Cos’è un’emergenza? Questo termine, usato ed abusato, indica solitamente un fatto o una situazione, con eccezione quasi sempre negativa (anche grazie all’assonanza con l’inglese emergency), che all’improvviso sconvolge le nostre vite; qualcosa di non prevedibile che, metaforicamente, emerge improvvisamente da acque limpide e tranquille, qualcosa di molto più preoccupante di un problema o di un imprevisto.
Questa premessa zanichelliana è necessaria per porci la domanda fondamentale, ovvero, che cos’è per noi, oggi, un’emergenza?
È qualcosa di incredibilmente preoccupante che, come un fulmine a ciel sereno, sconvolge la nostra normale visione del mondo, un fatto di dimensioni talmente grandi che ci porta a sperare nell’arrivo di un supereroe; in mancanza di Batman tendiamo ad affidarci alla gestione di qualcuno che tenterà di mettere una pezza a qualcosa che nessuno poteva prevedere e che, per essere risolto, necessità di rapidità e risolutezza, requisiti che spesso lasciano pochissimo tempo ad eventuali domande.
Nel nostro paese ogni giorno assistiamo all’utilizzo di questa parola per numerose situazioni che spesso non corrispondono a questa definizione: emergenza Covid, emergenza occupazionale, emergenza economica, emergenza climatica, emergenza immigrazione e, addirittura, emergenza Ponte Morandi.
Il carattere emergenziale di un accadimento deve necessariamente esaurirsi col passare del tempo: lo studio di un fenomeno, delle sue cause e conseguenze porta inevitabilmente a ridefinirne i confini considerandolo, a quel punto, un problema.
L’abitudine della narrazione contemporanea di definire ogni problema “emergenza” porta con sé una naturale alienazione dai fatti: l’emergenza non è qualcosa che si ha tempo di studiare, è una tegola che ci è piombata sulla testa da chissà dove.
La pericolosità di questo tipo di narrazione si riflette direttamente sulla capacità di analisi dei fatti: in un paese caratterizzato da un alto tasso di analfabetismo funzionale (l’incapacità di filtrare e comprendere le informazioni provenienti dall’attualità) il rischio che si prospetta è quello di rendere insensibili gli individui ai fatti che li circondano, riconducendo ogni problema ad un qualcosa che non si può comprendere perché eccessivamente complesso o ampio.
Analizzando alcuni degli esempi precedentemente citati, non sarà difficile comprendere cosa si intende quando si parla di problematica e inesatta narrazione dell’emergenza.
Emergenza immigrazione
Definire un fenomeno ampiamente studiato e storicizzato “emergenza” stona già di per sé. Cerchiamo di uscire dal circuito dei titoli di giornale e parlare di emergenza nella gestione dell’immigrazione sul territorio italiano.
Il primo grande evento che porta i giornali della penisola a parlare di “emergenza immigrazione” nella contemporaneità può essere individuato con un fatto ben preciso: Lo sbarco della Vlora nel porto di Bari, la nave mercantile che l’8 agosto 1991 portò in Italia 20 mila albanesi fuggiti dal proprio paese dilaniato dalla crisi economica e dalla dittatura. Lo storico evento fu preceduto di pochi mesi da un altro massiccio sbarco nel porto di Brindisi, 6500 persone in un solo giorno, il 7 marzo 1991. In questi due casi si parlò di emergenza umanitaria, oltre che di emergenza immigrazione, d’altra parte si trattava seriamente di un evento inaspettato, anche solo considerando i numeri di immigrati sbarcati in un singolo giorno.
Dopo 30 anni, il numero di albanesi che vivono nel nostro paese tocca il tetto di 430mila individui: colleghi, amici, compagni di scuola dei nostri figli.
L’integrazione ha avuto successo per numerosissimi fattori legati ad una più spiccata vicinanza culturale, ma soprattutto grazie alla narrazione; nonostante alcuni titoli di giornale, o telegiornale, interpretassero questa massiccia migrazione come “invasione”, vi era una sostanziale differenza: il web.
