Ospedali Psichiatrici Liguria Genova

Una realtà al di fuori della realtà: gli ex Ospedali psichiatrici provinciali e la loro eredità

Gli ex Ospedali psichiatrici hanno sempre vissuto una posizione paradossale, dentro e fuori la società. In che modo abbiamo raccolto la loro eredità?
11 Luglio 2021
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Dentro, eppure fuori. È stata questa la straordinaria posizione degli ospedali psichiatrici nel genovesato, anche quando, nella seconda metà del XIX secolo, la loro distribuzione sul territorio cittadino sembrava indicare una certa integrazione con la realtà urbana.

In questo periodo, infatti, la struttura di riferimento per la provincia di Genova era situata in via Cesarea, con succursali a Bolzaneto, Coronata e La Spezia, cui si aggiunse, negli anni Dieci, il plesso di Paverano e ai quali continuerà ad affiancarsi, fino al 1936, il lavoro della clinica di Villa Maria Pia guidata dal prof. Enrico Morselli.

Nel frattempo però, sul finire del secolo, era iniziato il trasferimento di molti degenti nella nota sede di Quarto, che progressivamente si concentrerà sul trattamento delle forme acute, destinando i pazienti cronici all’ospedale di Pratozanino, nei pressi di Cogoleto. 

L’eccezionalità della loro condizione extra-territoriale, o meglio extra-sociale, è legata alla funzione che le strutture psichiatriche esercitavano, almeno fino al 1978, e che è a sua volta da ricomprendersi nel contesto della costruzione nazionale.

Come spiega Fabio Milazzo, storico esperto di devianza e psichiatria:

la storia delle istituzioni psichiatriche in Italia è una vicenda che coincide in buona parte con quella della nazione, almeno fino agli anni Novanta del Novecento. Infatti, anche dopo la legge 13 maggio 1978, n. 180, che dava il via alla riforma dell’assistenza psichiatrica in Italia, e quindi al superamento dei manicomi, questi ultimi continuarono a funzionare svolgendo una funzione suppletiva, visti i ritardi diffusi nell’organizzazione dei servizi di igiene mentale pubblici. Fino ad allora […] la funzione della principale istituzione psichiatrica, il manicomio, fu quella di gestire e controllare, attraverso l’internamento, la pericolosità sociale del malato di mente. Infatti, secondo il dettato della legge n.36 del 14 febbraio 1904, dovevano ‘essere custodite e curate nei manicomi le persone affette per qualunque causa da alienazione mentale, quando siano pericolose a sé o agli altri e riescano di pubblico scandalo e non siano e non possano essere convenientemente custodite e curate fuorché nei manicomi’ (art.1). Veniva così sancito anche giuridicamente un principio di fatto già vigente, vale a dire la funzione non terapeutica, ma disciplinare del manicomio. La malattia mentale, almeno fino al secondo dopoguerra inoltrato, rappresentò soprattutto un problema di ordine pubblico da gestire attraverso l’internamento, solo in seconda istanza una questione da affrontare in vista del benessere psico-fisico del malato (che poi tanti alienisti e psichiatri, anche all’interno dei manicomi, cercarono di agire anche in vista di questo secondo aspetto è un’altra questione che qui, purtroppo, non possiamo affrontare)”.

Legge Basaglia n°180

La data spartiacque in questa evoluzione storica è, come noto, quella dell’approvazione della legge voluta da Franco Basaglia

“La riflessione teorica e l’azione di Basaglia si inseriscono in un contesto di grandi trasformazioni, sociali e culturali, che non potevano non coinvolgere anche la psichiatria. La nascita di diversi movimenti, la denuncia sempre più ripetuta degli scandali manicomiali, l’idea che la riduzione della malattia mentale a semplice questione di ordine pubblico dovesse essere superata, contribuirono a trasformare l’idea stessa di assistenza psichiatrica. Volendo sintetizzare con due elementi il cambio di rotta possiamo indicare:

1) la fine dell’internamento manicomiale (con tutto ciò che comportava in termine di pratiche utilizzate per controllare e rendere inoffensivi i malati);

2) la necessità da parte della società di farsi carico globalmente dei malati di mente.

