Misculin di “il Post” parla di giornalismo e percorsi migratori al servizio civile

Misculin di “il Post” parla di giornalismo e percorsi migratori al servizio civile

Percorsi migratori e persone in movimento, come raccontarne? Ne parla Luca Misculin, giornalista del Post a volontar* del servizio civile di Genova.
8 Dicembre 2023
15 min
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Nell’ex abbazia di san Bernardino, quartiere del Carmine, una platea straordinariamente giovane per una città come Genova accoglie Luca Misculin, giornalista di il Post, autore dei podcast “La Nave” e “10 risposte sui migranti”, invitato dalla cooperativa sociale La Comunità onlus per raccontare le migrazioni odierne a coloro che quest’anno hanno iniziato il servizio civile.

Le attività di Servizio Civile (articolo di wall:out Guida completa al Servizio Civile genovese) si svolgono in buona parte nel settore del sociale con enti che si occupano di persone fragili, ad esempio perché in carcere, senza fissa dimora o migranti; altri progetti sono invece nell’ambito culturale.

Questo articolo è frutto di una rielaborazione di quanto raccontato da Misculin durante il suo intervento moderato da Alessandra Risso della Cooperativa Sociale La Comunità e in una breve conversazione con Federica Bruzzone di Wall:out Magazine.

Misculin di “il Post” parla di giornalismo e percorsi migratori al servizio civile
La conferenza nell’ex abbazia di san Bernardino a Genova. Foto di Federica B.

Diritti umani, percorsi migratori, persone in movimento, come raccontare queste vicende?

Il Post prova a distinguersi per forma e contenuto dagli altri giornali italiani rifacendosi alla tradizione anglosassone, più legata ai fatti e meno letteraria: usare le parole giuste, più aderenti alla realtà è il primo passo per capire il contesto.

La tradizione giornalistica italiana storicamente nacque legata alle riviste letterarie, in un panorama culturale letterario molto vivace di cui i primi quotidiani sono estensione: tanti scrittori scrivono su giornali, letteratura e giornalismo sono ibridati quindi la tendenza è che il racconto letterario sconfini nel testo giornalistico con “attacchi brillanti” che incuriosiscono il lettore ma spesso non vanno al centro della notizia.

Se a farlo è Moravia o Calvino il risultato è di grande spessore, ma spesso finisce a tentare di farlo anche l’ultimo cronista del giornale locale.

Ne deriva un giornalismo che ci fornisce una minore comprensione della realtà.

Il giornalismo di tradizione anglosassone, invece, nasce in relazione a un contesto mercantile che ha bisogno di informazioni  concrete sulla circolazione marittima, sullo sbarco delle merci, sulle difficoltà commerciali legate ad avvenimenti e politiche di Paesi terzi.

Questo ha creato un giornalismo più ricco di dati e di contesto, scritto in una lingua molto quotidiana, priva di espressioni letterarie tipiche del giornalismo italiano.

La missione del Post è quella di capire una notizia, sintetizzarla senza banalizzarla e usare parole che permettano a tutti di recepirla; il Post offre un servizio pubblico creando un giornalismo inclusivo che faccia in modo di arrivare a tutti senza dare nulla per scontato, evitando linguaggi ostici e cercando di far capire in modo chiaro e accurato le cose andando al centro della questione.

Il fatto che la lingua del Post sia molto vicina a quella orale e quotidiana ha aiutato il giornale ad avvicinarsi con relativa facilità ai podcast, anticipandone la diffusione in Italia.

La potenza della voce umana è innegabile: c’è un motivo se l’Iliade e l’Odissea sono state trasmesse oralmente per secoli prima di essere trascritte, l’attenzione che diamo a qualcosa che ci viene raccontato è maggiore rispetto alla lettura.

Stiamo vivendo un mondo e un’epoca in rapida evoluzione, in cui succedono cose atroci anche alle porte dell’Europa, basti pensare a Ucraina e Medio Oriente.

Fatichiamo a comprendere e di fronte a un mondo che brucia è molto più facile ripiegarsi su se stessi.

