La storia è stata raccontata da uomini che a lungo si sono concentrati prevalentemente sull’elenco dei fatti piuttosto che sulla complessità, complessità che ha cominciato a emergere grazie alla scuola degli Annales nata in Francia nel 1929 da Marc Bloch e Lucien Febvre, che ha contaminato la disciplina storica con le scienze umane e sociali.
A partire dagli anni Settanta-Ottanta, sulla scia dei movimenti femministi e della scuola storiografica degli Annales si inizia a parlare di storia di genere, una di quelle nuove branche che ha contribuito a mettere in discussione le ricostruzioni dominanti tradizionali individuando paradigmi nuovi.
Insomma creando nuovi punti di vista attraverso cui vedere il passato: in inglese si parla di herstory, un gioco di parole fra her (suo di lei), his (suo di lui) e history (storia).
Il ruolo delle donne nella storia è a lungo rimasto secondario e anche quando così non è stato le fonti lo hanno spesso taciuto.
Un esempio tratto dalla storia dell’arte: per una Artemisia Gentileschi figlia di Orazio le cui opere sono famosissime (e ora in mostra a Palazzo Ducale) ci sono artiste come Mariella Robusti, la Tintoretta, note solo di nome e innumerevoli figlie o mogli di artisti che collaboravano alla bottega di famiglia senza che i posteri si ricordassero di loro.
Un segnale evidente di questa lacuna storiografica emerge nella toponomastica, infatti nei capoluoghi di regione italiani su quasi venticinquemila vie intitolate a persone solo 1626 (il 6.6%) è intitolato a donne, percentuale che scende a poco meno del 4% se si escludono le sante e Madonne.
A Genova secondo il censimento a cura di Toponomastica Femminile su 1731 vie o piazze intitolate a persone solo 160 (il 9,24%) sono intitolate a donne, ma 45 sono riconducibili alla Madonna e 42 a sante o beate, dunque solo una sessantina sono dedicate a personagge storiche.
Ovviamente le donne che hanno avuto un ruolo rilevante pur non godendo del privilegio di essere ricordate sono innumerevoli, ed è di alcune di loro che tratta questo articolo a partire da due Clelia Durazzo, omonime, nonna e nipote, la prima significativa per il rapporto della famiglia con il teatro, la seconda illustre botanica.
Clelietta Durazzo (1709-82)
Clelia Maria Durazzo, detta Clelietta, appassionata di teatro, sorella primogenita del doge Marcello (proprietario di Palazzo Reale e del teatro del Falcone).
Ai Durazzo appartenevano anche i teatri delle Vigne e di sant’Agostino, il più importante teatro cittadino fino all’apertura del Carlo Felice nel secolo successivo, detenevano quindi il monopolio dell’attività teatrale genovese possedendo infatti tutti i teatri pubblici della città.
Clelia era coetanea di Goldoni che fu a Genova nel 1736 e le cui opere teatrali vennero rappresentate proprio al teatro del Falcone.
Si sposò con un lontano cugino, Marcellone Durazzo marchese di Gabiano, proprietario del palazzo oggi noto come Durazzo Pallavicini in via Balbi 1. La coppia ebbe una numerosa prole, il primogenito fu Giacomo Filippo III, padre della botanica Clelia Durazzo Grimaldi, l’ultimogenito Ippolito Maurizio che si dedicò alla botanica e alla mineralogia, fra le figlie femmine Barbaretta che sposò Giacomo Brignole.
I contemporanei descrivono Clelietta come una donna volitiva, intelligente, brillante e spiritosa, guida morale della famiglia Durazzo, protettrice delle arti e in particolare del teatro, vicina ai circoli degli Arcadi.
Quello della recitazione non era un passatempo insolito per la nobiltà del periodo e Clelia animò spettacoli teatrali privati nel palazzo di via Balbi, nella villa Durazzo Bombrini di Cornigliano e nel suo giardino (suggestivo che quello stesso giardino sia oggi nuovamente luogo di spettacoli teatrali), mettendo per la prima volta in scena Genova in città testi di Racine e Voltaire dei quali lei fu organizzatrice, regista e perfino attrice insieme ai fratelli e ai figli.