Non eravamo tempestati ogni giorno da video del delinquente di turno, la cui nazionalità, oggi, viene strumentalizzata a piacere; chi aveva posizioni fortemente contrarie all’immigrazione poteva parlarne al bar o con gli amici, non pubblicare tweet virali che rapidamente trovano riscontro in utenti provenienti da tutta la penisola.
Il quantitativo di informazioni legate all’immigrazione e la frequenza con cui ci vengono somministrate portano ad una sostanziale perdita del senso della misura del problema.
“Problema” perché l’immigrazione dai territori africani è una realtà da anni; esiste una massiccia letteratura che indaga le cause che portano queste persone ad emigrare, esistono previsioni degli effetti, analisi del sistema organizzato che regola le partenze, per questo motivo non è più accettabile parlare di emergenza, proprio perché il sistema è ormai codificato e conosciuto. Il continuo uso del termine “emergenza immigrazione” non fa altro che alimentare l’idea che il problema sia troppo complesso per essere affrontato, generando paura e timore nel cittadino.
Concludendo, la prova che la massiccia somministrazione di informazioni sfalsa la nostra percezione, grazie al tipo di narrazione, si ha facendo un semplice paragone, usando lo sbarco della Vlora (20.000 persone approdate in un solo giorno) come metro di paragone.
Nel 2019, ad esempio, in un intero anno solare è giunto sulle nostre coste un quantitativo di migranti pari alla metà del carico umano trasportato dal mercantile quell’8 agosto 1991.
Emergenza Covid
La problematica narrazione della pandemia, anche se sembra sovrapporsi solo in parte alle ragioni illustrate nel paragrafo precedente, è figlia delle stesse ragioni che hanno portato, oggi, a sottovalutare il problema.
Era sacrosanto parlare di emergenza allo scoppio della pandemia, una malattia sconosciuta mieteva rapidamente vittime, complice un contagio che pareva inarrestabile. Col passare del tempo siamo stati in grado di trovare terapie che, ad oggi, permettono di curare chi si ammala di SARS-CoV-2, tuttavia il sistema non è in grado di sostenere un contagio di massa, ipotesi resa molto realistica dalla crescita esponenziale di malati in tutto il mondo.
La soluzione, in tempo di emergenza, è stata il lockdown.
Non entrerò nel merito di tutte le conseguenze che le disposizioni hanno generato, e generano, ma mi fermerò ad affrontare ciò che concerne il cambio di percezione della pandemia generato dal continuo uso della parola emergenza.
Come abbiamo detto, inizialmente l’uso del termine ha contribuito fortemente a rafforzare nelle coscienze dei singoli la percezione di una situazione fortemente rischiosa per l’intera popolazione; parallelamente una narrazione incentrata su storie personali di lutti e perdite ha contribuito a richiamare ciascuno al proprio dovere nei confronti del prossimo attraverso l’empatia.
Col sopraggiungere dell’estate la narrazione è cambiata: l’uso del titolo fisso “emergenza Covid” è stato usato in rapporto ad una forte diminuzione della letalità e del numero dei contagi sintomatici.
Non è difficile, a questo punto, comprendere perché oggi assistiamo continuamente a scene che ci fanno pensare che alla gente non importi nulla del virus. Utilizzare lo stesso range comunicativo in situazioni differenti ha portato il cittadino medio a legittimare la propria noncuranza con, come estremo riflesso, il fiorire di negazionisti.
In ogni trasmissione televisiva c’è spazio per una parentesi, spesso più di una, dedicata ai contagi, ma il cittadino che ingurgita bulimicamente informazioni smette di comprenderle a causa di un tono che non è cambiato da un anno a questa parte.
Il distratto spettatore percepisce il tutto come una riproduzione continua dello stesso film, una narrazione che ha smesso di interessargli nel momento in cui, col calare delle restrizioni nel periodo estivo, è potuto tornare ad una vita normale senza apparenti conseguenze.
