Se c’è una cosa che proprio mi piace, dico proprio davvero, è l’aperitivo. L’unica cosa che mi piace di più dell’aperitivo è un aperitivo all’aperto, col mio bicchiere appoggiato su un tavolino, in mezzo a molti altri, in mezzo a tutta la città che gira intorno. E poi musica, sole e vento sulla faccia. A suo modo, la sorgente più pura di ogni guilty pleasure.
Ecco, non serve essere un esperto per capire che, per rendere possibile tutto questo, è richiesta una complessa organizzazione sociale fatta sia di pratiche e filiere di produzione (bar, ristoranti, fornitori, eccetera) sia di pratiche di consumo consolidate (ritmi di lavoro, immaginario del tempo libero, una certa percezione condivisa del significato di cibi e bevande, eccetera).
Fai incontrare le prime con le seconde, la produzione con il consumo et voilà – mi spiegavano nei miei anni di Economia e Commercio – hai un mercato: in questo caso, quello degli aperitivi o della ristorazione più in generale (Aperitivi – dati Istat). C’è domanda, c’è offerta, le curve si incontrano, il mercato si (auto)regola. Quando l’equazione non torna, “bisogna intervenire” – e quanta politica in questa piccola espressione – per risolvere i “fallimenti del mercato”. Chiaro? Chiaro.
Cioè, chiaro è chiaro, se non fosse per quel gigantesco elefante nella stanza di questa teoria che ad oggi rappresenta la formula dominante per governare le società occidentali. E per governare, di conseguenza, le singole città. Ecco, appunto: le città.
Gli spazi pubblici (def.) sono proprio quell’enorme elefante di cui nessuno parla o sembra accorgersi. Insomma, la domanda e l’offerta si incontrano, ma dove?
Sotto casa nostra, nella piazza del paese e nelle strade delle città. È questo il terzo elemento necessario di quell’organizzazione sociale che permette all’aperitivo di essere quello che è: appunto guilty pleasure per molti (benché non per tutti).
Ora sommate uno con l’altro “spazio pubblico” e “aperitivo” e quello che otterrete è: “dehors”. Economia della ristorazione più politica urbana uguale (tra le altre cose) regolazione e concessione dei dehors. Eccolo qui un lato del prisma cibo/politica spesso messo tra parentesi o dimenticato all’ombra delle questioni di geopolitica internazionale.
Tavolini fuori o no? Per chi? Perché? Come si decide? Chi lo decide? Chi decide dove e come possiamo o dobbiamo fare l’aperitivo? E soprattutto: quali effetti sociali comporta ricoprire gli spazi pubblici di una città di tavolini e sedie dei locali commerciali? E, of course, quali effetti comporta non farlo?
Eccoci qui: cibo e politica.
Mentre scrivo queste righe, all’indomani dalle settimane più impegnative dell’emergenza Covid, il Comune di Genova ha deliberato per una concessione gratuita di spazi esterni per la somministrazione per gli operatori economici del settore. Il mercato della ristorazione è, obiettivamente, in crisi, la decisione politica appare, quindi, dovuta e peraltro trova consenso sia nella filiera di produzione (cioè chi prepara gli aperitivi) sia nel campo dei consumi (cioè chi, come me, quegli aperitivi se li gode). La regolazione pubblica del mercato, quindi, è da manuale (Come fare domanda per i dehors). Chiaro? Chiaro.
Ok, ma l’elefante? L’elefante non parla, non può parlare: lo spazio pubblico non ha una voce (o, per essere precisi, non ha una voce paragonabile alle prime due). Chissà, se potesse farlo, se potesse avere voce, forse si chiederebbe: ma oltre a concedere gratuitamente spazi pubblici, è prevista una politica dei dehors?
E, sempre l’elefante, peraltro genovese, forse direbbe: ma poi concessione gratis in che senso, scusi? No, perché quando è gratis mi han detto di non fidarmi, sa… va a finire che non è gratis davvero, ma c’è qualcun altro che paga senza saperlo. E, infine, si domanderebbe: ma non è che forse possiamo usare questa occasione per ripensare davvero una politica dei dehors, cominciando intanto a chiamarla così: una questione politica, dal momento che ha conseguenze sullo spazio pubblico? Chiedo sempre per l’amico elefante, ci mancherebbe.
