È tempo di avere del tempo per me

Dedica al tempo per me

Compitino per le vacanze: trovare il “tempo per me”, trovate il tempo per voi.
31 Luglio 2022
9 min
1.1K views

Sono seduta in un bar del centro storico di Genova, butto giù un caffè macchiato freddo, ci saranno 33 gradi, io ne percepisco almeno 40, eppure al caldo forte dovrei essere abituata, avendo trascorso quasi ogni anno, da quando sono piccina, almeno un paio di settimane d’agosto in Tunisia. E invece…

Dicono “ma se sei mezza africana!”. Penso “ma se sei mezzo cretino!”. Non sono mezza nulla. Se proprio dovessi identificarmi entro dei confini geografici, penserei a quelli del Mediterraneo. Ma sarebbe comunque limitante.

Dicono “ma almeno là è secco”. Questa faccenda del secco andrebbe ridimensionata, perché con 47 gradi ti sciogli comunque, sei liquefatta e maledici l’estate, le spiagge affollate, i vecchi tormentoni di Alvaro Soler che non si sa bene perché stanno a galla come i brutti braccioli color evidenziatore. 

L’estate è bella per tre sole ragioni: le ferie, i bagni in mare, gli abiti facili e leggeri. Ma serve tempo, per godere, e la giornata più lunga, nel mio caso, significa solo lavorare fino a tardi. 

In effetti, rifletto, è più secco, là. 

Colpa di questa umidità genovese, mi sudano pure i pensieri. Non riesco a capire se è peggio di altri anni. Non ricordo di aver mai acquistato prima un ventaglio ogni quattro giorni, ma non ho un ventilatore e non ho un condizionatore, per la gioia del pianeta affannato. La cosa che più mi sorprende e allarma al contempo è potermi tuffare in acqua senza la minima esitazione, senza i brrr inIziali, le tappe suggerite dalla tradizione orale, prima i piedi e le gambe, poi le braccia, le spalle e lentamente giù. Perché perfino dove vado a nuotare io, mare blu scuro, subito profondo, sassoso e attraversato da correnti gelide, è un brodo.

Comunque, l’estate per me è sempre un finale di stagione e la vera ripartenza sta appena dopo, a settembre.

È così da anni, da quando, appena rientrata in Italia dopo le vacanze, mi trascinavo a vedere i fuochi d’artificio e mi accorgevo che la sera, tutto d’un tratto, serviva indossare una giacchetta. Capodanno per me non ha mai rappresentato un momento di riflessione cruciale, ma solo il triste e definitivo superamento di Mariah Carey e All I want for Christmas is You.

È tra luglio e agosto che faccio i conti, che mi guardo indietro e mi do un abbraccio perché anche stavolta non è stato proprio tutto semplice, ma me la son cavata alla grande. Pochi giorni e si va in vacanza, mi consolo, mi premio. Ogni anno mi pare terribilmente necessario, un fatto vitale. Potrei morire di stanchezza e stress se non scappo e non mi ricarico. Ovviamente, è un privilegio.

Vacanza

Penso al termine vacanza. Qualche giorno fa ho ascoltato un podcast che ragionava intorno all’etimologia della parola: viene dal latino vacuum, che vuol dire vuoto. Penso a quando è stata l’ultima volta che ho fatto davvero una vacanza in senso etimologico: mai. 

Per me vacanza è riempire, riempire di tutto quello che nel quotidiano non riesco a fare abbastanza. Riempire di viaggi e posti da visitare, di letture e di culture da esplorare. Di sicuro vuoto non è un termine che mi viene naturale associare alle mie ferie. La mia fissazione per le parole mi stuzzica ancora.

“Ferie” e “feriale”, ho impiegato anni a superare la confusione, a sciogliere il dubbio. Prendevo la corriera da Recco a Genova tutti i giorni e tant’è non riusciva a entrarmi in testa che i giorni feriali indicati sul cartellone sbiadito degli orari fossero quelli lavorativi. Che lingua complicata!

