Lo scorso 13 gennaio il governo ha pubblicato il Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) che stabilisce come spendere i soldi del Next Generation Eu, meglio conosciuto con il nome di Recovery Fund. Quanto è stato stanziato per l’Italia? Sono 210 i miliardi di euro che spettano al nostro stivale. A questa cifra si deve aggiungere poi il Fondo di sviluppo e coesione 2021-2027, un fondo nazionale per le misure di sviluppo economico, che integra i fondi strutturali europei.
Il Piano, come scritto sul Comunicato del Consiglio dei Ministri n. 89, è diviso in sei «missioni», ovvero le aree tematiche per le quali i fondi saranno spesi.
I fondi saranno così divisi:
- digitalizzazione, innovazione, competitività e cultura: 45,1 miliardi di euro;
- rivoluzione verde e transizione ecologica: 67,5 miliardi di euro;
- infrastrutture per una mobilità sostenibile: 32 miliardi di euro;
- istruzione e ricerca: 26,1 miliardi di euro;
- inclusione e coesione: 21,3 miliardi di euro;
- salute: 18 miliardi di euro.
Già da questa prima suddivisione è interessante notare due fattori:
- la voce della cultura è stata accorpata a digitalizzazione, innovazione, competitività;
- sui 45,1 miliardi del punto 1, il budget dedicato alla cultura è di 10 milioni di euro.
Prima di capire come il nostro governo (a questo punto, il governo precedente ndr) ha pensato di spendere questi 10 milioni, cerchiamo di delineare la situazione che la cultura si trova a vivere in questo particolare momento.
Il settore culturale, secondo una ricerca dell’OCSE, risulta uno tra i più colpiti dalla pandemia di covid-19, (per fornire qualche dato, si stima una perdita di posti di lavoro tra lo 0,8 e il 5,5 %) soprattutto a causa delle misure di distanziamento sociale da questo derivate.
Il drastico calo delle entrate ha avuto diverse conseguenze, ad esempio la riduzione dei salari, oltre che numerosi licenziamenti. Purtroppo, si prevede che gli effetti di questa crisi avranno conseguenze a lungo termine, considerando che il calo degli investimenti nel settore ha già messo e metterà in ginocchio tutto il ramo della produzione.
Come sappiamo, già da prima della pandemia il mondo della cultura si reggeva su una struttura estremamente fragile, fatta di piccole imprese, associazioni no profit e professionisti che spesso sono costretti a operare ai margini della legalità, come leggiamo nel rapporto OCSE.
Inoltre, proprio tale rapporto sottolinea quanto le forme di sostegno pubblico attuate dai governi siano inadeguate alle nuove professionalità:
“I governi nazionali e locali di tutto il mondo hanno introdotto molteplici misure a sostegno di lavoratori e imprese alla luce della pandemia COVID-19. Molte di esse, in particolare quelle non destinate ai CCS, non sono adatte alle peculiarità del settore. Le misure di sostegno all’occupazione e al reddito non sono sempre accessibili o adattate alle nuove forme di occupazione atipiche (freelance, intermittenti, ibride – ad esempio, combinando il lavoro part-time retribuito con il lavoro freelance)”.
Insomma, lз lavoratorз di questo settore sono certamente tra lз più colpitз.
Sul territorio italiano, dove continuiamo a vedere cinema, teatri, musei e istituzioni culturali chiusi o attivi a singhiozzo ormai da mesi, ci sono state numerose mobilitazioni, si sono attivati moltissimi gruppi di pressione che operano criticamente all’interno del panorama attuale. Si tratta di gruppi informali e associazioni tra cui: Professionisti Spettacolo e Cultura – Emergenza Continua, AWI – Art Workers Italia, Mi Riconosci? – Sono un professionista dei Beni Culturali, INSTITUTE_of_RADICAL_IMAGINATION (Art for UBI), Il Campo Innocente.
È in questo contesto che si inserisce ITsART, piattaforma per la quale il Ministero per i Beni e le Attività Culturali e per il Turismo ha deciso di investire i 10 milioni provenienti dal Recovery Fund.
