wall:out Patriarcout 2023. Gender gap: perché lavorare è ancora più difficile se sei donna.

Perché lavorare è ancora più difficile se sei donna

Riflessioni sul gender gap a partire dai dati.
1 Dicembre 2023
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Il mercato del lavoro italiano offre poche opportunità, ce lo dicono i numeri sulla crescita delle retribuzioni o sulla fuga di cervelli, ormai diventata un problema strutturale. Ci sono però persone che soffrono più di altre delle disfunzionalità del lavoro in Italia, come i giovani, gli stranieri e, più che in altri Paesi, le donne.

Il tasso di occupazione femminile italiano è il più basso dell’Unione europea: solo il 56 per cento delle donne tra 20 e 64 anni ha un lavoro, poco meno di una su due, contro il 78 per cento della Germania e il 70 per cento della media Ue.

Le donne italiane, a parità di mansione e anzianità, guadagnano il 5 per cento in meno degli uomini, un dato non particolarmente alto, ma che dipende soprattutto dal bilanciamento nel settore pubblico. In quello privato, il gap è molto più alto.

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Lavoro femminile: donne alla ricerca di equilibrio tra famiglia e carriera. Fonte insidemarketing.it

Lo svantaggio sul mondo del lavoro si traduce poi in una forte differenza tra uomini e donne nell’indipendenza economica.

Il reddito medio delle donne italiane è di circa 15 mila euro, contro i 25 degli uomini. Anche quando hanno successo, poi, le donne tendono a rimanere in una posizione economicamente subordinata rispetto agli uomini: delle persone nella top 10 per cento a livello di reddito, solo il 40 per cento è fatto di donne, che peraltro hanno un reddito medio (33 mila euro) molto più basso rispetto agli uomini che appartengono alla stessa classe sociale agiata (62 mila euro).

Queste differenze non dipendono solo da discriminazione diretta (il datore di lavoro decide consapevolmente di pagare meno una dipendente in quanto donna), ma anche e soprattutto da una serie di norme e convenzioni sociali che fanno sì che le donne si trovino in una situazione di svantaggio.

È il modo in cui la società patriarcale impatta la vita delle donne anche nel mondo del lavoro, perché ci si aspetta da loro qualcosa di diverso rispetto al successo nella carriera e alla dedizione al lavoro.

C’entra soprattutto la presenza di figli: nell’anno della nascita del primo figlio, le donne italiane vedono il proprio reddito ridursi in media di 7 mila euro annui. Dopo lo shock, il reddito torna a salire, ma arriva ai livelli precedenti la nascita del figlio solo 15 anni dopo.

La ragione è semplice: l’allontanamento dal lavoro comporta una perdita temporanea di reddito. Una volta che è in grado di tornare al lavoro, però, la donna non dovrebbe più avere problemi, ma non è così.

Quando i figli sono piccoli, occorre che qualcuno se ne prenda cura. In molti Paesi, esistono servizi per l’infanzia di qualità che permettono alle madri di scaricare il peso della genitorialità almeno in parte sui servizi pubblici.

In Italia, tutto questo non avviene per la maggior parte delle famiglie. La spesa per la famiglia è infatti tra le più basse in Unione europea (1,4 per cento del Pil, circa 400 euro pro capite, contro il 2,2 per cento, o 700 euro pro capite, della media Ue). Non avere servizi per l’infanzia a disposizione significa non avere tempo da dedicare al lavoro.

Così, molte donne sono costrette a lasciare il proprio impiego (da qui il basso tasso di occupazione femminile) o a scendere a compromessi, lavorando (e guadagnando) meno.

Non a caso, il 65 per cento delle donne che lavorano part time preferirebbe stare in ufficio per più ore, ma non può farlo, quasi sempre per ragioni legate alla cura della famiglia (gli uomini in “part time involontario” sono solo l’11 per cento).

Ma quindi il problema del gender gap riguarda solo le madri?

Non proprio. Le aspettative giocano un ruolo fondamentale. Moltissime aziende preferiscono assumere un uomo rispetto a una donna per paura che questa possa rimanere incinta, anche se magari mettere su famiglia non è nei suoi piani.

La forte presenza di uomini nelle posizioni manageriali, poi, fa sì che ci sia una selezione interna per le promozioni, con i dirigenti che tenderanno a promuovere più spesso le persone in cui si riconoscono (e quindi gli uomini).

Le diverse aspettative di qualità, competenza e ambizioni si vedono a tutti i livelli: nelle lettere di raccomandazione per i dottorati, per esempio, le candidate donne vengono più spesso descritte come capaci di lavorare in maniera diligente e solerte, mentre agli uomini viene più spesso associato il possesso di capacità e competenze eccezionali.

Per ridurre questo divario, dunque, non basta offrire alle donne le condizioni per liberarsi dal ruolo di madri e basta che viene loro assegnato dalla società (e su questo c’è ancora molta strada da fare), ma tentare anche di cambiare le nostre attitudini e le nostre convinzioni sulle loro capacità nel ricoprire nuovi ruoli che sono tradizionalmente assegnati agli uomini.

Immagine di copertina:
wandaproject con illustrazione di Martina Spanu


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Giornalista economico. È responsabile delle operazioni di Pillole di Economia, startup di divulgazione e informazione economico-finanziaria. Collabora con Domani, Pagella Politica, Linkiesta e lavoce.info, di cui è stato Editor e Responsabile del desk editoriale dal 2019 al 2022. Ha ottenuto un Master in Economics alle Università di Pavia e Hohenheim (Stoccarda) e una laurea in Economia e Commercio all’Università di Genova.

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