Disclaimer: in questo articolo la parola donne è utilizzata in senso sovraesteso e non intende invisibilizzare le identità trans* o qualunque altra identità che con essa possa trovare aderenza o connessione. Qualora la sensibilità di qualcunə si senta ferita, ce ne scusiamo anticipatamente. |
Risale a un mese fa l’articolo di Angela Gennaro sul quotidiano Domani, ripreso da diversi altri outlet d’informazione, in cui si dipinge lo stato della ricerca in fatto di sicurezza delle donne in Italia. Gli ultimi dati raccolti risalgono al 2014 e la nuova indagine Istat avrebbe dovuto prendere avvio quest’anno, ma, complici lungaggini burocratiche e cambio di governo, è stata rimandata al 2023.
Nove anni di silenzio intorno a una problematica diffusa almeno quanto sono le donne su suolo nazionale, quindi ovunque e per circa la metà della popolazione.
Sembra sciocco puntualizzare un’ovvietà simile, ma eccoci qui.
Viene spontaneo chiedersi come si siano mosse quelle istituzioni pubbliche e private che per indirizzo e mission dovrebbero tutelare le donne in difficoltà alla luce di questa mancanza di dati e quindi di indirizzo.
Come si è evoluto il rapporto tra generi, come si intersecano le questioni di classe, razza, provenienza, inclusione sociale, di salute fisica e mentale, ecc. con il fenomeno della violenza sulle donne, e sulla violenza di genere più in generale?
Siamo statɜ testimoni dell’emergenza legata alla violenza domestica durante i periodi peggiori della pandemia, quando vittime e carnefici erano costrettɜ dentro le mura di casa. Le statistiche sui femminicidi restano preoccupanti.
Non mancano sui giornali cronache in cui forze dell’ordine e magistratura non agiscono con tempestività nel proteggere chi sporge denuncia (qui un esempio tra tanti che ha destato scalpore quest’estate). E a questo proposito, le stime sulle denunce effettuate sono sempre drammaticamente basse e anche quando le denunce ci sono, spesso non vengono prese con la dovuta serietà (chi si ricorda, per esempio, del raduno degli Alpini di Rimini?).
Per non parlare poi di violenza economica, mobbing e molestie sul lavoro, violenza ostetrica, diritti all’autodeterminazione negati (ne abbiamo scritto recentemente nell’articolo “Chi è con me” a proposito dell’aborto e del modo in cui se ne parla) e via discorrendo.
È un attimo scoperchiare il vaso di Pandora.
Come tuttɜ sapete, oggi 25 novembre è la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne.
In questa settimana, sono comparsi e compariranno ovunque articoli sul tema. Solo a Genova questa settimana c’è stato almeno un evento pubblico al giorno dedicato a questa ricorrenza. Nel fine settimana a Roma avranno luogo il corteo e l’assemblea nazionale di Non una di meno.
Insomma, modi per contarsi tra donne, guardarsi in faccia, riconoscersi ce ne sono state e ce ne saranno a bizzeffe. Occasioni per condividere la rabbia, la lotta, storie e gesti di sorellanza non sono mancate e non mancheranno.
Però, c’è un però.
Aiutare le donne e le persone in senso più ampio a riconoscere la violenza è fondamentale. Manifestare perché inferocite contro un sistema che non garantisce protezione è sacrosanto. Sapere di non essere sole è l’inizio della guarigione.
Eppure in questo quadro manca qualcosa.
La traduzione dell’efficacia del 25 novembre non può esaurirsi in un gruppo di donne, per quanto vasto, che urla la propria esasperazione o che mette a tema un enorme disagio sociale per farne proposte da attuare a livello politico o personale. Per un motivo molto semplice: finché non ci sarà un’assunzione di responsabilità da parte di chi quella violenza la agisce il processo di liberazione sarà sempre e solo parziale.
Abbiamo bisogno di dare un volto allɜ agenti della violenza. E, statistiche alla mano, nella stragrande maggioranza dei casi si tratta degli agenti della violenza. Un maschile sovraesteso non casuale.
Non abbiamo solo necessità che le vittime, con un processo collettivo, si riconoscano ed escano dalla narrazione della debolezza e della fragilità per rivendicare i loro diritti, con audacia e a pieno volume.
Abbiamo bisogno di sapere che l’aspetto del carnefice è il capo ufficio, il partner, il signore distinto sul treno, il poliziotto, il padre di famiglia. Che può avere sembianze comuni, che è una persona che occupa un posto nella quotidianità di tuttɜ.
Sono entrambe prese di coscienza dolorose e spaventose, ma necessarie.
Non si tratta di fare processi di piazza, o di distruggere la reputazione di qualcuno. In un mondo migliore di questo, sarebbero i tribunali a indicare la strada per la rieducazione di chi si macchia di una colpa come la violenza su altrɜ. Ed è a questa modalità di comportamento che è necessario appellarsi per evitare la fin troppo facile trappola di un’escalation di violenza, che avrebbe come unico fine quello di perpetuare le più becere dinamiche patriarcali.
Tuttavia, dare un volto e dare corpo, chiamare in causa l’attore della violenza è il primo passo per scardinare la mentalità della mela marcia, in tuttɜ, uomini compresi. Anzi, specialmente in chi si identifica come uomo. Non esistono mele marce, non esistono raptus, non esistono follie, non esiste il troppo amore. Esiste un sistema, supportato da ognunə, che condona azioni violente perpetrate ai danni delle donne, perché in fondo chi nasce con un utero vale meno.
Era solo uno scherzo.
Devi capire, è fattə così.
Ma figurati, non farebbe male a una mosca, sei tu che hai travisato.
Che esagerata.
Fattela una risata, ché sei più carina.
Però anche tu, a uscire vestita così.
Ora, fate mente locale.
Quante persone, quante donne conoscete che hanno subito molestie? Quante che si sono viste negare possibilità accademiche e professionali solo per il fatto di essere donne? Quante abusate psicologicamente? Quante stuprate?
Bene, andiamo avanti: quanti molestatori conoscete? Quanti ricattatori e sfruttatori? Quanti manipolatori? Quanti stupratori?
Vogliamo scommettere che l’elenco dei nomi propri che vi sono venuti in mente è di gran lunga diverso?
Immagine di copertina:
Foto di Ali Tareq
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