Sono passati dieci anni esatti dalla pubblicazione di “A meglia parola – Liguria terra di ‘ndrangheta”. Il libro, che pubblicammo insieme a Matteo Indice, raccontava per la prima volta, in modo organico, la presenza della ‘ndrangheta in Liguria.
La nostra inchiesta giornalistica cavalcava una stagione importante per l’antimafia: dall’operazione Crimine, partita da Reggio Calabria, nacquero i processi Maglio 3 (la mafia a Genova), La Svolta (estremo Ponente) e I conti di Lavagna (riviera di Levante).
Un’epifania
Nel giro di pochi anni la Liguria si trovò a passare dallo status di “isola felice”, dove Prefetti, sindaci, e istituzioni varie negavano serenamente l’esistenza del fenomeno (articolo di wall:out La mafia a Genova non esiste!), a luogo strategico della geopolitica criminale già dagli anni Sessanta.
Il capo supremo, Mimmo Gangemi, si nascondeva sotto le sembianze dimesse di un verduraio di Marassi, che nel suo negozio riceveva latitanti e candidati alle elezioni regionali. Il predecessore, Antonio Rampino, aveva governato quarant’anni nell’anonimato: il suo unico problema con la legge, dopo alcune condanne per reati importanti in gioventù, era stata una guida in stato d’ebbrezza.
Ventimiglia, feudo delle famiglie Marcianò-Palamara, si scopriva essere una “camera di compensazione”, una sorta di ambasciata della ‘ndrangheta che teneva i rapporti con i clan radicati in Francia e alla fine degli anni Settanta aveva contribuito alla fuga all’estero del terrorista nero Franco Freda.
In pochi mesi la Liguria si ritrovò due amministrazioni sciolte per mafia, Bordighera e Ventimiglia (il secondo e il terzo caso al Nord nella storia italiana, poi annullati dal Consiglio di Stato). La Provincia di Imperia ad avere, secondo una ricerca del ministero dell’Interno, il tasso di mafiosità più alto del Norditalia [ndr: Imperia è al sedicesimo posto, prima provincia del Nord, seguita da Genova, sopra Salerno, Brindisi ed Enna]. A Sanremo e a Bordighera andavano a fuoco un numero di locali impressionante, il reato di incendio doloso aveva un’incidenza pari a province della Calabria.
Dai successivi processi (articolo di wall:out Ricognitivo processi di mafia in Liguria) è emersa l’esistenza di “locali”, strutture autonome della ‘ndrangheta, che per esistere devono raccogliere almeno 2-3 famiglie e 50-60 uomini operativi sul territorio: a Genova, a Ventimiglia, a Sarzana e a Chiavari. Che ne esistesse quasi certamente una anche a Savona, si è capito più avanti, dalle inchieste partite ancora una volta dalla Calabria sulla famiglia Raso-Gullace-Albanese. Alcuni pentiti sono andati oltre, parlando di gruppi presenti in altre località, ma riscontri non ne sono mai arrivati.
Le inchieste, che lambirono la politica di ogni schieramento (articolo di wall:out In cambio di cosa? L’intreccio politico-mafioso in Liguria (e non solo)), mostrarono che l’influenza della ‘ndrangheta aveva pesato su tutte le elezioni regionali degli ultimi anni. Ce n’erano tracce all’inizio del Duemila e, addirittura, tra le more dell’inchiesta sul sistema Teardo.
Il periodo storico a cavallo tra il 2010 e il 2013, visto oggi, può essere letto come una grande avanzata dello Stato e della società civile, un periodo di fermento per la lotta antimafia. Non si può dire la stessa cosa dei dieci anni seguenti. Un bilancio franco non può che partire da una constatazione: non sappiamo molto più di allora.
La presenza mafiosa è tornata a essere nebulosa, le inchieste sporadiche e puntiformi.
Non sappiamo esattamente chi abbia preso le redini dei clan, dopo gli arresti e le morti dei vecchi capi, né quali patti politici abbiano stretto. Non riusciamo a tracciare collegamenti significativi tra le infiltrazioni in alcuni grandi appalti – il Terzo Valico, i lavori autostradali, la ricostruzione del Ponte Morandi, lo smaltimento delle barche distrutte dalla mareggiata di Rapallo (solo per citarne alcuni) – che in questo modo rimangono avvisaglie.
In varie occasioni la Direzione distrettuale antimafia ha fermato grandi carichi di droga e portato alla luce un radicamento e un’infiltrazione delle mafie tra i camalli.
Ci sono stati arresti e sequestri, ma sappiamo relativamente poco di un fenomeno che è sicuramente più strutturato di come appare. Lo suggeriscono alcuni elementi, come l’esistenza di una propria ditta di spedizione genovese, fondata direttamente dalla famiglia Molè di Gioia Tauro, o la scoperta di una ventina di pass, revocati dalla Prefettura, che consentivano a personaggi vicini ai clan di entrare e uscire a ogni ora dalle banchine del porto di Genova.
Raccontare le mafie, oggi, è diventato molto più complicato. E non è solo colpa delle mafie e della loro abilità di mimetizzazione.
I governi degli ultimi dieci anni, nessuno escluso, hanno relegato la lotta antimafia in fondo alle loro priorità. Nel suo discorso di insediamento la presidente del consiglio Giorgia Meloni ha finalmente ricordato l’importanza della lotta alla criminalità organizzata.
Quelle parole sono state però smentite immediatamente dai primi fatti: tutto ciò che è seguito sembra andare in direzione contraria. Il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha annunciato riforme che, come ha commentato su Il Fatto Quotidiano il procuratore aggiunto di Genova Francesco Pinto, “sembrano rispolverare il vecchio armamentario della P2”.