Precisa la Crusca: “Il sostantivo ‘feria’ viene dal latino tardo feria, dal classico feriae -arum, collegato con festus ‘festivo’ e indicava nel mondo romano il giorno dedicato al culto pubblico e privato nel quale era proibito (nefas) esercitare il potere giudiziario e convocare comizi. Il sostantivo ha assunto, col cristianesimo, una variazione di significato ed è passato ad indicare i giorni della settimana (esclusi il sabato e la domenica) dedicati alla celebrazione di un santo”. Ci son sempre di mezzo i santi. 

Comunque, è quasi tempo di ferie e di vacanze, per me. 

Vorrei dire, però, che è tempo di avere del tempo per me

Tornando a quel caffè macchiato freddo, chiacchiero con l’amica seduta di fronte a me, sudore luminoso sul petto e una sigaretta in mano, pesanti orecchini dondolanti e matita occhi leggermente sbavata per l’afa. A un tratto, un’intuizione.

Biascicando per la fatica e il senso di colpa per lo spreco di energie (in questi giorni sembra di usarne troppe anche solo parlando), lei mi dice: “…sai, Ami, stavo pensando che pure volendola e trovandola, una relazione, mica avrei tempo.”

Ci ho pensato un attimo. Mi sono resa conto di dire da circa un anno e mezzo, almeno una volta al giorno, la frase “non ho tempo”. Illuminazione. Com’è che molte delle mie amiche e dei miei amici, come me, non hanno tempo? Non lo hanno per davvero eh. Non è tanto per dire, non è una forma espressiva di tendenza. Non so se ricordate l’odiosa “non ce la posso fare!”. Ecco, non è quella roba lì. 

È il tempo che si è accorciato? Siamo una generazione che non sa gestirlo in modo sano? Cosa non va?

Penso alle nostre agende (mentali, cartacee, algoritmiche) e vedo incastri e acrobazie che neppure il Cirque du Soleil. Ho amiche che vivono relazioni che definirei a “incrocio mancato”. Non si trovano mai con lə partner. Chi ha libero il pranzo, chi è a casa per cena. Coppie da weekend, praticamente. Sempre che non ci sia di mezzo qualche lavoro tipo la ristorazione risucchia-vita o il mio, che comunque un po’ di pc e telefono anche al sabato e la domenica…

Per riuscire a fare un pranzo in più di tre, con le mie amiche, dobbiamo fissare due mesi prima; alle grigliate manca sempre qualcunə che alla fine “non è riuscitə a liberarsi”.

Quando mamma mi racconta che ai tempi della sua giovinezza ci si beccava in giro, si usciva anche senza un appuntamento che tanto un volto amico prima o poi lo si incrociava e dall’incontro si costruiva il tempo insieme, mi sembra di ascoltare le gesta di Ercole. Mi sembra mitologia. 

Per carità, le mie amiche ormai sanno bene dove trovarmi all’ora di pranzo, ma è sempre una dimensione “a incastro”, più da tempo ritagliato che non da tempo dedicato. Ogni volta che decidi di fare qualcosa e incontrare qualcunə stai automaticamente rinunciando a qualcosa e a qualcunə di altrettanto importante. O almeno, questa è la mia impressione costante.

Se vado al concerto non vado al compleanno, se vado all’aperitivo non vado alla mostra, se scrivo un pezzo non sono alla cena, se vedo la persona che sto frequentando non incontro l’artista, ecc. Ci sono verɜ maestrɜ del mash-up, capaci di mettere tutto insieme, di trascinare le amiche disinteressate alle mostre d’arte (a volte ci riesco!) o di portare il fidanzato sul posto di lavoro, per ottimizzare. Ma che fatica!

Posto che evidentemente siamo dentro tutte quelle moderne definizioni filosofiche che piacciono assai (società della stanchezza, società della performance, società iperconnessa, società dell’influenza e non dell’informazione) e che “essere sempre occupatɜ” è una nuova dimensione dell’essere, piuttosto cool, veniamo al nocciolo della questione.