Perciò parlare di integrazione del diverso, declinato in tanti modi (persone migranti, detenute, ai margini..), viene visto con sospetto poiché il diverso è individuato come capro espiatorio di quello che non funziona per dare una soluzione semplice a problemi complessi (articolo di wall:out Il Paese Che C’è).

Gestire la migrazione

In Italia non esiste un vero proprio piano per gestire la migrazione, un fenomeno umano che è sempre esistito; da quando l’Italia è meta di immigrazione i governi di schieramenti politici diversi hanno provato a fare finta di nulla tenendo fuori quante più persone possibile nella speranza che esse diminuissero.

Approccio legittimo che però negli ultimi anni di crisi legate alle guerre, alla pandemia e al cambiamento climatico si è rivelato quantomai fallimentare.

In Italia non esistono canali di immigrazione legali per chi arriva da determinate parti del mondo per studiare o lavorare, per alcune aree di provenienza esiste il Decreto flussi con cui le aziende individuano lavoratori stagionali teoricamente assunti mentre si trovano in un altro Paese, ma si tratta di uno strumento troppo ristretto.

L’unico altro canale è l’arrivo via mare.

Da ormai dieci anni esiste questo flusso d’ingresso stabilizzato che ha visto arrivare circa un milione di persone, l’arrivo via mare è legato sì alla posizione geografica della penisola, ma soprattutto alla mancanza di canali legali d’arrivo, per tali ragioni non si può parlare di emergenza.

Queste persone arrivano in Italia irregolarmente perché non possono fare altrimenti, si trovano in una condizione di precarietà dopo aver speso tutti i propri risparmi e subito torture e stupri sistematici, perciò sono un bersaglio politico molto facile sul quale scaricare tutto quello che non va.

La politica ha avuto gioco facile ad adottare una narrazione che demonizza le migrazioni e i giornali italiani –  che hanno una continuità con la politica – hanno seguito.

La realtà viene raccontata quindi in questo modo

Anche giornali dove lavorano colleghi stimati titolano con frasi come “emergenza sbarchi”, ma non si può parlare in questi termini di un flusso stabilizzato e presente da oltre 10 anni.

Anche “sbarco” è un termine apparentemente neutro ma con un sottotesto disumanizzante perché fa pensare all’oggetto, la nave, e non alle persone con cui empatizzare.

Vengono poi usate parole apertamente discriminatorie anche su giornali che non appartengono all’aria politica conservatrice, come la parola “clandestino” che non ha alcun riscontro nell’ordinamento giuridico italiano in riferimento alle persone, senza contare che una persona arrivata irregolarmente in Italia può intraprendere alcuni percorsi per regolarizzarsi, sebbene complicati.

La diffusione dei social ha ulteriormente esacerbato questa polarizzazione perché gli algoritmi tendono a promuovere contenuti che suscitano emozioni forti e tengono gli utenti più tempo sulle piattaforme.

Qui trovano campo abbagli collettivi su cui i leader politici fanno leva cavalcando con facilità questo spirito del tempo per il proprio tornaconto elettorale. 

Al contrario scardinare tutto questa narrazione non è affatto semplice e non si tratta di voler far attivismo ma di raccontare la migrazione in maniera più aderente alla realtà, essa non può essere descritta come un fenomeno negativo ma è qualcosa di intrinsecamente legato alla natura umana.

Viceversa il dibattito politico non si cura di emigrati italiani, un problema complesso da risolvere e non un capro espiatorio che porta voti facili.

Per via del calo demografico i giovani hanno sempre meno peso politico e meno spazio nel dibattito pubblico, sono spesso raccontati come apatici ma la realtà è che essendo pochi non possono fare la rivoluzione che hanno fatto i boomer negli anni ‘60-’70, perciò riuscire a far sentire le proprie istanze diventa complicato.

Oggi i Paesi in cui i giovani sono ascoltati sono quelli in cui la popolazione è giovane come il Kosovo dove l’età media è 29 anni, la più bassa d’Europa, mentre in Italia l’età media è la più alta, 48 anni.

