Quello fra mafia e politica è un rapporto da sempre biunivoco e altamente pericoloso. Da un lato, le mafie hanno bisogno del supporto della politica per ottenere norme, provvedimenti e comportamenti che consentano loro di portare avanti indisturbati i loro affari illeciti. Dall’altro lato, la politica – sempre meno in grado di convincere – ha un forte bisogno di consenso e di voti: e chi meglio è in grado di procurarglieli se non un’associazione che, proprio grazie all’assenza della politica, controlla il territorio e gli elettori?
Da questo cortocircuito si origina il fenomeno del voto di scambio, o corruzione elettorale che dir si voglia. Lo schema è semplice:
un politico (o un suo intermediario) contatta un esponente dell’associazione mafiosa (o un suo intermediario) domandando pacchetti di voti in occasione delle consultazioni elettorali e promettendo, in cambio, utilità di varia natura: denaro, posti di lavoro, concessioni amministrative, nomine politiche.
Sul piano legale, un accordo come quello appena descritto integra gli estremi di un reato (per l’appunto, di corruzione elettorale) punito a livello normativo dal d.p.r. 361/1957 per le elezioni parlamentari e dal T.U. 570/1960 per le elezioni amministrative (es. comunali).
Le disposizioni normative appena citate riguardano tuttavia il caso in cui il procacciatore di voti, al quale sono promesse le utilità, sia un soggetto comune.
Le cose cambiano se il soggetto che promette i voti al politico è un esponente di un’associazione mafiosa oppure un soggetto che, pur non appartenendo all’associazione, si impegna a procurare voti mediante l’impiego delle modalità che connotano l’associazione mafiosa: intimidazione, assoggettamento ed omertà. In questo caso il reato è disciplinato, con pene più gravi, dall’art. 416-ter del codice penale, c.d. scambio politico mafioso.
È importante precisare che, a seguito delle diverse riforme che hanno interessato detto articolo, il reato si realizza anche se l’accordo avviene a mezzo di intermediari, anche se le parti si scambiano la sola promessa e anche se il politico promette utilità diverse dal denaro: in precedenza, invece, il reato si sarebbe realizzato solo con l’effettiva erogazione del denaro – non rilevando la mera promessa – ed il denaro era l’unica utilità che poteva essere oggetto di promessa: così, ad esempio, la promessa di un posto di lavoro in cambio di voti non assumeva rilevanza.
Trojan e intercettazioni
Sul piano processuale, il voto di scambio è un reato per il cui accertamento sono indispensabili le intercettazioni, telefoniche o ambientali che siano, effettuate nelle botteghe dei mafiosi o negli uffici dei politici; o semplicemente, per strada.
Difficilmente ci sarà un testimone o una ripresa dell’accordo, per questo è indispensabile procedere al mezzo dell’intercettazione, che in forza delle disposizioni codicistiche può essere effettuata anche mediante il cosiddetto captatore informatico: si tratta di un trojan che viene installato nei dispositivi elettronici degli indagati e che consente l’attivazione del microfono all’insaputa dei soggetti intercettati.
La Svolta, Maglio 3 e i Conti di Lavagna
In Liguria le prime indagini sui contatti tra mafia e politica risalgono addirittura agli anni ottanta, quando l’allora Presidente della Regione venne processato, ma poi prosciolto, con l’accusa di aver stretto patti elettorali con i mafiosi di Ventimiglia (cd. Caso Teardo); le indagini continuano negli anni duemila nell’ambito del processo “La Svolta”, che ha riconosciuto l’esistenza di una cellula di ‘ndrangheta a Ventimiglia e in cui oltre ai mafiosi delle famiglie Pellegrino/Barilaro risultavano imputati, con l’accusa di concorso esterno, anche l’ex Sindaco ed il “city-manager” del Comune.
Anche in tal caso i due politici sono stati assolti.