Mentre le organizzazioni criminali parlano ormai con sistemi di comunicazione criptata, Nordio vorrebbe limitare le intercettazioni, “perché i mafiosi non parlano più al telefono” (affermazione smentita ogni giorno dalla realtà giudiziaria).
Nei disegni del ministro c’è la separazione delle carriere dei magistrati inquirenti e giudicanti (già prevista da Gelli nel suo Piano di rinascita democratica), misura che indebolirebbe in modo importante l’autonomia della magistratura. Sono messi in discussione, sotto la bandiera presentabile del garantismo, alcuni degli strumenti fondamentali nella lotta alla mafia, come il 41 bis.
Nel dibattito sull’ergastolo ostativo si parla di estendere i benefici premiali indistintamente a chi collabora con la giustizia e a chi non lo fa.
C’è chi, in modo nemmeno troppo nascosto, sembra pronto a sfruttare l’arresto di Matteo Messina Denaro, catturato (o consegnato) con un tumore in stadio avanzato, per decretare la fine dell’ “emergenza mafiosa” (e, soprattutto, delle leggi antimafia).
Il condono per reati fiscali
Aleggia in Parlamento la proposta di un condono per reati fiscali (che segue l’innalzamento del tetto al contante): per capire come c’entrino queste proposte con ciò di cui stiamo parlando, basta dire che i reati fiscali e tributari sono i veri “reati spia” delle attività mafiose. Sembra scontato doverlo sottolineare, ma l’indebolimento del tracciamento favorisce l’economia illegale. Fra le pieghe dell’evasione fiscale prosperano corruzione e riciclaggio.
L’emissione di fatture false (uno dei reati che il governo vorrebbe condonare) è una delle piste più importanti da seguire per scoprire il moderno Follow the money.
Dove lo hanno fatto, a Reggio Emilia, nel 2022 sono venute fuori 106 interdittive antimafia in un solo anno, il record in Italia, in un’operosa e virtuosa provincia del Nord. Un numero sbalorditivo, se si considera che è un ordine di grandezza doppio rispetto alle città che seguono nella classifica: Salerno (una settantina), Catanzaro e Reggio Calabria (una sessantina).
Questa fetta di Emilia è il feudo dei clan cutresi capeggiati dai Grande-Aracri.
Ma questo non spiega tutto. A chi si stupisce del risultato, il prefetto Iolanda Rolli spiega che Reggio (Emilia, non di Calabria) non è poi molto diversa da molte altre realtà del Nord. Liguria inclusa.
In altre parole, la differenza la fanno “le lenti con cui si guarda il fenomeno”. I controlli, la voglia di farli e la loro organizzazione sistematica.
Eliminare per velocizzare? Nel dubbio, meglio non fare
Sarebbe ingiusto, è non è intenzione di scrive, addossare al nuovo governo la responsabilità di questo ciclo temporale, che potremmo definire senza timore di smentita come regressivo. La riforma Cartabia aveva già introdotto cambiamenti che rischiano di avere conseguenze pesantissime sul funzionamento della giustizia italiana.
Uno su tutti: la riforma della cosiddetta improcedibilità, una tagliola che rischia di vanificare migliaia di procedimenti se non si dovessero concludere entro determinati termini temporali in appello o in Cassazione. Un unicum al mondo.
Sarebbero necessarie più risorse per far marciare i tribunali e, invece, per dare all’Europa l’impressione di velocizzare i tempi giudiziari sembra che il legislatore italiano punti a eliminare i processi.
Tra le varie innovazioni introdotte, i pubblici ministeri vengono invitati a valutare la probabilità che un’inchiesta porti in seguito a una condanna definitiva. Quest’ultimo provvedimento, si dirà, non cambierà molto, forse i magistrati lo facevano anche prima. Ciò che è interessante, tuttavia, è il segnale che viene dato: nel dubbio, meglio non fare.
C’è poi un’ulteriore capitolo che riguarda i giornalisti.
Con l’introduzione della norma sulla cosiddetta “presunzione di innocenza” (un vero e proprio bavaglio all’informazione, a voler essere intellettualmente onesti), il lavoro del cronista giudiziario è diventato molto più difficile.
Sono stati introdotti divieti di comunicazione, minacce di ritorsioni nei confronti dei magistrati che forniscono informazioni ai giornalisti (solo a loro).
Delle inchieste in corso, sembra di capire, possono parlare legittimamente solo i difensori degli imputati. Se riguardano politici, meglio non parlarne affatto.
Anche qui va detto che tutto questo non è solo farina del sacco del governo che ha messo la firma su questo provvedimento. Da tempo, i governi sembrano essere molto sensibili alla campana della presunzione di innocenza, un diritto costituzionale e sacrosanto, e molto meno al diritto di cronaca, all’informazione e alla libertà di stampa, altrettanto costituzionale e sacrosanto.
A volerlo vedere, questo movimento di opinione viene da lontano. E si potrebbe citare, ad esempio, la norma che porta il nome dell’ex ministro Andrea Orlando, che limitava in modo sostanziale l’accesso alle intercettazioni di un processo.
L’obiettivo era quello di salvaguardare la privacy di persone non coinvolte in fatti penalmente rilevanti. Ma non è detto che ciò che è penalmente rilevante coincida con ciò che è di interesse pubblico.
Questo secondo aspetto è un campo di valutazione che spetterebbe, nei limiti delle leggi, ai giornalisti, e che invece è stato sottratto all’informazione, e dunque anche all’opinione pubblica italiana.
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