Con la fine delle ideologie è diventato sempre più difficile organizzarsi e creare movimenti collettivi che possano portare all’attenzione del dibattito politico il fatto che molti giovani vedano altrove il proprio orizzonte e pensino che l’Italia non possa soddisfarli.

Misculin di “il Post” parla di giornalismo e percorsi migratori al servizio civile
La conferenza nell’ex abbazia di san Bernardino a Genova. Foto di Federica B.

Luca Misculin è anche un esperto d’Europa, ha una rassegna stampa settimanale di giornali europei, Morning Weekend.

Qual è la posizione dell’Unione Europea in relazioni alle politiche migratorie?

In sede europea fino a qualche anno fa c’era un approccio molto pragmatico in merito alle migrazione con alcuni Paesi (ad est) ostili all’immigrazione, altri (a nord) storicamente molto più aperti, e altri ancora (quelli mediterranei) che tendono a spostarsi fra questi due poli a seconda del governo in carica.

Nel 2015 la guerra siriana determinò un esodo verso l’Europa attraverso la rotta Balcanica: dalla Turchia le persone si imbarcavano su gommoni raggiungendo le vicine isole greche da dove venivano poi portate sulla terraferma per poi risalire la penisola balcanica cercando di raggiungere i Paesi dell’Europa centrale e settentrionale, soprattutto Germania e Scandinavia.

Questo portò uno sconvolgimento politico.

La Commissione Europea (l’organo che detiene il potere esecutivo dell’Unione) provò ad avviare uno strumento di ricollocamento volontario dei richiedenti asilo che arrivavano in Europa via mare soprattutto in Italia e Spagna, questo tentativo di ridistribuzione aveva lo scopo di essere più sostenibile rispetto alla Convenzione di Dublino ma fallì perché diversi Paesi rifiutarono di renderlo operativo, in particolare Ungheria, Cechia, Slovacchia e Polonia non accolsero alcun richiedente asilo.

La Convenzione di Dublino, l’attuale normativa europea in materia di flussi migratori, risale all’inizio degli anni ‘90, uno dei rari momenti storici durante il quale non si stavano verificando sommovimenti migratori di massa per via delle poche guerre e della crescita economica globale.

Questo regolamento stabilisce che chi entra in territorio europeo deve presentare domanda d’asilo nel primo Paese d’ingresso e rimanervi, quindi si tratta necessariamente uno Stato di frontiera. Questo è sostenibile per stati ricchi come l’Italia, abbastanza per la Spagna, poco per quelli del sud-est dell’Unione come la Grecia.

Le navi, militari o civili, che battono bandiera di un Paese dell’Unione Europea sono considerate legalmente estensione del territorio europeo anche in acque internazionali quindi valgono le stesse norme dell’Unione Europea e le persone migranti eventualmente soccorse vi possono richiedere asilo.

Si è tentata una riforma del trattato che nel 2017 venne approvata da buona parte del l’arco parlamentare europeo ma non dal Consiglio dell’Unione Europea (dove sono rappresentati gli esponenti dei governi) perché prende decisioni solo all’unanimità e i Paesi dell’est Europa si opposero.

Dal 2015 a oggi il clima politico si è molto inasprito così è diventato mainstream individuare ancora di più nei migranti il nemico da osteggiare.

Ciò ha cambiato le carte in tavola e impedito che quella riforma venisse ridiscussa, in questo momento in Parlamento europeo si sta discutendo una micro riforma che si basa sul cercare di tenere fuori dall’Unione il maggior numero di migranti possibile scoraggiando l’arrivo di persone via mare e restringendo le possibilità legali di arrivare qui.

Questo approccio è in contraddizione con le leggi europee secondo cui ogni persona che mette piede in territorio europeo ha diritto a chiedere asilo e non può essere respinto, quello che si è fatto è stato semplicemente cercare di aggirare questa norma attraverso l’esternalizzazione delle frontiere stipulando accordi con Turchia, Libia e Tunisia che possono respingere i migranti senza infrangere alcuna normativa europea.

Tali accordi finanziano le forze militari dei confini turchi, libici e tunisini col compito di catturare migranti ed evitare che lascino il Paese.

