“There is no excuse and never an invitation to rape”. Non ci sono scuse e mai un invito allo stupro. Questa la frase di apertura del sito ufficiale di Denim Day che si occupa di diffondere la consapevolezza sulla violenza sessuale, sostenere i sopravvissuti ed educare noi stessɜ e lɜ altrɜ.
L’associazione Break The Silence Italia rompe il silenzio sul tema e, dopo aver pubblicato un libro che da voce alle storie dellɜ sopravvissutɜ a violenza e molestie sessuale (prevalentemente donne ma non solo), porta la questione all’attenzione del pubblico portando in Italia il Denim Day, aderendo alla protesta a livello Internazionale.
Che cos’è Break The Silence?
Break The Silence Italia nasce a giugno 2020 in seguito a una molestia verbale a sfondo sessuale subita da Mariachiara Cataldo, ora Presidente dell’associazione, che, raccontando sui social quanto subito, lancia una call to action in cui chiede di rompere il silenzio su tutte le violenze che le donne subiscono ogni giorno.
In pochi giorni arrivano più di 400 testimonianze tra cui quelle di due amiche, Francesca Sapey e Giulia Chinigò, che insieme a Mariachiara diventeranno le prime founders del progetto.
Ad aprile 2022 diventa un’Associazione di Promozione Sociale a cui aderiscono altrɜ attivistɜ. Attualmente il team è composto da 40 persone in tutta Italia professioniste in vari ambiti, diverse per genere, orientamento sessuale, abilità fisiche e cognitive, provenienza, età (prevalentemente tra i 20-30 anni) e classe sociale.
L’associazione ha l’obiettivo di combattere per i diritti civili e contro la violenza di genere, facendo informazione, sensibilizzazione e formazione su temi quali il consenso, la violenza di genere, gli stereotipi di genere, l’identità sessuale e il victim blaming in ogni luogo: scuole, eventi, festival, convegni, piazze, comuni, online, sui social media, e persino in alcune aziende.
Tramite la pagina Instagram Denim Day Italia e canali appositi, infine, si occupa anche di dare supporto alle vittime di violenza che scrivono quotidianamente, anche grazie alla rete di avvocatɜ e psicologhɜ che nel tempo si è costruita. L’associazione riceve in media 3-4 testimonianze e richieste di aiuto a settimana.
Cos’è il “Denim Day”?
Nel 1998 in Italia la Corte di Cassazione scagionò un uomo (già condannato dai precedenti gradi di giudizio) perché colei che lo accusava indossava un paio di jeans che, secondo i giudici, erano troppo stretti per essere sfilati da altri. All’epoca alcune Parlamentari protestarono con cartelli “Jeans: un alibi per lo stupro”. Il nome Denim Day deriva proprio dai jeans attorno ai quali ruotò questo caso, episodio che suscitò polemiche e di cui parlò perfino il New York Times.
La giornata venne istituita nel 1999 dall’organizzazione non profit Peace Over Violence con sede a Los Angeles come segno di protesta e come campagna che si svolge un mercoledì di aprile in onore del mese della sensibilizzazione sulle aggressioni sessuali.
Da allora, quella che era iniziata come una campagna locale per sensibilizzare sulla colpa delle vittime e sui miti distruttivi che circondano la violenza sessuale è diventata un movimento. Come la più lunga campagna di prevenzione ed educazione alla violenza sessuale della storia, il Denim Day chiede a tuttɜ di fare una dichiarazione sociale indossando jeans in questo giorno, il 26 aprile, come mezzo visibile di protesta contro le idee errate che circondano la violenza sessuale.
Se sei una donna sono sicura che qualcunɜ prima o poi ti avrà detto di non vestirti in un certo modo, magari in buona fede, per proteggerti, o magari per giudicarti.
Questi commenti si inseriscono in quella che viene definita “vittimizzazione secondaria” o “victim blaming” e si verifica quando una persona sopravvissuta subisce una seconda, subdola, forma di violenza sistemica che consiste nel sottoporla a danni correlati al procedimento giudiziario, in particolare sminuendola e colpevolizzandola, ad esempio per abbigliamenti o comportamenti che secondo questa visione distorta avrebbero incoraggiato l’aggressore. In parole povere “se l’è andata a cercare”.