Non so, sono temi complessi, come lo sono sempre quelli che intrecciano politica e cibo. Con la differenza che se si parla di geopolitica e sostenibilità mondiali è, tutto sommato, abbastanza facile trovarsi d’accordo sul voler salvare il pianeta (il Post: ambientalismo e capitalismo non vanno d’accordo). Ma se, invece, vengono a togliermi da sotto il naso il gin tonic, in una serata estiva, sul mare, al tramonto, mentre si è appena alzato il vento… bah, in culo all’elefante!
Immagine di copertina:
Arno Niesner
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Articolo che tratta di questioni complesse in forma leggera. Onestamente mi sento di dire che, terminata la lettura, per quanto mi riguarda, mi sono chiesto se sia veramente una questione complessa e se tratti un argomento di stretto interesse pubblico. Mi perdonerà, ma a mio giudizio tutta l’analisi è un pò condizionata da un bias di fondo e cioè la dichiarata passione dell’autore per l’aperitivo. È un pò come commentare una partita di calcio da tifoso di una delle due squadre. Quanto alla complessità dell’argomento direi che si debba partire dall’importanza dell’argomento , perchè può essere complesso trattare anche di questioni di secondaria se non infima importanza; la complessità non eleva il livello di importanza dell’argomento. In questo periodo di pandemia la forzata concessione di spazi pubblici , in una città già avara di spazi come Genova, ha incontrato il favore di chi ama consumare all’aperto, e non solo gli aperitivi. C’è poi da distinguere lo spazio aperto sul lungomare o in spiaggia , al tramonto, con la brezza , e quello nel centro città esposto allo smog e ad altri indesiderati imprevisti. Scrivendo come uno che non è un fequentatore di locali pubblici, devo dire che seduti ad un tavolo all’aperto si può godere del sole, dell’aria fresca ( e del vento?) , ma si è anche esposti anche a quanto dall’aria , dall’alto e dal vento possono arrivare ed è facile immaginare quali possano essere gli intrusi sgraditi. Quanto alla gente intorno direi che è questione di gusti, a me personalmente prendere l’aperitivo , o peggio ancora, mangiare con la gente che mi passa accanto è una esperienza che preferisco decisamente evitare. Sono convinto che molta gente preferisca consumare in un ambiente più rispettoso della privacy e dell’intimità. Ricordo un articolo letto anni fa su Starbucks in cui si diceva che l’ideatore aveva preso l’ispirazione durante un viaggio in Italia in cui era rimasto colpito dall’atmosfera dei bar italiani. Ricordo ancora la dichiarazione di un frequentatore di Starbucks che si portava dietro il suo laptop , per combinare col lavoro, e che aveva detto che li piaceva l’ambiente, l’atmosfera del locale in quanto gli dava la sensazione di essere solo, ma in mezzo alla gente. Concludendo, devo dire che alla fine dell’articolo mi sono chiesto dove l’autore abbia riscontrato questa esigenza dei dehors , nella popolazione? Oppure è un pò come per me che soffro, da appassionato di rugby, perchè a questo sport non è dedicata la dovuta attenzione, ma ben sapendo che ciò accade perchè il rugby non riscuote il favore del pubblico italiano? Devo infine osservare che nell’articolo si è continuamente parlato della complessità della questione dei dehors, ma devo confessare di non essere riuscito a capire i termini di questa complessità e tanto meno le possibili soluzioni. In conclusione , però, devo dire che ho letto con piacere l’articolo perchè mi è parso di avere davanti agli occhi l’autore, seduto a un tavolino a godersi il suo gin tonic in gradita compagnia. Un articolo quasi più da scrittore che da sociologo.
[…] Dice: facile criticare e porre questioni, ma cosa vorrebbe dire tutto questo, concretamente? Mi sembra giusto, quindi ecco qui. Avanzerei, timidamente e con sincera curiosità, una piccola proposta. E se dedicassimo una cabina di regia – di questi tempi la chiamano task force – a questo obiettivo? Se si potesse cominciare a pensare in che modo gli investimenti economici possano essere non solo capaci di generare valore aggiunto per gli investitori e occupazione ma anche, per esempio, essere capaci, innanzi tutto, di spegnere l’incendio dei “mercatini abusivi”? Se si potesse individuare nei mondi della cultura – o in quelle parti interessate a questo – risorse e intelligenze per trasformare e pensare in altri termini la questione politica del “decoro” urbano? […]