Perché questo articolo

Negli ultimi mesi ho ricevuto una trafila di messaggi di questo tipo:

“quando ci vediamo?”, “ma sei sempre impegnata?”, “non lo trovi un momento”?, “puoi passare per favore?”, “ci terrei tu passassi”, “manco fossi il Presidente degli USA”, “possibile che non riusciamo a beccarci?”, “neppure una birretta?”, “trovi un buco o pacchi di nuovo?”, “segna in agenda”, “tieniti libera”, “guarda che se pacchi mi arrabbio”, “ma dai, almeno un caffè…”, “vederti è un’impresa!”, “cerca di esserci”, “visto che sei sempre impegnata proponi tu una data”, “non lavori solo tu eh”.

Dopo averli letti quasi quotidianamente, dopo che me lo sono sentito dire di persona e tramite mail e chiamate, ho sentito la necessità di fare un importante distinguo tra il “tempo per me” e il “tempo per il resto/per lɜ altrɜ”. 

Tempo per il resto/per lɜ altrɜ è tempo impegnativo.

La socialità è impegnativa. Anche vedervi è impegnativo. Bellissimo, piacevole, arricchente o salutare, il più delle volte, ma impegnativo. Significa compromessi, accordi orari, parole, ascolto, condivisione, appuntamento a metà strada, l’euro del caffè o i 7 dell’aperitivo o i 10 della pizza ecc. Significa anche azioni che adoro enormemente per ragioni affettive, come prendere un mezzo per andare a trovare i miei.

Attenzione: a scrivere è una creatura sociale, più sociale che social, pensate un po’. Lavoro nella comunicazione e il mio terreno sono i social network, ma non c’è nulla che ami di più della relazione umana fuori dagli schermi (se possibile anche dagli schemi!).

Adoro stare in compagnia, sia quando me la son scelta sia – e forse perfino di più – quando mi è capitata; a casa, al cinema, al bar, al mare, la vita per me è principalmente una storia di confronto, condivisione, relazione con qualcosa che è fuori da me. Ovunque, io preferisco stare con le persone, parlare, toccare, osservare. Forse è per questo che cedo facilmente a qualsiasi invito, a qualunque proposta. 

Il confine tra proposta/invito e pressione, però, è sottile. 

Insistere, per chiarire, è fare pressione. Non tenere conto delle mie esigenze e di come gestisco il mio tempo è pressione. Non fermarsi al “non riesco, mi spiace” è pressione. La solfa delle priorità, la retorica del “trovi sempre il tempo per chi ti interessa davvero” è anacronistica e fuori luogo per molte delle persone che conosco.

Sistema malato, questo della prestazione continua, del multitasking come valore, del vivere per lavorare. Quando invece è proprio vero che il tempo, a volte, proprio non c’è, anche volendo ritagliarselo.

E il tempo per me, comunque, non è il tempo per voi. 

Segue ritmi tutti miei, tutti interni, persino corporei. Il tempo per me non è neppure il tempo di alcune mie passioni trascinanti – e in parte suicide – come la scrittura per le riviste, la ricerca, la collaborazione a progetti. Quello è lavoro intellettuale che mi stanca il più delle volte, cui mi dedico con dedizione e impegno, aggiunta spesso forzata alle mie giornate già piene. È fatica, per quanto coinvolgente, per quanto determinata da una libera scelta, per quanto non retribuita. 

Il tempo per me è altro ancora, è svincolato da qualsiasi finalità che non sia il mio piacere più puro, il mio spazio vitale di morbidezza, di dispiegamento, il mio bisogno naturale. È un tempo che non ha a che vedere con il tenere in piedi relazioni, con una disposizione verso l’esterno. Quel tempo di cui parlo è rarissimo, dovrebbe essere fuori da ogni pressione, da ogni pallino sull’agenda. È un tempo prezioso che mi sono promessa di ritrovare, almeno in parte, durante le vacanze. Che se non saranno vuote, almeno saranno tempo per me davvero.  

Per avere il tempo per sé, ho pensato, serve anzitutto rallentare e ancora prima, forse, imparare a rinunciare. Sapere rinunciare mi sembra oggi quanto di più sano e maturo possibile per il mio benessere psicofisico. 

Cresciamo con l’idea che la rinuncia significhi fallimento, con l’idea che sia fondamentale provarci sempre, dare sempre il massimo, essere sempre all’altezza delle proprie o altrui aspettative. Caparbietà è un valore, essere iper-impegnatɜ è un valore, fare duemilaottocento cose nello stesso periodo, nella stessa giornata, nella stessa mattinata è un valore. Una narrazione, questa, che ormai mi sembra tossica, al limite. Non la sopporto più.

