“I musei assomigliano a luoghi rituali più antichi non tanto per i loro riferimenti architettonici specifici ma perchè, anche loro, sono scenari per riti” afferma Carol Duncan, professoressa Emerita del Ramapo College. Nel suo libro Civilizing Rituals: Inside Public Art Museums, Duncan sostiene che i musei, come i riti, mettono in mostra le credenze e i valori che costituiscono l’identità di una certa società, diventando quindi essi stessi luoghi di rito.
Duncan individua due aspetti cruciali che rendono il museo un luogo di rito: la sua liminalità e il concetto di performance.
La liminalità del museo risiede nel suo essere un luogo al di fuori della realtà quotidiana, sia fisicamente, quindi con architetture che segnalano la sua estraneità rispetto agli edifici adiacenti, sia imponendo decoro e regole specifiche: non si corre, non si grida, non si fotografa, non si tocca. Il risultato è che al visitatore/praticante del rito viene notificato di stare entrando in una realtà diversa che pretende da lui una qualità di attenzione speciale.
La performance è la messa in atto del rito. Questa viene compiuta dal visitatore. Secondo i sostenitori dell’idea di museo come luogo di rito, che è solo uno dei tanti modi per intendere il museo, non l’unico, l’obiettivo della performance è il miglioramente morale, politico e civile del visitatore, l’epifania culturale, l’enlightenment. Se si parla di perfomance, il museo è allora al tempo stesso il palco su cui avviene il rito e il regista che, illuminando e isolando le opere, indica al visitatore/ praticante del rito come contemplare, se non adorare, questi feticci/idoli secolari.
Visitando il Museo Diocesano di Genova questa è esattamente la sensazione che uno prova.
Il Museo Diocesano
Il Museo Diocesano, inaugurato nel 2000, è un museo di arte religiosa situato nel cuore di Genova, tra la cattedrale di San Lorenzo e Palazzo Ducale. Trova sede all’interno del chiostro della cattedrale, che un tempo fungeva da residenza per i canonici di San Lorenzo, e che nel corso dei secoli ha subito diverse trasformazioni. Il museo ospita per la maggior parte opere religiose provenienti da chiese della diocesi che spaziano dal I secolo a. C. al XX secolo (collezione Museo Diocesano). Esse sono distribuite secondo un ordine cronologico su tre piani: il piano dei fondi, al momento inaccessibile per lavori di ammodernamento, il piano terra e il piano primo (visita il museo). Vi è inoltre il piano ammezzato, di cui parleremo approfonditamente in seguito.
Il Museo Diocesano come luogo di rito
Il Museo Diocesano rientra nella definizione di museo come luogo di rito per diversi motivi. Il primo, lampante, è la sua sede. Il fatto che sia stato istituito all’interno di un edificio caratterizzato da grande sacralità e collegato da passaggi alla cattedrale stessa, alcuni visibili in via Tommaso Reggio, pone delle basi piuttosto solide per sostenere questo paragone.
In secondo luogo, a causa dei lavori al piano dei fondi, il percorso museale inizia con la visita al piano inferiore del chiostro. Questo funge quasi inconsapevolmente da portale tra il mondo secolare, che abbandoniamo alle nostre spalle, e quello del museo-rito.
Attraversandolo, il visitatore/praticante del rito, si ritrova nella stessa condizione dei canonici che un tempo si ritrovavano in questo luogo per meditare e riflettere sull’esistenza di Dio. Purificandosi in questo spazio e lasciando fuori le preoccupazioni legate alla vita quotidiana, il visitatore/praticante del rito è pronto per entrare nel vivo dell’esperienza.
Ad accoglierlo al piano terra e al piano primo vi sono opere testimonianza della produzione artistica genovese dal XII al XVI secolo. La natura sacrale dei manufatti costituisce il terzo motivo per cui il Museo Diocesano ben si presta come luogo per la performance rituale.
Le opere, un tempo esposte sugli altari e nelle cappelle di veri e propri luoghi sacri, emanano tuttora un innegabile aura sacra e, complici un intelligente allestimento che evita l’affollamento di opere nelle sale, le isola e le illumina, ipnotizzano il visitatore/praticante del rito e lo inducono alla contemplazione.
Blu di Genova
L’apoteosi del museo come luogo rituale è il piano ammezzato, che ospita il ciclo Blu di Genova. Si entra esitanti in una sala buia, avvertendo quindi la liminalità del luogo. Dopo qualche secondo i sensori percepiscono la presenza del pubblico, le luci si accendono e il visitatore viene colpito dall’apparizione delle tele blu dipinte a monocromo che adornano le pareti della sala.
Nella stanza adiacente, il visitatore/praticante del rito può sedersi su una panca dalla linea semplice, che ricorda molto quelle che si trovano in chiesa, e contemplare le opere raffiguranti scene sacre.
Nel caso della nostra visita, siamo stati graziati da una apparizione miracolosa. Una sacerdotessa nelle vesti di una volontaria della Diocesi di Genova e nelle veci del Museo-regista si è offerta di guidarci nella pratica del rituale museale fornendoci indicazioni sulle opere e così suggerendoci come interpretarle e a cosa prestare attenzione.
La peculiarità di queste tele, realizzate in fibra di lino e tinte con l’indaco, è che possono essere considerate antenate delle tele di Genova, più conosciute come jeans. Allora appare chiaro che il museo, come i riti, sta mettendo in mostra l’identità di una certa società, quella genovese, quella degli abili mercanti e navigatori che commerciando la particolare stoffa contribuirono a renderla famosa.
Se oltre a rinvigorire l’orgoglio genovese il museo riesca anche ad offrire un’esperienza rituale, è del tutto soggettivo. Vi è un unico modo per dichiararsi in accordo o meno con la teoria del museo come luogo di rito: andare a visitare questo museo.
Immagine di copertina:
Museo Diocesano, chiostro con riflesso. Foto di Maria T.
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