Rape culture
La vittimizzazione secondaria è frutto della “cultura dello stupro” (rape culture): una cultura in cui lo stupro e altre forme di violenza sessuale sono comuni, e in cui gli atteggiamenti prevalenti, le norme, le pratiche e le narrazioni dei media normalizzano, minimizzano o incoraggiano lo stupro o qualsiasi altra violenza in particolare sulle donne.
Il fenomeno dello stupro non è riconducibile solo all’atto sessuale fatto con violenza in sé, ma al sistema di dominio psicologico che viene fatto sulle donne anche attraverso piccoli gesti di abuso. Il nucleo della cultura dello stupro è spesso espresso con lo slogan: “Rape is about power, not sex”.
Nel 2018 in Irlanda un uomo accusato di stupro era stato assolto perché colei che lo accusava indossava un tanga e dunque secondo l’accusa non poteva che essere consenziente.
In casi simili, almeno in Italia, a partire dal 2008 si è arrivati a condanna anche qualora fosse stata la donna, per paura, a sfilarsi essa stessa gli indumenti.
Secondo dati istat del 2018 un quarto (!) dellɜ italianɜ pensa che le donne possano provocare una violenza sessuale con il loro modo di vestire, il 15% che una donna che subisce violenza quando è ubriaca o sotto l’uso di droghe sia almeno in parte responsabile, viceversa per il codice penale ciò costituisce una aggravante, non un’attenuante.
Il 49% degli italiani crede che una donna sia in grado di sottrarsi ad un rapporto sessuale se davvero non lo desidera. Il 10% ritiene che spesso le accuse di violenza siano false quando in realtà i dati mostrano come siano molto più numerose le violenze sessuali che non vengono denunciate.
Com’eri vestita?
Di forte impatto la mostra “Com’eri vestita?” che espone in maniera diretta e inequivocabile l’abbigliamento dellɜ sopravvissutɜ ad uno stupro: pantaloncini e maglietta da calcio, vestiti più o meno lunghi, gonne più o meno attillate, jeans sexy o informi, divise, pigiami, davvero qualsiasi tipologia di abbigliamento.
E se perfino le suore vengono stuprate come si può ancora sostenere che dipenda da quello che indossiamo? Come si può pensare che “Com’eri vestita?” sia la domanda opportuna da porre ad una persona sopravvissuta? Se per far cessare le violenze sessuali bastasse cambiarsi abito non pensate che lo avremmo già fatto?
Del rapporto estremamente problematico che la nostra società patriarcale ha con i corpi delle donne si sono occupate anche le istituzioni, a riprova del fatto che tutto questo è un problema reale.
Lo Stato italiano con la Commissione Parlamentare di inchiesta sul femminicidio, nonché su ogni forma di violenza di genere, la quale si è occupata anche di redigere una Relazione sulla vittimizzazione secondaria delle donne che subiscono violenza e dei loro figli nei procedimenti che disciplinano l’affidamento e la responsabilità genitoriale.
L’Unione Europea attraverso il programma Diritti, Uguaglianza e Cittadinanza ha cofinanziato il progetto Never Again contro la vittimizzazione secondaria.
Nel 2021 la Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu) per la prima volta ha ritenuto una violazione dei diritti umani il fatto che la sentenza in un processo per stupro (della Corte d’Appello di Firenze) tirasse in causa aspetti della vita personale della donna: la Cedu ha considerato che ciò fosse una vittimizzazione secondaria e viziasse le decisioni giudiziarie.
Sono un bravo ragazzo
Alla luce di tutto questo possiamo dire che la nostra evolutissima civiltà non sia esente dalla cultura dello stupro. Gli stupratori non sono solo “mele marce” ma frutto di un sistema ideologico-culturale che non condanna la violenza, ma anzi la impiega, la giustifica, la romanticizza.
Nell’immaginario della cultura dello stupro la colpa è delle donne: donne che violano gli stereotipi di genere vestendosi in un determinato modo, uscendo la sera, relazionandosi, bevendo. Lo stupratore (o il femminicida) non è colpevole, anzi non è neppure stupratore, al massimo è cacciatore oppure non controlla i suoi istinti.
