Da quando è iniziata la quarantena, non sono mancati consigli e articoli su come viverla al meglio – tra dirette Instagram di fitness casalingo, corsi on-line per impegnare il tempo in modo produttivo e ricette per non abbandonarsi allo scoramento, c’è l’imbarazzo della scelta.
Sebbene tutte queste indicazioni abbiano l’indubbio merito di farci sentire vicini nel contrastare il disagio della vita casalinga coatta (io per prima ne ho già abbondantemente beneficiato!), ciò che le accomuna è una caratteristica: si tratta di rimedi provvisori, cure a scadenza per un male, ci si augura, temporaneo.
Per quanto sia ancora imponderabile concepire la concretezza del tanto agognato ritorno alla piena normalità, un proficuo esercizio che si può cercare di mettere in pratica, nel frattempo, è quello di costruire piano piano un sistema di ripresa che guardi al lungo periodo, che ci consenta di affrontare le lungaggini della situazione che stiamo vivendo con rispetto per le dinamiche di adattamento interiore di ciascuno.
Ben inteso, le buone pratiche che ci stanno facendo da salvagente in questo frangente potranno essere riprodotte e integrate nella quotidianità – basti pensare a una diversa concezione dell’allenamento fisico o una rinnovata curiosità verso l’apprendimento –, ma non saranno sufficienti da sole a supportare il buon umore per mesi senza parallelamente mettere in campo anche un nuovo modo di interpretare il rapporto con il tempo e lo spazio, non più vissuti come infiniti e liberamente percorribili, bensì scanditi, discreti, negoziati.
È qui che l’esperienza personale gioca un ruolo importante nell’individuazione di ciò che ci è più caro e indispensabile.
Per quanto mi concerne, i cambiamenti che hanno recentemente investito la mia vita mi hanno portata a trovare, là dove non avrei immaginato, un maestro, che mi mostra delicatamente la strada e mette alla prova la mia adattabilità con una leggerezza disarmante. Sarà successo anche a qualcuno di voi: la casa prima si riempiva di luci e di voci solo per colazione e per cena, ora invece gli altri non si costituiscono più come incontro, sono piuttosto una presenza solida, costante, a volte quasi ingombrante. Tra questi altri, da poco in casa mia c’è anche un gatto.
[Disclaimer: tranquilli amanti dei cani, non pensiate che questo sia un elogio dei felini, perché non è lì che vado a parare! Quello che sto imparando, in effetti, non cambierebbe di molto se avessi una tartaruga, un pappagallino o un criceto.]
La vita di un animale domestico ha tante caratteristiche che ricordano la situazione di clausura che siamo stati chiamati ad affrontare: ogni giorno passa tra le stesse mura, con orari scanditi dai pasti e dal sonno più che da altre attività, le occasioni di socializzazione all’esterno sono rare… a ben vedere, i punti di contatto sono molti, eppure siamo noi umani a sentirci in gabbia ora.
Certamente, la gioia del prendersi cura del proprio animaletto in questo senso ci è d’aiuto poiché comprende un sacco di benefit prevedibili: sviluppa il senso di responsabilità, acuisce l’ascolto e la comprensione dello stato d’animo e di salute altrui attraverso stimoli alternativi a quelli verbali, regala molto divertimento e, soprattutto, rilassa.
Ma si può andare oltre.
Accudire il micio nella crescita mi permette di osservare la sua capacità di interazione con un ambiente dato, immutato, con creatività ed energia. La costruzione della sua routine – sonno, pasti, gioco, igiene – dipende in massima parte dal suo istinto e dal rapporto con gli altri inquilini di casa, lasciando però sempre un margine per l’improvvisazione e l’esplorazione.
La preferenza verso determinate stanze, oggetti e persone varia al passo della complessità crescente delle sue abilità fisiche e relazionali, oltre che in funzione del gusto del momento. Il confine che mette a protezione delle esigenze della sua individualità, anche nella ricerca di una provvisoria solitudine, è poroso, lascia aperto un varco per gli altri membri della famiglia, senza per questo venire meno al suo distinto bisogno di indipendenza. Ogni giorno questo equilibrio si affina, evolve, migliora, stringe compromessi più fruttuosi con noi umani. Ogni giorno la sua prospettiva sul resto di questo mondo forzosamente delimitato si rinnova, si approfondisce, si regola.
Al netto dei tentativi finiti male (“no, non ti puoi arrampicare sui fornelli!”) e di qualche ostacolo che inevitabilmente la crescita presenta (“no, non ci passi più sotto la scarpiera!”), il bilancio dell’adattamento alla vita domestica è ampiamente in positivo.
E dunque, cosa fare di queste osservazioni?
Fermo restando che ognuno troverà il suo particolare metodo per adeguare necessità e desideri a una mobilità ridimensionata e a una socialità stravolta, si può provare a mettere in pratica una piccola rivoluzione di prospettiva.
Il tempo dilatato e lo spazio compresso ci hanno trasportati in una dimensione in cui lo scorrere delle lancette si riferisce solo alla ciclicità dell’oggi e la dimora di ognuno è ormai anche ristorante, palestra, ufficio, bar, cinema. Occorre riappropriarci delle nostre case, delle nostre stanze, evitando di cedere agli automatismi e ascoltando con attenzione il bisogno di distanziarci o riavvicinarci agli altri, in modo da assecondare la ricerca del benessere senza costringerla dentro paletti irrealistici.
Per quanto mi riguarda, mi impegno a seguire una nuova routine, che impedisca alle mie giornate di disgregarsi nell’accidia, ma che sia sufficientemente elastica per assorbire i momenti di riposo, di umore grigio, e per permettermi di arrampicarmi sui fornelli o cercare ostinatamente di passare sotto la scarpiera accogliendo l’esperimento con una risata.
Immagine di copertina:
Maros Misove on Unsplash
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