Ciò si doveva tradurre in un nuovo modello di “cura” che aveva nella presa in carico del paziente e nell’incontro attivo con il terapeuta l’aspetto centrale. L’istituzione del Servizio Sanitario Nazionale e la realizzazione di una rete di servizi per la salute mentale, andavano nella direzione di un superamento della logica escludente dei manicomi, da realizzarsi attraverso l’azione dei dipartimenti di salute mentale. I servizi previsti riguardavano: servizi per l’assistenza diurna: i Centri di Salute Mentale (CSM); servizi semiresidenziali: i Centri Diurni (CD); servizi residenziali: strutture residenziali (SR) distinte in residenze terapeutico-riabilitative e socio-riabilitative; i Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura (SPDC) e i Day Hospital (DH); i servizi erogati dagli ospedali e dalle cliniche universitarie; le case di cura private. La realizzazione di questi servizi avvenne in modo difforme sul territorio nazionale, contribuendo ai tanti problemi che ancora affliggono il tema della salute mentale in Italia”.

In questo lungo periodo di transizione, le strutture di Quarto e Pratozanino hanno continuato a svolgere la loro attività, fino alla chiusura definitiva nel 1999, che per la prima ha comportato una molteplice riconversione, anche in direzione di una maggiore integrazione, come con l’iniziativa promossa da IMFI (Istituto per le Materie e le Forme Inconsapevoli), ma per la seconda ha implicato una lenta quanto irreversibile caduta in disuso, che le associazioni di volontarie attive negli edifici non hanno potuto arrestare.

Immaginare la concretezza del lavoro di quegli anni non è possibile senza avvalersi del contributo di chi li ha vissuti e per questo ho chiesto al dott. Antonio Pastorino, Medico di Medicina Generale (ASL 3/Distretto VIII), nonché mio padre, di condividere la sua esperienza.

“Ho collaborato fra il dicembre 1985 e il maggio 1986 con il Presidio Socio Sanitario di Cogoleto, in virtù di una convenzione assegnatami dall’allora USL 8. Ero al padiglione 8 e mi occupavo della salute fisica dei ricoverati psichiatrici, non dei loro problemi psichici. Del mio lavoro, che mi ha coinvolto tanto da fare anche i turni di guardia psichiatrica, ricordo la gratitudine dei miei pazienti, per lo più anziani, ma anche giovani, gratitudine che mi dimostravano ogni giorno per quello che sempre più ero coinvolto a fare per loro, sia che fosse auscultare un torace o suturare una ferita. Ho tanti ricordi di tanti volti e ognuno una storia, vissuta, vera, che loro mi raccontavano, sperando potessi in qualche modo aiutarli a vivere in maniera diversa, anche se nei loro occhi c’era tanta rassegnazione per la loro condizione”.

Ex Ospedale Psichiatrico Liguria Genova
Giardino di Pratozanino. Foto di Greta Asborno

Rimuovere la malattia mentale dalla società con l’allontanamento fisico dei pazienti non comportava infatti per loro l’oblio totale del mondo esterno.

La consapevolezza della loro condizione, che talvolta si manifestava solo per via di desideri e ricordi, non faceva che acuire una sofferenza già profonda, spesso aggravata dalle circostanze.

“La difficoltà consisteva nell’ambiente degradato in cui vivevano i degenti e operavo io come medico; le difficoltà erano i contatti con le altre realtà ospedaliere, che spesso rifiutavano visite specialistiche a malati psichiatrici, fossero visite oculistiche o chirurgiche, tanto che mi ingegnavo a sopperire, per quello che potevo, anche a questi problemi. Mi sono trovato da subito bene coi colleghi psichiatri, tanto che anche dopo ho continuato a collaborare con alcuni di loro, cementando negli anni collaborazione e amicizia, nonché stima reciproca”.

L’isolamento sociale, talvolta anche familiare e affettivo, poteva tuttavia essere lenito solo in parte dalla buona volontà e dall’eccellente professionalità del personale sanitario.

Ex Ospedale Psichiatrico Liguria Genova
Accettazione di Pratozanino con cancello sigillato. Foto di Greta Asborno

“I degenti vivevano una realtà al di fuori della realtà, e mi scuso per il gioco di parole. Il loro universo era il padiglione dove vivevano, la ‘piazza’, che era il cortile antistante regolarmente cintato, e poi per i più tranquilli c’era possibilità di girare per i viali, andare allo spaccio a bere un caffè e uscire anche fuori con adeguato permesso medico, anche solo per fare un giro a Cogoleto. Ho storie di ogni tipo che ricordo con affetto: il degente nato a Venezia che mi aspettava tutte le mattine sul piazzale davanti al padiglione per farmi segno per il parcheggio della mia auto, ma il piazzale era vuoto! Io stavo al gioco perché voleva sentirsi dire che ‘domàn’ saremmo andati ‘a Venessia’. L’ha fatto per sei mesi sempre col sorriso e un abbraccio da parte mia! Mi ricordo ancora Antonio, nome di fantasia, che sembrava Toni Ligabue, spiritoso e simpatico, che mi diceva sempre di avere una madre e una sorella, e un giorno gli ho detto che non risultava a nessuno che avesse parenti. Di nascosto mi passa un biglietto con un numero di telefono, che io faccio diverse volte, finché non mi rivolgo ai Carabinieri di zona, che rintracciano chi non rispondeva: la madre di Antonio che non voleva sapere nulla del figlio. Ma una volta vistoselo davanti è scoppiata in lacrime, e ogni mercoledì veniva a fargli visita. Il mio ‘amico’ mi ha abbracciato appena ha potuto con le lacrime agli occhi, promettendomi un caffè pagato allo spaccio dell’ospedale per sempre. Mi commuovo se penso che fine possa avere fatto, era più o meno mio coetaneo”.