Il film “Una donna promettente”, scritto e diretto da Emerald Fennell e prodotto da Margot Robbie, racconta di Cassandra “Cassie” Thomas che vuole vendicare la sua amica Nina, suicidatasi perché nessuno credeva fosse stata stuprata da ubriaca (ecco la vittimizzazione secondaria). Così Cassie adesca uomini nei locali, si finge troppo ubriaca per dare il consenso sessuale ma loro non si fermano, salvo poi restare basiti quando lei di colpo smette di fingere, si rivela sobria e sottolinea che stessero per abusare di una donna ubriaca.
Loro, i “bravi ragazzi”, rimangono basiti e tentano di giustificarsi ed autoassolversi. Questo è solo l’incipit del film ma niente spoiler: guardatelo!
La filosofa del linguaggio Claudia Bianchi nella conferenza tenuta a Genova in occasione del Festival della scienza (disponibile a pagamento) ha portato all’attenzione del pubblico ricerche dalle quali emerge la centralità del linguaggio nel parlare di uno stupro perpetrato o subito. La percentuale di uomini che ammette di aver attuato comportamenti sessuali coercitivi è più che raddoppiata quando non vengono definiti “stupro” o “violenza” ma con perifrasi.
Allo stesso modo anche le donne che hanno subito l’atto lo ammettono molto di più se non si parla di “stupro” ma piuttosto di come “sono stata costretta ad avere un rapporto sessuale da qualcuno che mi teneva ferma”.
Forse abbiamo fatto molta strada da quando nel 1979 in “Processo per stupro” la madre di uno dei colpevoli diceva:
“certo che le piaceva pure a lei andare a divertirsi”, “era più di un anno che andava in giro con tutti, era più di un anno che faceva finta che andava a lavorà”.
E l’avvocato:
“Che cosa avete voluto? La parità dei diritti. Avete cominciato a scimmiottare l’uomo. Voi portavate la veste, perché avete voluto mettere i pantaloni? Avete cominciato con il dire «Abbiamo parità di diritto, perché io alle 9 di sera debbo stare a casa, mentre mio marito il mio fidanzato mio cugino mio fratello mio nonno mio bisnonno vanno in giro?» Vi siete messe voi in questa situazione. E allora ognuno purtroppo raccoglie i frutti che ha seminato. Se questa ragazza si fosse stata a casa, se l’avessero tenuta presso il caminetto, non si sarebbe verificato niente.”
È passato quasi mezzo secolo. Possiamo dire che le cose siano realmente cambiate?
In parte senz’altro, anche grazie alle battaglie di femministɜ come quellɜ che hanno girato il documentario, mosso accuse e assunto la difesa in tribunale. La strada da percorrere è ancora molta, e lo faremo anche grazie al Denim Day e a Break The Silence Italia:
“Dato che in Italia questa giornata internazionale non è troppo conosciuta, nonostante nasca dalla sentenza italiana del 1998, e la vittimizzazione secondaria è però un fenomeno che le vittime che ci scrivono ancora subiscono, come Break The Silence Italia ci teniamo particolarmente ad attirare l’attenzione su questo evento per aumentare la consapevolezza su queste tematiche che l’associazione tratta da tre anni ad oggi. Crediamo infatti che comunicare attraverso diversi canali, dall’attivismo digitale a quello in piazza, sia il modo migliore per arrivare a un pubblico ampio, di varia età e livello di sensibilità, e soprattutto per ricordare sempre alle vittime che non è colpa loro e non sono sole.”
cit. BREAK THE SILENCE ITALIA
Il 29 Aprile l’associazione, in collaborazione con il CAV – Per non Subire Violenza, una realtà che supporta le persone vittime di violenza da 40 anni, sarà in Piazza Sarzano, dalle ore 16 alle h 18, per stendere i jeans per terra come simbolo del victim blaming ed invita la cittadinanza a portare i propri per partecipare la flashmob.
I jeans poi verranno raccolti per essere donati alla Comunità di Sant’Egidio.
Un proverbio latino diceva: “Gutta cavat lapidem”, la goccia scava la pietra, così speriamo che le nostre battaglie possano progressivamente cambiare la società.
Si ringrazia Break The Silence Italia e in particolare Nadia Punturieri e Dorotea Sconzo per la collaborazione.
Immagine di copertina:
Logo Break The Silcence. Fonte pagina Facebook Breakthesilenceita
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