Ad esempio nel 1749 misero in scena nel palazzo di città Ifigenia in Tauride di Racine in cui Clelietta aveva la parte di Clitennestra e gli altri attori erano esponenti delle famiglie Grimaldi, Durazzo, Balbi; Achille venne interpretato da Agostino Lomellino politico, diplomatico e futuro doge ma anche letterato, scienziato, poeta e musicologo che ebbe con Clelietta un’amicizia strettissima, tale da ricadere nel ruolo tipicamente settecentesco del cicisbeo.
Il giardino di Villa Lomellini Rostan, di proprietà di Agostino Lomellini, era centro di un circolo arcadico-illuminista aperto anche alle donne, la Colonia Ligustica nota come Accademia degli Industriosi.
Fin dal 1500 esiste il verbo cicisbeare ma la figura del cicisbeo si diffuse soprattutto nel Settecento su influenza francese, in Italia in particolare nella città di Genova.
Sembrerebbe essere un termine di origine onomatopeica “ci ci” in riferimento al chiacchiericcio. Le nobildonne erano solite incontrarsi nei salotti, i cicisbei le accompagnavano mentre i mariti erano impegnati a occuparsi di politica a Palazzo Ducale ma anche il ruolo sociale delle donne era fondamentale, erano loro a muovevano i fili delle relazioni familiari.
Anche la figura del cicisbeo è un’istituzione, citata anche nei contratti matrimoniali, lo scopo era quello di dare un’occupazione ai giovani nobili sfaccendati ed educarli.
I cicisbei erano uomini colti e raffinati, la relazione con la cicisbea poteva essere materno, di strettissima amicizia o più o meno platonicamente amoroso.
Grazie agli studi di Andrea Lanzola è stato possibile rinvenire le lettere di Clelia ad Agostino messe in vendita su eBay da una casa d’aste milanese, l’Archivio di Stato ha così acquistato due faldoni di carteggi privati, politici e diplomatici ricevuti da Agostino mentre si trovava a Parigi.
Le lettere sono quelle che egli ricevette nei tre anni in cui era a Parigi, l’Archivio possiede principalmente documenti pubblici, perciò documenti privati come questi hanno un interesse ancora maggiore.
Alcune missive sono esposte alla mostra “Rapporti di famiglia” in corso all’Archivio di Stato di Genova fino al 9 dicembre 2023.
Di Clelia Durazzo non ci è pervenuto alcun ritratto, ma solo le sue parole, una finestra sul suo rapporto con Agostino Lomellini.
Negli anni 1739-1742, durante i quali lui si trovava a Parigi con incarichi diplomatici, lei lo aggiorna sui fatti frivoli e importanti genovesi, scrivendogli dal palazzo di via Balbi, dalla villa di Cornigliano e da altre località di villeggiatura come Piovera.
Clelia in una lettera da Piovera si lamenta del fatto che non ha voglia di recarsi ai salotti di conversazione ma che non vuole fare la figura dell’altezzosa e perciò si vede costretta a prendervi parte, sceglie dunque il salotto meno frequentato perché sa che l’incontro dura meno, sebbene si mangi male e le sia capitato di incontrarci suo marito.
Da Parigi Agostino le parla di Voltaire, Madame du Châtelet e altri illustri intellettuali francesi con cui è in rapporto. A Lomellini D’Alembert dedicò un volume e lo elogiò in diversi scritti ed egli tradusse in italiano il Discorso preliminaire alla base dell’Encyclopedie.
Nel corteggio Clelia gli riferisce di essere stata definita Madame du Châtelet de Gênes, sottolinea che sia un’esagerazione ma al contempo si compiace d’essere paragonata a una simile intellettuale.
Clelietta ebbe un ruolo importante nel trasmettere la passione per il teatro al fratello Giacomo, di otto anni più giovane, che a Vienna divenne direttore del teatro di corte in cui Gluck fece la sua riforma del melodramma caratterizzata dall’eliminazione degli orpelli barocchi mettendo la musica a servizio del testo.
Fu sempre lei ad avvicinare al teatro anche il figlio secondogenito Gio’ Luca che presiedette l’impresa dei teatri di Genova, un investimento economico in ambito teatrale della famiglia Durazzo.