Le persone migranti vengono perseguitate: in Turchia i siriani vivono in campi profughi dove è diffuso lo sfruttamento del lavoro minorile, in Libia c’è una guerra civile da una dozzina d’anni e nei centri di detenzione è comune il ricorso a torture, stupri e richieste di riscatto, in Tunisia il presidente autoritario Kaïs Saïed ha addossato ai migranti subsahariani la colpa della crisi economica che dura dagli anni delle Primavere Arabe.

Il diritto dei migranti ad entrare in Unione Europea e chiedere asilo è così molto limitato e le loro sofferenze sono prolungate.

Dal momento che tutto ciò accade lontano dai nostri occhi noi europei non ce ne rendiamo neppure conto; l’impressione è che di questi temi molti non vogliano sentir parlare perché sapere che i nostri governi finanziano tutto ciò ci turba, ma essendo in luoghi lontani possiamo cinicamente evitare di riceverne notizia.

Occuparsi di migrazioni oggi è estremamente complesso perché richiede nozioni di diritto marittimo, seguire il dibattito politico italiano ed europeo in merito e conoscere quello che sta accadendo nei Paesi di partenza e di transito delle persone migranti, così da avere contezza di cosa spinga le persone a spostarsi.

Un racconto giornalistico dei Paesi africani e di cosa voglia dire migrare è assente perché l’attualità africana non è un tema di interesse e leggerne ci fa sentire impotenti e in colpa, quindi tendiamo a non informarci.

Ad esempio nel 2023 una persona su 9 arrivava in Europa dalla Guinea Conakry, un Paese a vocazione agricola in cui il cambiamento climatico sta facendo danni enormi e in cui i conflitti etnici sono meno accesi rispetto ad altri Paesi limitrofi, ma la vita è complicata da una giunta militare che ha preso il potere da un paio d’anni.

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Conakry capitale della Guinea. Fonte Wikicommons

Una nuova discriminazione

Un altro aspetto che sarebbe importante conoscere per avere gli strumenti per comprendere gli attuali flussi migratori è che in Tunisia la discriminazione verso le persone dell’Africa subsahariana è di recente diffusione, ciò ha peggiorato le condizioni di vita di chi già viveva li ed ha aumentato le partenze.

Questo come diretta conseguenza di un discorso politico che ripete “rubano il lavoro ai tunisini, portano criminalità, vivono alle spalle dello stato”, discorsi analoghi a quelli che alcuni politici fanno in Europa da anni e che si facevano nei confronti degli ebrei un secolo fa.

Così molte persone che vivono in Tunisia ma provengono da Paesi dell’Africa subsahariana sono state licenziate, non riescono più a trovare una casa da affittare, non possono uscire la sera perché c’è impunità verso chi li aggredisce.

Sapere ciò ci rende più preparati a capire perché queste persone si imbarcano.

Anche rispondere a domande banali aiuta a comprendere il fenomeno migratorio, come ad esempio perché non si portano bagagli? Sono i trafficanti ad impedirlo per stipare quante più persone possibile e perché se avevano dei beni li hanno venduti.

Conoscere questi dettagli apparentemente secondari ci aiuta a comprendere.

Sulla Geo Barents

Luca Misculin racconta la propria permanenza a bordo della Geo Barents per una missione di soccorso di Medici Senza Frontiere, da cui è nato il podcast “La Nave”.

C’è una diffusa ostilità verso le navi che praticano soccorso in mare perché le ONG sono gestite da associazioni spesso non italiane, il cui equipaggio è composto da giovani di solito stranieri che trasportano persone non europee nei porti italiani, perciò sono un bersaglio politico semplicissimo.

Spesso nel discorso politico si parla della presenza di queste navi come di un pull factor, cioè di incrementare le partenze, vengono chiamate taxi del mare, ma i dati dimostrano che non è così e che l’unico fattore che aumenta le partenze è quello meteorologico.

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La nave Geo Barents. Fonte Wikicommons

Prima di imbarcarsi sulla Geo Barents su invito di Medici Senza Frontiere, Luca Misculin si è chiesto cosa la sua presenza a bordo potesse aggiungere dato che ormai tanti giornalisti sono stati sulle navi delle ONG, la risposta che si è dato è legata all’approccio del Post:

Spiegare bene le cose partendo da elementi concreti e senza dare nulla per scontato.

