Uno dei racconti sul mio bisnonno Nino Bergese che da piccola mi entusiasmava di più era la storia di come avesse intrapreso la strada della cucina che lo avrebbe poi portato a diventare uno dei cuochi italiani più importanti del secolo scorso. (leggi l’articolo precedente per saperne di più)
Un racconto che per me assomigliava quasi più ad una favola ambientata in un mondo lontano, fatto di dimore aristocratiche, sontuosi banchetti, prove da superare e un giovane protagonista che, grazie ad un severo maestro, trova la sua strada.
Era il 1917
Mio nonno tredicenne, terminate le scuole elementari, per aiutare la numerosa famiglia (undici con la mamma e il papà!), aveva iniziato a lavorare come aiuto giardiniere in una villa di campagna di tal conte Bonvicino, nel cuneese.
– Date, nomi e riferimenti topografici precisi nella mia favola di bambina non erano certo presenti, o almeno per quello che mi ricordo. In aiuto oggi mi vengono quindi la memoria di mia madre e i ritagli di giornali e riviste raccolti nei grandi album anni ’70 di famiglia. –
In casa mi raccontavano come mio nonno Nino, tra un lavoro in giardino e l’altro, attirato da odori invitanti, spiasse, attraverso le basse finestre che davano sul parco, le cucine indaffarate della villa che si trovavano sotto il piano nobile.
Da piccola mi immaginavo chiaramente la tipica scia odorosa dei fumetti, stile Yoghi e Bubu, che arrivava al naso di mio nonno e lo conduceva, quasi in trance, fino a quella finestra.
La sua curiosità – indotta forse più dalla fame – non passò inosservata tanto che lo chef della villa Giovanni Bastone (futuro cuoco di casa Agnelli) decise di prenderlo a lavorare con sé come piccolo di cucina.
Fu così che mio nonno abbandonò il rastrello per iniziare un lungo periodo di gavetta a lavar piatti oltre alle proverbiali quanto vere patate da pelare.
Occupato costantemente in queste mansioni da garzone non gli rimaneva altro che guardare, ritrovandosi ancora una volta a sbirciare la cucina come se fosse stato sempre accucciato dietro quella finestra in giardino.
Osservava attentamente lo chef e i suoi gesti, quella manualità che l’esperienza aveva reso così naturale; osservava il cibo, la sua consistenza e la sua trasformazione in piatto finito, e annusava e ascoltava tutta la varietà che era racchiusa in quella stanza.
Il capocuoco divenne il suo silente maestro: non spiegava nulla, nessuna parola che potesse svelare qualcosa di più di quel mestiere che agli occhi del giovane garzone iniziava ad assomigliare ad un’arte affascinante.
Ma non solo osservazione: mio nonno cominciò ad appuntare su di un quaderno tutti i passaggi delle ricette che venivano cucinate di giorno in giorno per compiacere i palati esigenti del conte e dei suoi ospiti, descrivendo le preparazioni in maniera sintetica ma didascalica allo stesso tempo, in un italiano in cui le doppie e i “gl” non sempre erano azzeccati al contrario invece di molti nomi di piatti e ingredienti, scritti, sorprendentemente, in un corretto francese.
Cosa curiosa e in apparente contraddizione, giustificata però dal fatto che la cucina classica francese a quel tempo dettava legge e che quasi tutti i ricettari a cui mio nonno poteva accedere erano scritti proprio in quella lingua d’oltralpe, così orecchiabile dopotutto per un piemontese.
Col passare del tempo mio nonno iniziò ad apprendere quindi le basi della cucina classica e internazionale (i nobili che sedevano alla tavola del conte erano abituati a tutte le più raffinate cucine del mondo) e in primo luogo imparò il segreto delle salse ben fatte, fondamentali a tavola e banco di prova per un cuoco.
E proprio con una salsa decise di cimentarsi per fare colpo sullo chef
Una mattina all’alba scese nelle cucine vuote, prese uova, burro e limone e preparò la salsa olandese, una base della cucina classica, difficile quel tanto da poter essere presa in considerazione dal maestro ma allo stesso tempo abbastanza veloce e realizzabile solo con una manciata di ingredienti, sempre reperibili nelle cucine – e sacrificabili in quella che doveva essere una ricetta di prova.
