Il patrimonio confiscato genovese è degno di nota innanzitutto per le sue peculiarità: centinaia di beni molto piccoli la cui maggioranza è concentrata in pochi chilometri quadrati; qualcuno ha parlato di “confisca pulviscolare”. Sicuramente il sequestro ai Canfarotta-Lo Re nel 2009 è stato il più grande nel Nord Italia per numero di beni sequestrati.
Sono ad oggi luoghi in cui sono state sviluppate tante esperienze positive: le lezioni di italiano allз migranti di Pas à Pas in Vico delle Vigne, l’impegno al reinserimento sociale della Parrocchia delle Vigne, i percorsi laboratoriali per la salute mentale di Orizzonti in Vico Mele, prossimamente l’escape room a tema mafia di EnigMalavita in Vico dell’Umiltà, e tante altre ancora (Articolo di wall:out ENIG-MALAVITA. Storia di un’idea semplice).
Queste esperienze positive non devono però far dimenticare che la storia della gestione dei beni confiscati alle mafie a Genova è stata finora disastrosa.
La vicenda Canfarotta è forse la più famosa: a un anno di distanza dalla confisca definitiva nel 2015, la situazione era ancora ferma. Nei due anni successivi venne prodotta una costosa e incompleta perizia, e sul finire del mandato della giunta furono acquisiti due beni, ma in totale assenza di idee progettuali.
La nuova giunta nel 2017, completamente impreparata, si accorse del problema solo quando fu denunciato dalla stampa: i beni comunali erano ancora utilizzati e tenuti aperti senza problemi dallo stesso Canfarotta (mai condannato al carcere relativamente a questa misura di prevenzione).
Contemporaneamente alcunз inquilinз dei condomini dove si trovavano i beni confiscati denunciarono che lo Stato non pagava le spese condominiali degli immobili, e gli arretrati avevano superato le migliaia di euro.
Il valzer era appena iniziato: due anni dopo si scoprì un po’ per caso che alcuni appartamenti confiscati non destinati al Comune erano ancora frequentati da prostitute che pagavano regolare contratto all’Agenzia Nazionale dei Beni Confiscati. Anche Le Iene accesero i riflettori sulla vicenda, con un servizio andato in onda il 31 marzo 2019.
Contratti temporanei
All’epoca del sequestro (2009), per gestire una situazione oggettivamente straordinaria, il Tribunale stipulò dei contratti temporanei agli inquilini degli appartamenti: dopo dieci anni la situazione era rimasta immutata. Per giunta, pare che lo stesso Canfarotta fosse un aiuto fondamentale per la gestione di questi beni, e che fosse l’unico ad avere una visione completa e chiara del suo ex-patrimonio.
Di fronte allo scandalo l’Agenzia, su ricatto comunale, mise i beni confiscati direttamente a bando tramite il Comune, e la situazione finalmente si sbloccò. Seguirono diversi bandi che ebbero però tutti un minimo comune denominatore: tutto lo sforzo economico di ristrutturazione e allestimento sarebbe ricaduto sulle piccole associazioni di volontariз.
Molti progetti non sono mai partiti in mancanza di poche migliaia di euro.
Evidentemente questo non fu percepito come un problema: il Regolamento del Comune di Genova sui beni confiscati del 2022 (LINK 6) prevede espressamente che siano a carico degli assegnatari dei beni anche le spese straordinarie degli immobili:
“1. Gli atti di concessione devono prevedere a carico dei concessionari: e) l’onere di provvedere alla manutenzione ordinaria e straordinaria del bene” (Articolo 13, 1.e)).
Tradotto nella pratica, significa che se occorre intervenire sul tetto del condominio rinascimentale di Vico Vigne, l’associazione di volontariз che ha vinto il bando per la gestione di 5 anni del bene di 12 mq e lo ha ristrutturato con 5000 euro ottenuti da crowdfunding, dovrà sobbarcarsi da sola migliaia e migliaia di euro di spese condominiali.
Anche il recente progetto di EnigMalavita in Vico dell’Umiltà è stato interamente finanziato con crowdfunding.