Così ha realizzato il podcast giornaliero “La Nave” che pur essendo una sorta di diario di bordo è volto a rispondere a domande molto concrete, attraverso puntate monotematiche: com’è fatta la nave (misura 77 metri per 20, ha 5 ponti), che persone ci lavorano e che competenze hanno, come si esercitano per effettuare i soccorsi in mare, come sono le loro giornate, come fanno a sapere dove c’è qualcuno da soccorrere, l’attesa, il protocollo medico, le operazioni di soccorso, la complicata fase dell’accoglienza delle persone a bordo, cosa succede nei giorni seguenti fino allo sbarco.

Nell’operazione a cui ha assistito sono stati soccorsi 190 uomini provenienti perlopiù da Pakistan e Bangladesh, trasportati sulla Geo Barents da un gommone semi-rigido che fa la spola fra l’imbarcazione e la nave perché quest’ultima è troppo grande e se si avvicinasse creerebbe delle onde che farebbero ribaltare l’imbarcazione, spesso ex pescherecci pronti alla rottamazione o barche di fortuna praticamente usa e getta realizzate saldando pezzi di lamiera.

Queste persone sono senza cibo, senza acqua, senza bagno, per giorni, soffrendo il mal di mare: immaginate l’odore, un aspetto di cui non si parla mai ma che da subito l’idea delle sofferenze patite.

Una puntata è dedicata anche al mal di mare che colpisce equipaggio e migranti ma aumenta più si è in balia delle onde come sulle piccole barche sovraffollate dei migranti. Nel podcast però non inserisce l’aneddotica personale, infatti Luca ci racconta di soffrire tantissimo il mal di mare e di averlo scoperto proprio a bordo della nave su cui è rimasto per settimane, prendendo molti farmaci per restare lucido e in piedi e poter fare il suo lavoro di giornalista.

Sarebbe stato più facile raccontare l’esperienza emotiva e traumatica vissuta personalmente assistendo alle operazioni di soccorso ma questo non è il ruolo del giornalista che perciò ha scelto di non includere quella parte nel podcast cercando di usare il meno possibile la prima persona per non porsi in mezzo alla storia e per avere un approccio il più possibile oggettivo e legato ai fatti.

Ripercorrendo i fatti e gli orari, annotando cosa veniva fornito ai migranti nella borsina che gli viene consegnata dopo che sono stati soccorsi.

Questo approccio fornisce informazioni che rendono le cose concrete e comprensibili.

Sebbene la presenza delle navi ONG che soccorrono le imbarcazioni di fortuna dei migranti sia spesso raccontata dai media in realtà abbiamo un’idea molto vaga del soccorso in mare.

Ad esempio quando la nave di una ONG soccorre una barca con centinaia di persone a bordo secondo voi da chi inizia? Donne incinte, feriti, anziani, disabili, bambini. Questa è la risposta che darebbe chiunque. Chiunque non sappia granché del soccorso in mare.

Infatti queste persone vengono di solito soccorse per ultime perché spesso sono sdraiate sottocoperta e farle spostare comporterebbe il movimento di decine di persone su una barca sovraffollata e in cattive condizioni, rischiando di farla ribaltare.

I soccorritori in mare sanno che vanno soccorse le persone nell’ordine in cui si trovano vicine al parapetto, per fare il più rapidamente possibile e cercare di imbarcare il maggior numero di persone tenendo la barca in sicurezza.

Capita spesso di dover prendere decisioni molto complicate, ad esempio se soccorrere persone già in acqua partendo da chi è più vicino e non da chi ha più bisogno, lo scopo è salvare più persone possibile.

Questa dinamica ci appare cinica perché non conosciamo concretamente come funzionano i soccorsi in mare, il fatto che sappiamo così poco di dinamiche all’ordine del giorno è grave. Anche Luca prima di imbarcarsi, nonostante si occupi di questi temi da anni, avrebbe dato la stessa risposta.

