Laurea e Coronavirus

Un tuffo in una pozzanghera

Lauree, momenti di passaggio, aspettative per il futuro ai tempi del covid.
21 Novembre 2020
4 min
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Che questo periodo sia strano e incerto e in bilico è chiaro da tempo ormai. Che le certezze e le sicurezze di sempre siano un po’ vacillate è evidente da quando le conversazioni quotidiane ruotano intorno a mascherine chirurgiche, permesso di andare al bar, divieto di abbracciarsi. 

La discussione della laurea è per definizione un momento di passaggio e cambiamento. Succede, quest’anno, che le due cose coincidano e si sovrappongano. La mia amica si è laureata in isolamento fiduciario per un familiare con sintomi influenzali. Io mi laureo e la città in cui ho studiato cinque anni è zona rossa. Mi sono detta che non è la fine del mondo, che la laurea non è per niente il problema più importante in un momento come questo.

Certo che non lo è. Non è poco, però, e credo sia importante dirlo, senza sentire di star facendo i capricci. È una laurea magistrale, è la conclusione di un ciclo, è, o dovrebbe essere, il momento in cui ci sentiamo “lanciati” verso il mondo del lavoro. 

Se è stato da sempre, il mondo del lavoro, un piccolo stagno in cui era difficile entrare e in cui bisognava farsi spazio, più che un vasto mare dove tuffarsi, adesso nella mia immaginazione si è proprio ridotto a una pozzanghera. È faticoso mantenere l’ottimismo e la forza di volontà che ci è sempre stata richiesta quando non sai se tra dieci giorni si potrà uscire di casa, quando i soldi che ti arrivano a fine mese, se ti arrivano, sono i meno tutelati, quando sei il primo che licenziano e l’ultimo che assumono. 

Ci laureiamo, è finalmente arrivato il momento di dimostrare a tutti quelli che negli anni hanno detto: “Ah studi psicologia e hai intenzione di trovare lavoro?”, “Studi lettere/arte/storia/filosofia, beh quindi finirai a insegnare”, “Ah bello che suoni, ma che lavoro vuoi fare veramente?” che abbiamo voglia di provare a costruire, siamo capaci, siamo pronti, abbiamo finito il percorso di formazione, abbiamo tante idee, vogliamo evolvere.

La mia prospettiva, se tutto va bene, è laurearmi a casa mia ed essere accettata in una struttura per un tirocinio di mille ore non retribuito.

Fuori dall’università, quindi non più da studente: che significa perdere tutti i sussidi e le agevolazioni che il ruolo di studente comporta, e non parlo dello sconto al cinema. Lo sapevo da quando ho scelto psicologia, mi dicono, certo, non c’entra il covid. Provate a fare capire alla me di diciotto anni che tra cinque anni sarei stata così arrabbiata perchè un tirocinio di mille ore non retribuito non dovrebbe esistere come possibilità: non si può fare una valutazione di questo genere in quinta liceo, perché quello che ho studiato mi è piaciuto tantissimo, e il problema non si dovrebbe porre, perché non dovrebbe esistere come possibilità.

Ai tempi del covid è ancora più complicato, perché metà delle sedi ha tolto la disponibilità ad accogliere tirocinanti, e perché questa laurea è spogliata di ogni rito e riconoscimento. Gli universitari mai nominati in nessuna discussione sull’apertura o chiusura dei luoghi di istruzione, come se fosse ovvio che le università chiudono, che differenza vuoi che faccia. I lavori con prospettive di un anno, contratti di stage, apprendistato, tirocinio, come routine. Camminando, l’altro giorno, una frase di una canzone che ascolto da anni è arrivata al momento giusto con un significato diverso: 

“Ragazzini, attenti, non battete le mani, col cianuro nei sogni la visione si sgonfia e cade giù”. 

È emergenza quando si deve decidere il primo lockdown, pazienza tutto il resto. È estate, si tira il fiato, e dei giovani si parla solo per demonizzazione la movida. È emergenza quando – che sorpresa – i contagi salgono anche qui, come in tutti gli altri Stati europei. È emergenza disoccupazione giovanile da quando avevo 12 anni circa. È emergenza denatalità. È emergenza, i ragazzi italiani vivono troppo a lungo con i genitori. 

(leggi l’articolo di wall:out Desensibilizzazione alla narrazione: se tutto è emergenza, nulla è emergenza)

Forse esagero, forse non sono obiettiva, perché un po’ di agitazione per questa laurea ce l’ho, perché non sono certa delle risorse che ho per un secondo lockdown, però davvero, vedo le persone intorno a me tutte confuse, insicure, con l’umore spesso cupo e una serie di domande:

domande su che fare, tornare nella regione di residenza o stare qui? Salgo io o scende lui? Ma ci saranno i voli per Natale? Domande su che ne sarà, quanto durerà, ma secondo te tra quanto tempo si potrà di nuovo andare a un mega concerto e stare bene? Domande su cosa succederà a breve: ma quando lo fanno il prossimo dpcm? Ma secondo te davvero chiudono di nuovo tutto? Domande su quanto muoversi, quanto provare: ma ci vado a fare quell’audizione o è meglio limitare gli spostamenti? Ma cambio casa o è stupido in questo periodo?

Non saranno questioni esistenziali, o forse sì, sono questioni quotidiane che determinano decisioni, futuri, aspirazioni, sono di tanti e tante, e quindi sono importanti, al di là di qualsiasi inutile e supponente scala della gravità dei problemi. Prima o poi questi dubbi e questa immobilità verranno fuori. Esploderanno o imploderanno, si risolveranno o si cicatrizzeranno, qualcuno troverà un lavoro bello e si rasserenerà, qualcuno lo perderà e dovrà tornare a casa dei suoi. 

E intanto è sempre troppo emergenza per cercare di riflettere veramente sulle conseguenze a lungo termine della pandemia, è sempre una rincorsa al numero dei contagi, e intanto le persone, le loro storie, vanno avanti in questo marasma, aspettano, si arrabbiano, si preoccupano, fanno il meglio che possono. E intanto la discussione di laurea si fa lo stesso, e la gioia di aver finito e di vedere le amiche con cui hai condiviso mille pensieri con la corona d’alloro sarà pura lo stesso, nonostante sia un periodo strano, nonostante sia a Genova, nonostante tutto. 

La strofa dopo della canzone dice così: “Avanti, amore perduto in mare trent’anni fa, fatti canzone, rivoluzione, vamos a matar! Fiorisci fiore, colpito al cuore senza pietà. Suona canzone, rivoluzione, vamos a matar!”

Immagine di copertina:
Piazza Corvetto, Genova. Foto di Emanuela F.


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Emanuela detta Malo, genovese classe 1996, vive e lavora Torino, dove si è trasferita per l'università e non se ne è più andata. Gira per la città in bicicletta, lavora come psicologa collaborando con diverse realtà del terzo settore in progetti rivolti a persone migranti. È un'appassionata lettrice e nuotatrice: poiché la gran parte dei libri che possiede, e il mare, sono a Genova è facile capire che non se n'è mai andata del tutto.

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