Ed è proprio a fronte di tale contesto che la scelta è quantomeno discutibile. Non per la proposta in sé, che in una situazione “normale” non sarebbe forse risultata così critica (più avanti analizzeremo quali siano le premesse negative a prescindere), piuttosto perché non viene incontro alle problematiche del sistema e alle criticità sopra descritte.
Cerchiamo di capire meglio cos’è ITsART, per quanto ci è dato sapere.
Si tratta di una piattaforma che servirebbe a trasmettere prodotti audiovisivi di natura culturale. Si occupa di ITsART una società costituita lo scorso 22 dicembre, composta da Cassa Depositi e Prestiti (CDP, che detiene il 51% di capitale), società controllata dal Ministero dell’Economia che investe per conto dello stato italiano, e Chili (che detiene il 49% di capitale), tech media company milanese fondata nel 2012, che fornisce un servizio streaming in Italia, Inghilterra, Germania, Austria e Polonia.
Il testo che troviamo sulla landing page del sito itsart.tv recita, in italiano e in un discutibile inglese:
Ma come mai in Italia si pensa prima di ogni altra cosa al contenitore, a prescindere da un ragionamento olistico con il contenuto?
Sabato 6 febbraio, il Forum dell’Arte Contemporanea ha istituito un tavolo di discussione, un momento di confronto tra diverse personalità del mondo della cultura, dal titolo ITsART: una nuova netflix della cultura italiana? Analisi e prospettive , al termine del quale si realizzerà un documento di sintesi con idee e proposte da inviare al Ministero.
A coordinare: Lorenzo Balbi (direttore artistico MAMbo – Museo d’Arte Moderna di Bologna), Maria Giovanna Mancini (storica dell’arte contemporanea – Università di Bari), Adriana Polveroni (critica d’arte e docente – Accademia di Belle Arti di Brera), Chiara Zanini (critica). Tra gli interventi, significativo quello di Cristiana Perrella, direttrice del Centro per l’Arte Contemporanea Luigi Pecci di Prato, che ha sottolineato la necessità, in operazioni di questo genere, sia di know-how editoriale sia di know-how per la produzione, oltre che un’accurata scelta di utilizzo del linguaggio più adeguato, e si è soffermata sui tempi davvero brevissimi della progettazione, che richiederebbe un tempo decisamente maggiore per nascere con migliori premesse.
Numerose sono state le critiche a ITsART, su diversi fronti, a cominciare dal nome.
Perché un nome inglese per una piattaforma che intende veicolare contenuti italiani? Stando ai paesi nei quali la piattaforma trasmetterebbe, la risposta viene quasi spontanea. Vogliamo invece parlare del logo? Forse è meglio astenersi.
La critica più fervente è stata quella che vede ITsART come piattaforma superflua per una condivisione di materiale culturale, a fronte di un già esistente servizio pubblico quale RAI, che tra l’altro si avvale di un servizio gratuito di streaming, RaiPlay, con contenuti di tutto rispetto.
ITsART, invece, si avvarrebbe di un servizio on demand, dove l’utente non sarà costretto ad attivare un abbonamento, bensì pagherà solo il contenuto di cui fruire.
Ma quale contenuto?
A poche settimane dal lancio ufficiale di ITsART ancora non si sa con certezza quali siano i contenuti. E date le premesse, certamente non si tratta di un servizio di “promozione”, come più volte ripetuto pubblicamente, bensì di un servizio di vendita.
Una piattaforma volta a promuovere contenuti culturali, sarebbe innanzitutto auspicabile fosse gratuita (come appunto è RaiPlay); inoltre, con questo fine, sarebbero necessarie azioni tese ad aumentare il valore dei beni culturali migliorandone la conoscenza e incrementandone la fruizione.
Ma come si fa a incrementare la fruizione di qualcosa la cui natura risiede nell’esperienza dal vivo, sostituendola meccanicamente con la partecipazione online? In questo modo si rischia di perdere possibile pubblico in presenza, quindi una potenziale opportunità si tramuta in una mera vendita di contenuti.
La piattaforma, insomma, si limiterà a ospitare contenuti prodotti da altri, ma con quali soldi? Questo non ci è dato saperlo.
Immagine di copertina:
Sito web ITsART
Scrivi all’Autorə
Vuoi contattare l’Autorə per parlare dell’articolo?
Clicca sul pulsante qui a destra.