A Lampedusa

Misculin è stato poi a Lampedusa per scrivere di flussi migratori. In un paio di giorni c’è stato un arrivo record 7000 persone a bordo di barchini molto precari partiti da Sfax, in Tunisia a circa 120 km da Lampedusa, che dista un paio d’ore di navigazione dall’isola, se il mare è calmo anche con un barchino precario.

Con il suo lavoro giornalistico ha raccontando l’esperienza delle persone che arrivano via mare ma anche quella delle altre persone dell’isola sia lampedusan* sia i turist*. Ad agosto sull’isola che in inverno ha 5-6 mila abitanti arrivano 30 mila turist*, ma l’estate è anche il momento in cui arrivano più migranti grazie alle condizioni meteo favorevoli (che sono l’unico vero pull factor).

A volte l’ostilità nei confronti del diverso è generato dalla distanza: Lampedusa geologicamente fa parte del continente africano, più vicino alle coste dell’Africa che a quelle della Sicilia, da sempre  è un punto di incontro e di scambi e da vent’anni ha un centro di accoglienza. Questo centro è sempre stato piuttosto integrato nella vita della città di Lampedusa  perché non è mai stato un chiuso e si poteva fare quattro passi in paese, c’erano associazioni locali che aiutavano le persone migranti.

Con la pandemia per ragioni sanitarie il centro è rimasto isolato dalla comunità locale, così dal 2020 ad oggi ospiti dell’hot spot e lampedusan* non si sono più incontrat* e in questo vuoto si è creato lo spazio per diffidenza e notizie false (ad esempio che alcuni tunisini stessero rubando auto, per farsene cosa su un’isola resta da vedere).

Le bolle de* migranti e de* lampedusan* non si incontravano e così anche loro si informavano dal telegiornale anziché aprendo la finestra.

Questa estate il crescente numero di migranti ha determinato un aumento di contatti, contrariamente a quanto ci si sarebbe potuti aspettare questo non ha creato attriti ma un clima di solidarietà e accoglienza: ristoratori che portano piatti a migranti davanti al locale, migranti che partecipano a serate danzanti con lampedusan*.

Solo la distanza e un racconto distorto generano diffidenza, ma poi tutto svanisce quando queste persone in difficoltà ce le si trova davanti.

Ma come informarsi in maniera adeguata?

La risposta di Luca è che gli tocca dire una cosa un po’ paternalista: per informarsi davvero bisogna uscire dai social, evitare quei prodotti che fanno sentire informati come i caroselli instagram, approfondire ascoltando podcast, leggendo articoli, libri, graphic novel, ci sono un sacco di modi per farlo.

La conoscenza dell’inglese da accesso ai giornali migliori del mondo, spesso ad accesso gratuito almeno in parte e questo è un buon punto di partenza per migliorare la propria dieta mediatica perché se leggi bene diventi una persona migliore e trovi il tuo posto nella società. 

Ovviamente tutti hanno idee politiche proprie, anche giornalist*, ma l’onestà intellettuale fa si che si cerchi di rappresentare anche voci che non corrispondono alle proprie idee restituendo un racconto più ricco della realtà includendo la prospettiva altrui, talvolta prendendo le distanze da informazioni false e discriminatorie senza limitarsi a dire cosa ne pensano i diversi partiti ma facendo un fact-checking per fare del buon giornalismo.

Misculin ha iniziato ad interessarsi alle dinamiche migratorie per via della sua storia familiare.

Tre nonni migrati a Milano in cerca di lavoro e il nonno paterno profugo istriano comunista (suggerisce in merito il libro “E allora le foibe?” dello storico Eric Gobetti).

Si è sempre interessato alle vicende delle persone che si spostano, come e perché si muovano e cosa faccia si che si crei una nuova comunità, la sua tesi di laurea in letteratura greca aveva come tema il culto dei fondatori nelle colonie siciliane della Magna Grecia.

Immagine di copertina:
Il personale irlandese della LÉ Eithne salva i migranti come parte dell’operazione Triton di Frontex nel 2015. Fonte Wikicommons


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