Lo chef rimase sorpreso dall’intraprendenza di quel garzone e, assaggiando la salsa olandese, anche dalla perfezione di esecuzione: decise di promuoverlo aiuto cuoco.
Iniziava così la carriera di mio nonno in cucina.
In poco tempo sarebbe stato richiesto da altre famiglie dell’aristocrazia sabauda e dell’alta borghesia per poi, nel secondo dopoguerra, trasferirsi a Genova diventando cuoco e proprietario di uno dei primi ristoranti stellati in Italia.
Si può dire insomma che una maionese al burro abbia cambiato la vita del mio bisnonno. Potevo allora tirarmi indietro? Ho dovuto necessariamente provare la ricetta di questa classica salsa, base della cucina francese, così rinomata e apprezzata a livello internazionale ma così poco conosciuta dal grande pubblico, oggi, in Italia – io pure non l’avevo mai assaggiata.
Ma prima le sue generalità
La salsa olandese, forse un’evoluzione francese di un’antica preparazione dei Paesi Bassi, è parente prossima della maionese: sono entrambe salse emulsionate, a freddo la più popolare maionese mentre al caldo del bagnomaria la nostra olandese; gli ingredienti inoltre sono praticamente gli stessi, fatta eccezione per il grasso di base, il burro.
Proprio l’accostamento di burro e succo di limone conferisce alla salsa olandese un sapore particolare, delicatamente acidulo, che può non riscontrare i gusti di tutti.
Ecco, tipo il mio, purtroppo.
Devo dire che sono partita carica di aspettative – che crescevano di pari passo col montarsi (a mano!) della salsa – ma con la prima ditata ho scoperto che proprio l’accostamento a caldo di burro e succo di limone non era il mio massimo. Ammetto un gran dispiacere, visto poi tutto quello che c’era dietro! – un nonno cuoco, una ricetta importante “ da gourmet”, un articolo e il fatto che io vado ghiotta di intingoli vari.
Ma le cose stanno così: il binomio temperatura tiepida e salsa acidula non mi ha convinto.
Magari ho sbagliato qualcosa io – mi è scappato un goccio in più di limone?
Ho deciso comunque di riprovarla, una seconda possibilità non si nega a nessuno, figuriamoci ad una ricetta base della cucina classica! Questa volta era fredda di frigo: a mio gusto, decisamente meglio!
La salsa olandese, come da tradizione, si deve invece portare in tavola appena pronta, senza farla raffreddare e viene usata per accompagnare pesci e alcune verdure come asparagi, fagiolini, cavolfiori; si può provare però anche all’interno di sandwich, soprattutto in abbinamento a carni bianche come pollo e tacchino, e, in questa sua versione alternativa fredda, io la preferisco (ma penso fosse chiaro!), magari spalmata su una tartina con sopra salmone affumicato e cipollotto fresco tritato.
Ricetta
La ricetta in ogni caso eccola qui, chissà mai che non svolti la vita anche a qualcuno di voi! Per la preparazione, ho seguito le indicazioni contenute nel libro di mio nonno “Mangiare da re”, edito da Feltrinelli.
Ingredienti
Occorrono:
2 tuorli d’uovo,
2 cucchiai rasi di brodo saporito (anche di verdure),
60 g di burro morbido
e poco meno del succo di mezzo limone
(ingredienti a temperatura ambiente!)
È possibile sostituire il brodo con 2 cucchiai rasi d’acqua, ma in questo caso bisogna ricordarsi di aggiungere anche un pizzico di sale e, se piace, pepe.
Preparazione
In una casseruola a bordi alti si uniscono i tuorli, il succo di limone e il brodo; si mette poi la casseruola a bagnomaria iniziando a battere energicamente con una frusta fino a che la salsa non inizia ad ispessirsi.
A questo punto, continuando a battere, si aggiunge gradatamente il burro a pezzetti fino a che il tutto non è ben incorporato e la salsa non ha raggiunto una consistenza cremosa.
Se esposta ad un calore troppo forte la salsa rischia di impazzire, quindi è importante che l’acqua del bagnomaria non raggiunga il bollore. Si può conservare poi in frigorifero per un giorno.
Mio nonno consiglia di aggiungere infine una manciata di capperi tritati, ma si può anche aromatizzare la salsa olandese con pepe e erbe fresche (prezzemolo, timo, erba cipollina, basilico).
Immagine di copertina:
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