Clelia Durazzo (1760-1837)
Giacomo Filippo (1729-1812), figlio di Clelietta e Marcellone e padre di Clelia, collezionava libri rari e si dice fosse diventato quasi completamente cieco per via delle notti passate a leggere a lume di candela; vicino per età allo zio materno Giacomo con lui si confrontava in merito ai rispettivi interessi culturali.
Giacomo Filippo fu tra i promotori dell’Accademia Ligustica di belle arti e possedette un museo di storia naturale privato, un direttore del Museo di Storia Naturale lo definì “il primo vero naturalista e museografo di cui si trovi traccia a Genova”: collezionava campioni naturalistici e li classificava secondo la tassonomia di Linneo, formulata da pochi decenni (articolo di wall:out
La Wunderkammer di Villa Durazzo Bombrini a Cornigliano).
Per rendere l’importanza e il valore scientifico della collezione basti sapere che venivano a consultarla anche studiosi provenienti da altri luoghi come Lazzaro Spallanzani (biologo da cui prende il nome l’istituto italiano malattie infettive, divenuto arcinoto durante la pandemia covid).
L’interesse naturalistico di Giacomo Filippo spaziava in diversi ambiti e includeva la botanica con particolare attenzione alle piante coltivate presso la villa di Cornigliano.
Il suo interesse contagiò anche altri parenti fra cui il fratello Ippolito Maria Maurizio (1752-1818), molto più giovane di lui e di soli 8 anni più grande di Clelia, che si dedicò invece principalmente alla botanica e alla mineralogia.
Dopo un viaggio di istruzione per varie città italiane Ippolito si fece istruire da Canefri che insegnava chimica all’università di Genova e con lui intraprese un viaggio in Germania, Austria, Ungheria, Polonia e Prussia durante il quale compì studi di mineralogia.
Sono quegli gli anni dell’Illuminismo, quando nacque il giardino botanico che coniuga gli studi scientifici alle bellezze naturali. Diversi nobili genovesi si dedicarono a questo nuovo interesse e trasformano i giardini delle loro ville in laboratori per gli studi botanici.
Il primo giardino botanico di Ippolito sorse nella zona dei bastioni di santa Caterina, nel 1800 cedette il terreno alla Repubblica come pagamento di tributi arretrati e spostò le piante nella villa sulle alture di Voltri e nel palazzo di via Balbi. In seguito realizzò un nuovo orto botanico nella villa dello Zerbino.
L’interesse di Clelia per la botanica le fu dunque trasmessa dal padre primo naturalista genovese e dallo zio primo botanico, per le sue conoscenze in materia ella ricevette unanime riconoscimento dalla comunità scientifica internazionale, cosa non comune vista la condizione femminile del tempo.
Clelia sposò Giuseppe Grimaldi, poi doge, la coppia non ebbe figli e il marito assecondò i suoi interessi scientifici, è infatti nella villa di famiglia a Pegli che nel 1794 impiantò il suo orto botanico, approfittando anche delle caratteristiche climatiche del luogo che ne fecero località turistica nel secolo seguente.
Ciò, unito al fatto che il terreno era riparato dai venti dalla retrostante collina, permise di coltivare anche piante esotiche.
A Genova erano già presenti diversi orti botanici: quello a Villetta di Negro, quello universitario, quello dello zio Ippolito nella villa Durazzo oggi Groppallo dello Zerbino ma quello di Clelia li superò tutti per specie esotiche e rare anche perché la studiosa lo fece dotare di serre riscaldate a carbone all’avanguardia per l’epoca.
Le collezioni della marchesa Clelia Durazzo erano costituite da ben 1664 taxa mentre il catalogo delle specie conservate nell’Orto Botanico l’Università nel 1819 si fermava a sole 1011 taxa.
È evidente come per Clelia quello non fosse l’hobby del giardinaggio ma una scienza all’avanguardia: si occupava tanto di studiare su testi specialistici quanto di coltivare e di raccogliere campioni che scambiava con botanici di tutta Europa con i quali era in contatto epistolare.
Le piante erano seminate in vasi di terracotta con targhette anch’esse in terracotta su cui era dipinto a mano il nome scientifico della specie. Il suo erbario è conservato al Museo di Storia Naturale di Genova e supera i 5000 taxa catalogati sotto forma di piante essiccate.