Ex Ospedale Psichiatrico Liguria Genova
Dettaglio delle finestre di Pratozanino. Foto di Greta Asborno

Realizzare una legge

Affinché la chiusura di un mondo nato per tenere fuori dal mondo potesse trasformarsi nel proprio contrario, vale a dire in un’apertura e in una compenetrazione, le istituzioni hanno dovuto fare molto di più che approvare una legge: hanno dovuto provare a realizzarla, creando nuove condizioni e situazioni, senza far venire meno il necessario supporto, senza rimuovere il lavoro di cura. 

Una sfida, ancora aperta, che non sempre viene raccolta con efficacia d’azione.

Come scrive ancora Milazzo:

“ritengo che la psichiatria, pur con le tante differenze che la animano, abbia risposto in buona parte con un sincero intento di superare la logica concentrazionaria (mi si passi il termine) ed escludente dei manicomi. Purtroppo, come dimostrano tanti episodi di cronaca, c’è ancora molto da fare e, sicuramente, c’è un ritardo nell’organizzazione della rete di servizi che deve farsi carico, nella sua globalità, del malato mentale. Troppo spesso, e in troppe realtà, la chiusura dei manicomi si è tradotta in una latitanza dello stato nei confronti dei malati e delle loro famiglie, costrette a farsi carico con le proprie forze del problema. Le questioni aperte, insomma, sono molte e, dalle conversazioni che ho spesso con medici e psichiatri, i primi a esserne consapevoli sono proprio loro”. 

Aggiunge, infatti, Pastorino:

I servizi attuali sono sul territorio, con personale attento e molto compreso nel delicato ruolo di custode di persone incapaci di vivere una realtà come quella attuale senza aiuto. La legge Basaglia prevedeva la chiusura dei manicomi, ma anche la creazione di nuove case-famiglia in cui i degenti fossero seguiti da personale ad hoc, ma anche inseriti in attività lavorative. Purtroppo questo è stato fatto in parte, perché comportava un notevole sforzo economico, che nessun governo si è mai degnato di considerare. Qualcosa dentro al vecchio manicomio di Pratozanino è stato fatto, una comunità di recupero e aiuto, che non so ad ora se sia ancora in essere [non risulta esserlo più n.d.r.], ma è comunque troppo poco per chi dovrebbe avere ben altro supporto”. 

Ex Ospedale Psichiatrico Liguria Genova
Cancello chiuso a chiave a Pratozanino. Foto di Greta Asborno

Come chiosa Milazzo “qui, forse, dovremmo tirare in ballo soprattutto la politica e le tante sue mancanze”. 

Anche la politica, tuttavia, non è qualcosa di esterno, di altro rispetto alla società. Politico, nel senso pieno del termine, è ciò che noi facciamo quando decidiamo come abitare lo spazio sociale.

Per questo occorre tirare in ballo anzitutto noi stessi e raccogliere l’eredità di questa lunga storia, ancora in fieri, come una sfida: quella di creare una realtà che non abbia dentro di sé un fuori, in cui struttura e cultura collaborino consapevolmente al mantenimento del tessuto comunitario e relazionale come un ambiente vivo, attivo, abitabile.

Solo qui, infatti, la cura, in tutti i suoi sensi, può accadere, senza cessare di aver bisogno dell’apporto di specialisti, ma smettendo di dover essere relegata in luoghi speciali.

La risposta a questa sfida è allora nel nostro fare quotidiano, come cittadini e come umani, nei confronti di ogni fragilità che preferiremmo tenere lontano dalla nostra realtà, cullandoci nell’illusione che così smetta di riguardarci, di toccarci dentro, cosa che nessun fuori può, in effetti, impedirle di fare.

Immagine di copertina:
Il prato antistante la struttura di Pratozanino, attraverso le sbarre. Foto di Greta Asborno


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