Se guardiamo i sequestri non Canfarotta, la situazione è anche peggiore
Nel 2012 venne confiscata a Roberto Sechi, intraneo della cosca dei Fiandaca, la creperia di Via Caffa; fu riassegnata a privati dall’amministrazione giudiziaria, e il Secolo XIX titolò “In Via Caffa l’unica azienda confiscata alla mafia che dà lavoro”.
Dopo 4 anni si scoprì che quei privati erano persone di fiducia del Sechi, e che quest’ultimo aveva offerto a un sicario dei Fiandaca in fuga di trovare rifugio presso la creperia assumendolo (in nero). Dava lavoro sì, ma agli stessi mafiosi. A distanza di sette anni, è ancora difficilissimo reperire qualche informazione riguardo lo stato attuale dei beni Sechi.
Nel 2013 furono confiscati in via definitiva alla cosca dei Lo Iacono diversi beni a Pontedecimo, Campomorone e Santo Stefano d’Aveto.
Uno di questi beni, un negozio di alimentari, si trova sul confine tra Campomorone e Genova, ma rientra per pochi metri nel Comune di Genova. Campomorone giustamente non lo riconosce come di sua competenza, ma Genova neppure. Da dieci anni non si sa più nulla dell’immobile. Una persona furba consiglierebbe ai Lo Iacono di riprenderselo (sempre che non l’abbiano già fatto).
Nel 2005 fu confiscato ai Caci un basso in Vico delle Mele. Dopo sette anni il Comune di Genova lo riassegnò per farvi un negozio di prodotti delle terre confiscate alle mafie, che fallì dopo neppure un anno. Era il primo bene confiscato riassegnato a fini sociali a Genova; il bene fu lasciato al suo destino nel disinteresse pressoché generale dell’amministrazione fino al rinnovo della concessione, nove anni dopo.
L’associazione vincitrice del nuovo bando fu letteralmente catapultata in un realtà di cui non avevano idea: nessuno l’aveva neppure informata che si trattava di un bene confiscato alle mafie.
Solo grazie alla rete di mutuo aiuto del tessuto associativo l’associazione riuscì a resistere e oggi continua a tenere il bene aperto.
È degno di nota anche il fatto che, nel profluvio dei milioni e milioni di euro piovuti a Genova grazie al Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza nel 2022 e 2023, neppure uno sia stato destinato al recupero dei beni confiscati, ed è ancora più incredibile che le associazioni sensibili al tema non lo abbiano mai fatto notare pubblicamente.
Sotto il profilo dei finanziamenti locali, l’unica azione concreta per Genova è stato uno stanziamento regionale relativamente cospicuo, sempre rinnovato negli ultimi anni. Ma è difficilissimo avere trasparenza sull’uso di questi fondi, e tantomeno accesso: per gli ultimi bandi genovesi è stato previsto un contributo alle associazioni di volontariз calcolato come percentuale delle spese di manutenzione straordinaria da presentare a lavori compiuti.
Fino ad oggi infatti si sono fatti avanti per la gestione di un bene solo chi era già attivo e provvisto di proprie risorse economiche, e chi ha scommesso sull’attivazione di un crowdfunding (con un considerevole investimento di energia e tempo).
Questi episodi, a cui se ne potrebbero aggiungere molti altri, indurrebbero a pensare di lasciar perdere, e ad abbandonare il tentativo di riutilizzare i beni confiscati a Genova.
Chi scrive ha dedicato molti anni (e una tesi di laurea in Architettura: “Il riutilizzo sociale degli immobili confiscati alla criminalità organizzata in Italia – Un’indagine architettonica spaziale, funzionale e gestionale – Panoramica per il progettista” a reperire informazioni sul patrimonio confiscato e a condividerle, e questo pezzo non vuole essere un ripensamento, bensì un appello affinché nei prossimi anni si possa fare tesoro dei disastri commessi.
Basta trascorrere un quarto d’ora con lз appassionatз volontariз di un’associazione, o vedere il circolo virtuoso che pochi metri quadrati di spazio riassegnato possono generare, per capire che in realtà ne vale la pena.
E quando ci si ricorda di chi ha speso la vita per contrastare il cancro della criminalità organizzata, e di chi quella vita l’ha persa (per il suo impegno o ‘perché nel posto sbagliato al momento sbagliato’), allora si realizza che sì, ne vale la pena eccome.
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