoria. 

Con mia grande sorpresa ed emozione mi sono imbattuta in un pezzo scritto a macchina da mia madre in cui il nonno Bergese era raccontato attraverso i suoi di occhi e di ricordi. Era esattamente lo stesso tipo di lavoro che stavo incominciando io, le stesse intenzioni, la stessa età, la stessa voglia di raccontare un grande chef, un nonno per noi. 

Chiedendole incuriosita di più, ho scoperto che l’articolo l’aveva scritto per Veronelli, giornalista e critico gastronomico, ormai amico del nonno. Articolo che forse avrebbe dovuto essere pubblicato ma invece, poi, caduto nel dimenticatoio. 

Così, oggi, dopo più di 30 anni, sono orgogliosa di poter ridare la voce a quel pezzo. 

Archivio Nino Bergese. Foto di Alessandra N.
Archivio Nino Bergese. Foto di Alessandra N.

– Mi porti due uova fritte –

E quando l’ordinazione arriva in cucina Bergese va su tutte le furie. 

Ma come? Alla Santa me le chiedi? 

Nel mio menù ci trovi almeno dieci piatti a base di pesce, diciotto e più tra carne, pollame e selvaggina, e se sono le uova che vuoi, sfoglia il mio “Magiare da Re”: te ne do cinquantuno ricette. 

Ma il signore vuole le uova fritte. E io fritte gliele servo. 

Bergese prende le uova e le cuoce in camicia. Poi le raffredda sotto l’acqua e le scola bene. 

Le ricopre con due cucchiai di besciamella alla fontina, piuttosto densa e quasi fredda. Poi passa le uova così ricoperte nella farina e quindi nell’uovo battuto, condito con sale e pepe. 

Ora delicatamente le impana, poi le tuffa in olio d’oliva bollente (macchè olio di semi per friggere, diceva). 

Quando si forma una crosticina color nocciola, le tira su e le fa asciugare bene su carta assorbente. 

Ecco le uova fritte, sogghigna Bergese mentre sbircia dalla cucina le reazioni del cliente. Poi si avvicina all’ammutolito signore e gli chiede malizioso se le uova sono di suo gradimento. 

Bergese, mio nonno, lo ricordo così. 

Orgogliosissimo se i suoi piatti stupivano gourmet pignoli e raffinati o clienti involontari, se li ingannava l’aspetto dimesso dell’entrata sul carruggio e il nome “Trattoria della Santa” – bonario. 

Spesso mi raccontava della sua lunga esperienza di cuoco nelle grandi famiglie aristocratiche, del suo modo di intendere la cucina, delle sue ricerche continue. 

La cucina classica, mi diceva, è il mio patrimonio irrinunciabile.

Ma il modo di mangiare cambia insieme con i modi della vita. E l’arte in cucina sta nell’equilibrio tra antiche radici e ricerche nuove. 

Così, alla Santa, tra i piatti della cucina classica, alla francese, trovavi anche quelli presi dalle cucine regionali italiane. 

Gli gnocchi di patate col pesto che lui ammorbidiva con crema di latte, o la lepre in salmì coi crostoni di polenta fritta, o ancora la bagna cauda che così delicata non l’ho mai più mangiata. 

Amava anche molto certi piatti “coloniali”: il riso pilaw al curry di gamberi e pollo, o i gamberoni alla creola. 

Ma da Bergese ci trovavi pure una splendida paella alla valenciana o i blinis russi. 

E, dovunque, la sua impronta personale. 

Inazitutto nella cura per la scelta e l’uso dei condimenti: usava solo olio d’oliva di frantoio e burro; e mi raccomandava di non eccedere. 

Una delle prime regole di una cucina di alta classe, mi ripeteva, é quella di sgrassare sempre e di nuovo sgrassare.

Era anche per questo uso sapiente dei grassi che i suoi piatti, anche i più elaborati, restavano così leggeri. 

Un buon pranzo, aggiungeva, lo si deve poter gustare dalla prima all’ultima portata e uscirne gioiosi e lucidi. 

Dopo una vita passata tra i fornelli, ancora negli ultimi tempi aveva voglia di provare e rifare e rivisitare piatti vecchi e nuovi. 

Nei suoi ultimi appunti ho trovato, tra altre cose, la rielaborazione del cus cus arabo di montone: lo aveva affascinato l’accostamento della semola di grano duro al gusto deciso della carne e degli aromi. 

E poi una nuova ricetta: un grande raviolo di pasta sottilissima. Il ripieno? Un tuorlo intero, purea di spinaci, ricotta lavorata con sale ed un velo di noce moscata. 

Bollito per dieci minuti, una grattugiata di ottimo parmigiano, burro fuso ed il profumo dei tartufi bianchi d’Alba. 

Mi diceva che stava pensando ad un secondo libro: nuove ricette o vecchie riscoperte da aggiungere al suo “Mangiare da Re”. 

Era convinto di avere ancora tanto da trasmettere. 

Ed aveva ragione. 

Loredana Appiani 


Immagine di copertina:
wall:in media agency


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Nata a Milano nel 1991, da quasi venti anni vive a Genova, dove ora si dedica all’associazione culturale EdArte, di cui è co-fondatrice. Una formazione umanistica e un’indole creativa e curiosa la portano ad entusiasmarsi per l’arte, le diverse culture e cucine del mondo - che prova a reinterpretare ai fornelli. Ama stare in movimento, nel verde, in acqua o appesa a tessuti aerei; si diverte a creare gioielli, illustrazioni e oggetti di ogni genere.

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