Sono stanca di essere sempre stanca e di stancarmi di lamentarmi di essere stanca, di assecondare uno stile di vita che rifiuta la rinuncia, che accoglie ogni occasione come se fosse imperdibile, come se dovesse scavalcare ogni sentire più intimo. “Tanto sei giovane, anche io alla tua età facevo mille cose, è il momento giusto”. Anche questa frase mi ha stancata. È terribile quasi quanto quella che tira in ballo la comfort zone dalla quale è bene tirarsi fuori. Come se poi la gente sapesse davvero qualcosa della tua zona di comfort. 

Qualche giorno fa chiacchieravo con un collega del mio tatuaggio che recita “La fortuna aiuta gli audaci”. È il primo che ho fatto, a 18 anni. Fotografa perfettamente la propensione naturale di dieci anni fa, di quando mi sembrava dovessi cavalcare tutte le onde possibili, afferrare tutto perché tutto passa e certamente non ricapita. L’audacia come valore massimo. Che meraviglia.

Oggi so che forse l’occasione ricapita, magari in una forma diversa; o magari, nel mentre, sei cambiata tu e hai imparato a percorrere vie traverse. Sì, la fortuna ti aiuta e l’audacia è buona cosa, ma non quanto un buon contratto e la libertà di fare delle scelte.   

Partiamo da qua, comunque, dal fatto che non esistono fatiche e condizioni per fasce d’età.

Non solo sono stanca di non saper rinunciare, ma sono stanca anche di essere rimproverata, più o meno scherzosamente, da chi non accetta periodi di assenza; di sentirmi in colpa per ogni evento che perdo, per ogni appuntamento che manco, per ogni occasione che secondo altre persone dovrei afferrare senza esitazione, anche a costo di farmi esplodere il cervello.

Purtroppo (o per fortuna, a seconda dei punti di vista) sono stacanovista, appassionata, iperattiva e sovrastimolata, sono costantemente eccitata dal mondo e incuriosita dalle cose, dalle persone; probabilmente finirò ancora per incastrarmi in mille situazioni diverse contemporaneamente ogni volta che avrò la forza fisica e mentale di farlo. Figuratevi, sono una che pensa la notte sia fatta per fare quello che vorrei fare durante il giorno e che dormire sia uno spreco di tempo. Male, malissimo.

Quindi, per favore, non rincarate la dose. Compitino per le vacanze: trovare il tempo per me, trovate il tempo per voi.

Immagine di copertina:
Canva Pro


Scrivi all’Autorə

Vuoi contattare l’Autorə per parlare dell’articolo?
Clicca sul pulsante qui a destra.


Storica dell’arte specializzata in storia dell’arte contemporanea e curatrice indipendente, scrive per la rivista d’arte “Juliet”, lavora nel settore comunicazione della Coop. Il Ce.Sto e dei Giardini Luzzati-Spazio Comune, è social media manager di diversi progetti in corso, lavora nella redazione del network di comunità “Goodmorning Genova”. Co-fondatrice di Progetto A (associazione che ha realizzato progetti di curatela e promozione artistica). Sempre attenta all’attualità, con una forte vocazione per il sociale, attivista delle cause perse, mente aperta e curiosa, appassionata di cinema e accanita lettrice. Femminista. Viaggia spesso, vive di arti, di relazioni sociali, di incontri. Scrive, scrive, scrive -sempre, ovunque, specie di notte.

Vacanze green
Articolo Precedente

Sostenibili in vacanza | I consigli di Zena Verde

Lavoro creativo
Prossimo Articolo

Se la retorica del creativo ad ogni costo si spinge al limite

Ultimi Articoli in Large

BORDI | Il Paese che C'è. Carcere di Marassi, Genova

BORDI | Il Paese Che C’è

Dov’è il carcere? La segnaletica stradale indica ogni tipo di luogo, soprattutto nelle città. Tranne uno, nonostante sia densamente abitato e vissuto.
TornaSu

Don't Miss