STORIE CHE CI ABITANO | L’arte di legare le persone di P. Milone e il racconto di una cura

STORIE CHE CI ABITANO | L’arte di legare le persone di P. Milone e il racconto di una cura

Una raccolta di frammenti di vita, sofferenza e cura raccontate da uno psichiatra genovese, un libro poetico che racconta storie che non si vedono.
22 Marzo 2024
3 min
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Mi piacciono molto le sintesi ben fatte, trovo sia un altissimo modo di usare le parole, usarne poche e con precisione: leggo tanta poesia per questo. L’arte di legare le persone è un libro di frammenti, di piccole poesie.

Pubblicato da Einaudi nel 2021, l’autore è uno psichiatra genovese, questo è il suo primo libro. Mi piacciono anche i libri in cui si sente l’urgenza di raccontare, che quella storia stava lì dentro chi la scrive, è stata in movimento per tanto tempo e finalmente ha trovato le parole per uscire.

La storia, le storie, in questo caso, sono quelle che rimangono tra le maglie del setaccio dopo 28 anni di lavoro in un reparto psichiatrico ospedaliero a Genova.

I frammenti contengono sempre i nomi dei loro protagonisti: infermieri, colleghi giovani e anziani, e pazienti. Sono frammenti di dolore, angoscia, terrore, solitudine, poche righe alla volta raccontate con lo sguardo e la voce di chi ha incontrato le forme più dolorose e oscure dell’umano, e sa che non sono le parole scientifiche, tecniche, mediche che spiegano, sempre che sia possibile spiegare, l’incontro con una crisi, un suicidio, la violenza di certe vite. 

Ci sono due parole, che ritornano nel libro: contenere, legare, con i loro bellissimi multipli significati. E’ una psichiatria che lega, quella di Milone, posizione decisamente opinabile, sostenuta con senso e con pensiero: non legare, sarebbe lasciare andare, non curare, abbandonare, non trattenere alla vita, dice lui.

Ci sono tanti frammenti sulle contenzioni che raccontano il dolore, la lotta dei corpi, mani, braccia, chiavi e urla e sudore, e calma, poi. Un po’ fa rabbrividire, me e Basaglia e la mia collega che lavora in un Centro di Salute Mentale e mille altri professionisti con una pratica molto diversa, ma in queste parole è raccontato il suo modo, nessuna verità.

Il concetto stesso di verità si sfuma quando tutti i giorni incontri persone le cui verità sono così dolorose, così impensabili. E sono disposta ad ascoltare chi racconta dei suoi pazienti con queste sintesi, sono convinta che voglia dire che ha pensato tanto, li ha incontrati davvero, si è scontrato e interrogato ogni giorno. 

C’è molta Genova in questi frammenti, i folli di Genova sono diversi dai folli delle altre città?

Si nascondono meglio, al sesto piano di un palazzo dei vicoli con le scale tutte storte e i gradini altissimi, in quei palazzi dove sembra che non entri mai la luce, stanno lì e nessuno sospetta niente finchè non urlano, non buttano i mobili dalla finestra: “La città è piena di persone che non esistono.”

I folli e gli psichiatri, e i sani, e i sofferenti, e i preoccupati genovesi si rifugiano al mare quando tutto sembra troppo, lo guardano muoversi, il mare che “raccoglie tutte le lacrime del mondo”.

Il mare da cui si va per scambiare i dolori e i pensieri, tu lì fermo sullo scoglio e lui che si avvicina e si allontana, lui immenso, e tu piccolo, e solo quando sei pronto per tornare in te, ecco che senti il freddo, il vento, il caldo, la fame; risali, e torni a casa.

C’è Genova che  mostra sempre, anche dopo tutta la vita che ci cammini dentro delle creuze mai percorse.

C’è l’incontro autentico, c’è la consapevolezza che il confine tra folle e sano è un’invenzione, e la certezza che in quella che chiamiamo follia ci sono delle visioni lucidissime della violenza della nostra società, delle ingiustizie, del non-senso, e che il difficile di fare un lavoro che questa follia la incontra, è credere che il mondo sia ancora un posto in cui è possibile stare bene.

C’è la convinzione che come ci prendiamo cura, o non lo facciamo, delle persone che stanno male in un modo scomodo, che ci fa paura, dice molto su che tipo di società siamo. 

“Filippo, tu hai bisogno di  confini più che di ossigeno, perché l’identità è un confine. e così io, che sono anarchico per natura, sono costretto a costruire pareti. prima dentro di te, come stanze in una casa. poi tra te e fuori di te. E che siano muri spessi, belli alti. la libertà di abbattere i muri, la cerchiamo dopo”.

“Mi dici che per te stretta è la felicità, mille stanze ha la tristezza, sterile la felicità, fertile la tristezza, sguaiata la felicità, signorile la tristezza, triste la felicità, consolante la tristezza, stolta la felicità, saggia la tristezza, fugace la felicità, fedele la tristezza. Ti fermi e mi guardi: hai paura che io non ti capisca. Chiara, potrei moltiplicare il tuo elenco per mille.”

STORIE CHE CI ABITANO | L’arte di legare le persone di P. Milone e il racconto di una cura
Foto di Emanuela F.

Immagine di copertina:
Grafica wall:out magazine su foto di Emanuela F.


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Emanuela detta Malo, genovese classe 1996, vive e lavora Torino, dove si è trasferita per l'università e non se ne è più andata. Gira per la città in bicicletta, lavora come psicologa collaborando con diverse realtà del terzo settore in progetti rivolti a persone migranti. È un'appassionata lettrice e nuotatrice: poiché la gran parte dei libri che possiede, e il mare, sono a Genova è facile capire che non se n'è mai andata del tutto.

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