Quando nel 1797 venne deposto il governo aristocratico lei e il marito ripararono a Parma, dove Clelia studiò con il professore di botanica Diego Baldassarre Pascal. Compirono poi diversi viaggi in Germania, Austria e Boemia dove ebbe occasione di visitare giardini e orti botanici, raccogliere piante e libri e intessere contatti. Continui furono i suoi scambi epistolari e di sementi con insigni botanici di mezza Europa, alcune lettere sono conservate nell’archivio storico del comune.
Se non fosse stato per il fatto di essere donna avrebbe potuto reggere la cattedra di botanica dell’Università di Genova che nel 1803 fu affidata ad un suo collaboratore, Domenico Viviani.
In compenso Schrank, botanico tedesco, cambiò nome ad una leguminosa (Chamaecrista nictitans) in Grimaldia.
Alla morte del marito nel 1820 Clelia si ritirò ancor più nel suo giardino; morì a Pegli nel 1837 a 77 anni. Aveva nominato eredi le quattro nipoti femmine figlie di Gio’ Battista Grimaldi ma modificò il testamento a seguito della morte di tre di loro. Sue eredi sono quindi le nipoti Maria Maddalena Grimaldi Pallavicino e Angiolina Grimaldi Lanzi.
Così il parco pervenne nel 1850 a Ignazio Alessandro Pallavicini, il cui nonno materno era fratello di Clelia. Fu lui a commissionare la bellissima statua che raffigura la prozia, opera di Giovanni Battista Crevasco, conservata in una collezione privata.
Le donne della famiglia di Ignazio Alessandro Pallavicini
Ignazio Alessandro Pallavicini sposò Eugenia Raggi, nobile di origini toscane. Eugenia era parte di un circolo di nobildonne “rivoluzionarie”, mazziniane, di cui facevano parte anche Anna (Nina) Giustiniani Schiaffino, Fanny Di Negro Balbi Piovera, Teresa Spinola Durazzo; attive a favore di circoli patriottici, repubblicani e mazziniani, si dedicarono anche raccogliere fondi per la Giovine Italia.
Alla morte del re Carlo Felice di Savoia questo gruppo di nobili rifiutò sprezzantemente di vestire il lutto e si presentò a teatro con abiti dai colori sgargianti.
Figlia di Ignazio Alessandro Pallavicini e di Eugenia Raggi fu Teresa Pallavicini Durazzo (1829-1914), sposò Marcello Durazzo che fu sindaco di Pegli. A lei si deve la donazione dei terreni su cui realizzare il palazzo municipale di Pegli, allora comune autonomo, oggi una delle sedi del municipio Ponente.
Le è intitolata una via in val Polcevera.
La sua dama di compagnia, Matilde Giustiniani, divenne la seconda moglie del figlio Giacomo Filippo Durazzo Pallavicini, erede di queste due grandi famiglie ma di oltre vent’anni più grande di lei.
Rimasta vedova nel 1922 Matilde Giustiniani si risposò nel 1923 con Pierino Negrotto Cambiaso, sindaco di Arenzano ed erede per parte di madre della famiglia Sauli. Rimasta vedova per la seconda volta dopo appena due anni nel 1925, senza figli ed erede delle ricchezze delle prestigiose famiglie dei mariti, donò villa Durazzo Pallavicini al comune di Genova nel 1928.
Continuò ad utilizzare Villa Negrotto Cambiaso ad Arenzano, nel 1931 vi fece aggiungere la serra progettata da Lamberto Cusani riprendendo serre ottocentesche in ferro e vetro decorata a tralci e cornucopie.
Gli arenzanesi più anziani ancora ricordano che quando arrivava la marchesa lo si capiva dall’accensione della fontana, il cui spruzzo superava la dozzina di metri. Matilde Giustiniani morì nel 1970 e il palazzo fu acquisito dall’amministrazione comunale nel 1980.
Matilde Giustiniani adottò la nipote Carlotta nata nel 1923, figlia del Barone Carlo Fasciotti (1870-1958) e di Cecilia (figlia del Principe Alessandro e della Principessa Maria Giustiniani).
Quando la regina Elisabetta II venne in visita a Genova nel 1980 volle visitare proprio il Palazzo di Carlotta Fasciotti Giustiniani Cattaneo in via Balbi 1.
Immagine di copertina:
wandaproject con illustrazione di Martina Spanu
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