Le cose cambiano con l’operazione “Maglio 3”, che ha riconosciuto l’esistenza di una cellula di ‘ndrangheta a Genova; nell’ambito delle indagini è emerso che, in occasione delle elezioni regionali del 2010, due politici si sarebbero rivolti al capo della ‘ndrangheta genovese Domenico Gangemi (poi definitivamente condannato per questo ruolo) per ottenere dei voti.
Pur dovendosi precisare che, dei due politici, uno risulta aver patteggiato la pena e l’altro è ancora sotto processo, è curioso pensare che uno dei due abbia ottenuto centinaia di voti che sono risultati nulli a causa dello stesso difetto.
Una condanna già definitiva è invece intervenuta in quello che rappresenta uno dei casi più eclatanti di corruzione elettorale in Liguria, ossia quello che ha interessato il Comune di Lavagna e le elezioni comunali del 2014.
Come accertato nel procedimento penale “i Conti di Lavagna”, che ha riconosciuto l’esistenza di una cellula di ‘ndrangheta a Lavagna, l’ex Sindaco Giuseppe Sanguineti è riuscito ad ottenere circa 500 voti (un numero importante per un piccolo Comune) dal capo della ‘ndrangheta locale, Paolo Nucera.
Come si legge in sentenza, dopo l’elezione il capo-mafia si è fatto avanti, mettendo alle strette l’ex Sindaco, per incassare il prezzo del patto, secondo lo schema descritto in apertura: nel dettaglio, si trattava di una nomina politica (di un assessore) gradita alla cosca, in modo da poter avere il controllo delle concessioni demaniali del Comune.
Inutile dire che a seguito dei fatti il Comune di Lavagna è stato sciolto per infiltrazione mafiosa.
Va tuttavia precisato che nei casi descritti finora il reato contestato non era quello di cui all’art. 416-ter, quindi lo scambio politico-mafioso, ma la semplice corruzione elettorale di cui ai d.p.r. menzionati più sopra. Si trattava invero di fatti commessi in un periodo in cui la formulazione dell’art. 416-ter di cui sopra, poi mutata, non copriva quei fatti, perché richiedeva che i voti venissero procurati mediante il metodo mafioso.
Per la formulazione odierna, invece, si è visto essere sufficiente che la promessa di voti venga fatta da un membro dell’associazione, a prescindere dal metodo usato, e quindi sia i fatti di Genova che quelli di Lavagna oggi rientrerebbero perfettamente nello scambio politico mafioso.
Un vero e proprio caso di scambio politico-mafioso è invece stato recentemente accertato, seppur in via non ancora definitiva, dal Tribunale di Asti, che ha condannato per voto di scambio un ex-assessore della Regione Piemonte in quota FdI nell’ambito dell’operazione denominata “Carminius Fenice”.
Ma che c’entra il Piemonte con la Liguria?
Semplice: secondo la pronuncia di primo grado l’ex assessore avrebbe stretto un accordo elettorale con un soggetto già condannato in via definitiva come esponente della ‘ndrangheta genovese nel processo “Maglio 3” (Onofrio Garcea).
Questo ci conferma ancora una volta come il legame fra ‘ndrangheta Ligure e ‘ndrangheta basso-piemontese sia forte e stabile e ci consente di guardare il fenomeno in chiave unitaria.
Quindi, alla luce di questo quadro, noi che possiamo fare?
È quasi banale dire che gli elettori hanno un ruolo fondamentale nella lotta al voto di scambio, ma è davvero così. È necessario che tutti noi, come cittadini ed elettori, arriviamo prima della magistratura. Questa, purtroppo, interviene quando il reato è già stato commesso, la legalità già violata e la politica inquinata.
Per svolgere al meglio questo delicatissimo compito, abbiamo il dovere di monitorare, informandoci costantemente sull’attività, l’impegno e le battaglie di un politico, le sue frequentazioni e anche le sue vicende giudiziarie. Il tutto al fine di valutarne la coerenza e la correttezza e di giudicarli al momento delle tornate elettorali, bocciando senza appello chi si è mostrato debole, confuso o assente su certi temi o addirittura colluso con certi ambienti.
Questo, purtroppo, non sempre avviene.
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