Da settimane, tutti, aspettiamo questo momento. L’apertura della gabbia, finalmente – seppure tramite un piccolo spiraglio – la possibilità di movimento in uno spazio più ampio. Dopo tutto questo tempo, una boccata d’aria (si fa per dire: rigorosamente mascherina-muniti).
Un pranzo coi familiari, qualche passeggiata in compagnia, un tentativo un po’ triste di aperi-plexiglass, ed ecco spuntare inesorabile una nuova insoddisfazione: più forte di prima, forse anche più violenta. Siamo sempre legati, sempre intrappolati.
Anzi, era meglio prima.
Chiusi in casa, con limiti e confini ben definiti, avevamo dalla nostra più potere di immaginazione.
Tranquilli: questa insoddisfazione è un problema esistenziale, e non sarà certo la fase due (neppure la tre) a rinsavirci. Diciamo pure così, tutti i limiti e gli errori delle politiche di “contenimento” non ci interessano, ora, in questa analisi, perché ci concentriamo sulla nostra personale agitazione esistenziale. Quella che niente e nessuno eccetto noi stessi ha il potere di curare. Tagliamo tutto il superfluo e apriamo la porta alle nostre inclinazioni più autentiche. Cosa troviamo? Desiderio di eliminare il confine.
Non allargarlo: eliminarlo.
Non il confine della quarantena, non solo: tutti i confini.
Nel 1585 Giordano Bruno scrive e pubblica De gli eroici furori, testo dialogico-filosofico nel quale presenta il furioso come un assetato esploratore delle contraddizioni del mondo, che passa da un estremo all’altro come se volesse comprenderli entrambi in sé: il suo furore è eroico, laddove l’etimologia si collega alla parola erotico, perché la conoscenza di nuove frontiere – chi può negarlo – oltre che appassionante, è anche tremendamente eccitante.
Il più furioso di tutti è proprio Bruno. Una vita dedicata a immaginare l’Infinito.
Il secondo, probabilmente, è Buzz Ligthyear, co-protagonista di Toy Story, film di animazione statunitense datato 1995 (primo film completamente sviluppato in computer grafica!). Buzz, come Giordano, non si cura dell’opinione dominante e insegue furiosamente quanto sente in seno.
Siamo tutti furiosi. Abbiamo solo paura di allontanarci troppo dall’opinione dominante. Ma proviamoci ogni tanto, anche solo per gioco…Propongo un ottimo antidoto – o incentivo – all’agitazione esistenziale: l’immaginazione.
(ma attenzione: la fantasia può portare male, se non si conosce bene come domarla)
Vediamo due artisti che non si sono fatti intimorire dallo spazio chiuso e si sono lanciati verso l’infinito e oltre con il potere dell’immaginazione.
L’uomo che volò nello spazio dal suo appartamento – Ilya Kabakov (1985)
Nell’Unione Sovietica poststalinista, Kabakov è ufficialmente illustratore di libri per bambini, clandestinamente artista furioso. Nella seconda metà degli anni ’80, con il favore della perestrojka, emerge in Russia e anche fuori. Nel 1988 realizza a New York 10 Characters, una mostra personale dove ricostruisce nella galleria un intero appartamento comunitario sovietico: dieci stanze, ciascuna dedicata a personaggi di fantasia decisamente originali. Tra i vari: L’uomo senza talento, l’uomo che colleziona le opinioni degli altri, e l’uomo che non butta mai via niente.
Uno dei dieci personaggi è il nostro uomo che volò nello spazio dal suo appartamento. L’installazione è visibile solo attraverso le fessurazioni della parete della stanza (equivalente a Étant donnés del celebre Marcel Duchamp), e quel che si vede è un piccolo ambiente devastato da una voragine sul soffitto, frammenti di gesso sparsi a terra, e pareti tappezzate da manifesti politici e di propaganda.
Dai quatto angoli del soffitto scendono delle cinghie che sorreggono una sorta di catapulta a molle, e si trova il modellino plastico di una città dove è tracciata, con nastro metallico, la traiettoria del volo dall’appartamento allo spazio.
Affisso alla parete esterna un commento dell’uomo catapultato: desideroso di abbandonare la terra, imitando gli eroi della cosmonautica sovietica ed eludendo il controllo dei vicini, l’uomo ha progettato e realizzato la sua fuga nello spazio. La polizia ha dovuto arrendersi.
L’installazione, poi, è stata ricreata e attualmente appartiene alla collezione permanente del Centre Pompidou a Parigi.
In cubo – Luciano Fabro (1966)
Decisamente meno narrativo e più metafisico è In cubo di Fabro, esposto per la prima volta alla mostra Lo spazio dell’immagine a Foligno nel ’67, e ricreata successivamente su richiesta della critica d’arte Carla Lonzi.
Si tratta di una struttura in acciaio chiusa lungo cinque lati da una tela bianca tesa fino ai bordi, con altezza equivalente all’altezza dell’artista e larghezza corrispondente all’apertura delle sue braccia. Realizzata non per essere contemplata dall’esterno, ma abbastanza leggera da poter essere sollevata: l’invito rivolto al pubblico è quello di entrarci dentro.
Perché, dentro? Perché in quel piccolo cubo chiuso ogni visitatore può misurare lo spazio con braccia, gambe e movimenti minimi, confrontando i suoi parametri fisici con quelli dell’autore: è un’esperienza di spazio che non siamo abituati a fare.
Ma soprattutto, dentro al cubo, lo spettatore può immergersi in uno spazio interno ovattato, privo di ombre e luci: un ambiente visivo pressoché indifferenziato da dove non si percepiscono forme esterne ma un bianco quasi-continuo che richiama al Ganzfeld teorizzato dallo psicologo Metzger e ripreso in arte, soprattutto, da James Turrell.
Un cosmo così chiuso, così piccolo, da facilitare l’illusione, l’immaginazione, l’infinito.
Immagine di copertina:
Legospace di Anastasia Karandashova
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