Di riflesso l’uso del termine “emergenza” mette in moto quel meccanismo che delega le responsabilità a qualcun altro che dovrà risolvere il problema, annullando completamente l’appello alla responsabilità collettiva.
Per i seguenti motivi, senza indorare la pillola, si può riassumere il tutto affermando che l’esistenza stessa dell’emergenza sanitaria è alimentata direttamente da una seria emergenza cognitiva della massa che tenta di sviare la necessaria presa di coscienza della propria responsabilità individuale, unico ed eterno mezzo a tutela della collettività.
Emergenza occupazionale
È corretto parlare di emergenza? Come nei precedenti casi si parla di grandi numeri, perlopiù giovani che si affacciano al mondo del lavoro e over 50 a cui mancano pochi anni di contributi per poter arrivare alla pensione. Anche in questo caso non manca la trattatistica economica relativa alla bomba occupazionale generata dalla rivoluzione digitale, estremo progresso che fatica a trovare riscontro nella preparazione dei candidati a posti di lavoro che necessitano di una conoscenza, almeno di base, degli strumenti informatici.
Sarebbe riduttivo condensare a questa motivazione la causa della crisi del mercato del lavoro, specchio diretto della crisi economica, tuttavia il continuo uso del termine “emergenza”, anche in questo caso, innesca quel sistematico scarica-barile di responsabilità, come se fosse scontato l’arrivo di un magico individuo che risolverà la situazione, una situazione che non vale la pena approfondire.
Questo non vuol dire ridurre o sottovalutare un problema che mette seriamente in crisi una notevole fetta della popolazione, ma ridimensionare le sue cause che troppo spesso vengono delegate a difficoltà amministrative e burocratiche.
In un paese in cui dilaga un fangoso nepotismo e una gestione del lavoro che sovente sfiora lo sfruttamento non è semplice pensare a soluzioni, soprattutto in un mondo globalizzato in mano a multinazionali che delegano la gestione del lavoro alle cooperative.
Se tuttavia desiderassimo approfondire le ragioni psicologiche che sempre più spesso dissolvono il rapporto fiduciario tra datore di lavoro e dipendente potremmo pensare a una piccola rivoluzione occupazionale, iniziando dallo smettere di assumere tirocinanti senza il desiderio di trasmettere seriamente un mestiere, ma avendo come unico scopo quello di avere braccia in più al minimo costo, pratica che oltre a demoralizzare il dipendente, cancella quella linea di demarcazione tra piccola realtà aziendale e grande catena, differenza che viene solidamente sbandierata dalle piccole realtà imprenditoriali che tuttavia non si sottraggono dall’adoperare i peggiori strumenti della mala-politica del lavoro inasprita dalla crisi sanitaria.
Con questi esempi non si intende trattare in modo sommario e parziale le suddette problematiche, o ricondurre esclusivamente al singolo una serie di responsabilità che possono essere attribuite su diversi livelli (sfera governativa, legislativa, sociale, culturale o economica), ma si intende mettere in luce, semplicemente, quanto è effettivamente rischioso l’uso di un termine estremo, come “emergenza”, per un lasso di tempo prolungato.
Nel mondo 2.0 in cui viviamo, siamo schiavi della narrazione; per questo motivo è nostro dovere cercare sistematicamente di filtrare e metabolizzare le informazioni che ci vengono riversate addosso.
Verificare le fonti è il primo passo, in secondo luogo è necessario evitare di privarsi delle opinioni personali che possono rappresentare continui nuovi spunti di riflessione.
Tutto questo per dire che, semplicemente, quando sentiamo continuamente la parola “emergenza” applicata a vari ambiti, ecco, è proprio quello il momento di spingerci oltre al superficiale livello di conoscenza per poter esercitare il nostro dovere di cittadini: evitare l’alienazione dalla realtà è l’unico vero strumento per poter influire sui processi di cambiamento, smettendo una volta per tutte di seguire la corrente che, apparentemente, ci travolge.
Immagine di copertina:
Illustrazione di Martina Spanu
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