La prima volta che ho preso in mano Campo di battaglia. Le lotte dei corpi femminili (Effequ, 2021) non conoscevo ancora lo straordinario lavoro di Carolina Capria, che include la scrittura di sceneggiature e molti libri dedicati allɜ più giovani, oltre che la cura, nel senso pieno del termine, di una comunicazione social che dell’attivismo e della sorellanza mostra uno dei lati più umani e belli (@lhascrittounafemmina).
Sin dalle prime parole, il suo libro mi giungeva come un messaggio da un universo che sapevo mio, come se mi stessero scrivendo da casa per dirmi che non sono mai stata sola.
Il testo affronta infatti l’essere corpo di donna nella nostra società: le narrazioni che provano a scriverne la storia e più spesso che ne orientano il benessere, nonché i meccanismi di potere che lo alienano da chi quel corpo è eppure non lo può essere, almeno non senza il consenso della società tutta, secondo un’ingiunzione impossibile, perché la corporeità femminile reca sempre al suo nucleo l’errore di biblica memoria, l’inferiorità cui tutta la tradizione occidentale ha provato a ricondurla, e pertanto non è mai abbastanza per poter essere perdonato, figuriamoci amato, dal mondo umano che lo circonda.
Per questo il corpo della donna è luogo di una battaglia, la lotta strenua di chi lo incarna per poter esistere secondo le proprie modalità, in equilibrio sugli imperativi contrapposti (compreso quello d’essere una perfetta femminista: Lìberati dellə bravə femministə), alla ricerca di un baricentro autentico, intimo, proprio.
Raccontare di questa guerra è una sfida che Capria raccoglie con la limpidezza caratteristica della sua voce, la ferma leggerezza del suo dire che non si nasconde dietro nulla, la potenza di un’onestà che risolleva la testa di noi tutte. Tendendo a tutte una mano, per stringere forte.
È perciò con un’emozione e una gratitudine molto profonde che mi sono confrontata con lei su alcuni aspetti del suo impegno, a partire proprio da questo testo che martedì 22 marzo sarà presentato insieme a Capria e ad Alice Merlo, altra sorella in prima linea per l’autodeterminazione dei corpi femminili, presso il RainbowLab (vico Gibello 17r), sede del LiguriaPride, in un incontro organizzato da Bookmorning.
Selena: La prima domanda che vorrei farti suona scontata per chi abbia letto il libro, ma permette a chi non lo avesse fatto di ricollocarlo nel giusto orizzonte: perché partire dal corpo?
Carolina Capria: Il corpo femminile è da sempre al centro di battaglie che le donne spesso sono costrette a combattere loro malgrado. Battaglie per l’autodeterminazione, per la libertà di scelta, per rivendicare la possibilità di esistere come persone e non come oggetti sempre nella disposizione di uno sguardo esterno.
Ma anche lotte per prendere spazio, per andarcene in giro liberamente, per vivere con spensieratezza le strade e gli spazi pubblici. Tutto questo ci riguarda a prescindere dalla nostra consapevolezza, il nostro corpo è inserito in un contesto sociale che ne stabilisce i limiti di azione e detta le regole per essere accettate.
Ed è per questo che secondo me il femminismo non può smettere di parlare di corpo e, anzi, deve farlo sempre di più.
S: In che modo la battaglia sul corpo femminile può trasformarsi in lotta dello stesso corpo, cioè come si può provare a combattere contro narrazioni che ci appropriano restando fedeli a se stesse?
C: È un lavoro duro quello di scoperta del sé in un mondo che ti dice come devi essere dall’esatto momento in cui nasci (pensiamo ai fiocchi, ai vestitini e ai giocattoli tassativamente rosa e celesti, per indicare già da subito la via da seguire), ma questo non lo rende impossibile.
Scoprire cosa ci piace, come amiamo sentirci, anche che aspetto del nostro carattere meriti di essere valorizzato, cominciando a renderci conto che non è solo il nostro corpo a necessitare di cure e attenzioni, ecco, queste sono tutte attività che richiedono tempo e fatica (e anche dolore, talvolta), ma che vanno portate avanti nella ricerca di un’autenticità che sia nostra e solo nostra.
S: Esiste un rischio nel muovere dal corpo femminile che è quello di definire così precisamente questa appartenenza da chiudersi a esperienze di corporeità meno identificate: come fare a mantenere il discorso sulla corporeità inclusivo e intersezionale?
C: In questo libro parlo molto di me (non esclusivamente, ma molto). E io sono una donna etero, cisgender, abile, bianca, con un corpo conforme. Le esperienze che racconto sono le mie, e sono frutto di questi privilegi.
Questo è bene dirlo, perché è fondamentale ribadire l’insita parzialità di un punto di vista.
Detto ciò, il mio è uno sguardo che cerca di aprirsi il più possibile per comprendere le esperienze di tutti quei corpi femminili che non sono il mio e non somigliano al mio e che al pari del mio hanno una storia che entra in questo discorso.
S: Nelle pagine del tuo lavoro prende corpo il tuo stesso corpo, le sue esperienze, la tua ricerca inesausta di equilibri e baricentri: quanto la scrittura e la riflessione che l’accompagna sono (state) parte di questo percorso?
C: Moltissimo. Non me ne sono accorta mentre succedeva, ma quando ormai il lavoro era terminato. Ho riportato in luce moltissimi episodi che erano sepolti nella memoria e a cui magari non avevo dato nemmeno tanta importanza.
L’idea era quella di guardare alla mia storia (e quindi esortare anche le lettrici e i lettori a farlo) con occhi nuovi. Comprendendo le ragioni dietro alcune scelte e alcune situazioni. E così è stato.
È un processo anche doloroso, che causa molta rabbia e frustrazione, ma guardare le cose in faccia e dare loro un nome è il primo passo da fare.
Immagine di copertina:
Foto di Bookmorning
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