Annie Ernaux è una scrittrice francese che ha vinto il premio Nobel per la letteratura nel 2022: non la conoscevo prima di allora e, incuriosita dall’eco che ebbe questa nomina, lessi “L’evento”, pubblicato da L’Orma editore nel 2019 nella traduzione di Lorenzo Flabbi.
Finito il primo, ho deciso che avrei voluto leggere tutto ciò che ha scritto Ernaux.
Si tratta infatti di un libro bellissimo, ma soprattutto leggere queste pagine, sapendo che l’autrice ha vinto il Nobel, premio che si attribuisce a chi nel campo della letteratura mondiale “si sia maggiormente distinto per le sue opere in una direzione ideale“, è molto potente, ed è una delle cose che più di tutte ultimamente mi ha fatto sentire che qualcosa sta cambiando, che c’è dello spazio per noi.
La storia de “L’evento” è autobiografica
Ernaux è una studentessa di ventitre anni, che vive in uno studentato a Rouen. È l’ottobre del 1963 e scopre di essere incinta.
Questa gravidanza non è mai, nemmeno per un attimo pensata nella concretezza di un futuro figlio: è un problema, è un imprevisto, è un tradimento del corpo che non si metteva in conto, perché sì, razionalmente si sa, ma mentre faceva l’amore con P., nella camera di lui a Bordeaux la possibilità di rimanere incinta non era un pensiero reale:
”Nell’amore e nel piacere non mi sentivo un corpo intrinsecamente diverso da quello degli uomini”.
E invece ora lo sente tutto, ed è sola con questa consapevolezza. L’aborto è illegale in Francia nel 1963, lo rimarrà fino al 1975, era illegale anche in Italia ai tempi, lo sarà fino al 1978. Non che questo abbia impedito alle donne di abortire, evidentemente.
Il libro è breve e racconta dei passaggi necessari per abortire illegalmente, in un autunno caldo e sempre in giro da sola sull’autobus, a piedi.
C’è la ricerca di un contatto, il tentativo di fare da sola, trovare chi lo fa, cercare i soldi per pagarla. Ci riesce, alla fine, ci viene raccontato nei dettagli, ci sono delle righe che fanno torcere la faccia per il dolore immaginato a leggerle; ed è più o meno lì, leggendo del sangue che scorre, di quel corpo di donna sul tavolo della cucina, nel letto e in bagno, che ci si rende conto di quanto siano potenti quelle parole, e di come quelle parole siano state riconosciute come importanti.
Il libro è breve e racconta anche della solitudine, della vergogna, dell’identità di giovane donna, non adulta, non bambina, non figlia, e come l’evento invade quella condizione di vita, quello spazio e quel tempo.
Racconta di come la società vuole che quella gravidanza rappresenti per lei, e per tutte, il fallimento, la punizione da espiare, da sola, sentendoti in colpa, per il sesso, per la tua età, per la tua allegria, per i tuoi progetti.
“Passavo dall’incredulità che tutto ciò mi stesse davvero accadendo alla certezza che, prima o poi, mi sarebbe per forza dovuto accadere. Qualcosa che mi aspettava dalla prima volta che avevo goduto sotto le lenzuola, a quattordici anni, senza, in seguito – e malgrado le preghiere alla Madonna e ad altre sante – aver più potuto impedirmi di rivivere quell’esperienza, fantasticando quasi sempre di essere una puttana […]. Stabilivo confusamente un legame tra la mia classe sociale d’origine e quello che mi stava succedendo. Prima di fare studi superiori in una famiglia di operai e piccoli commercianti, ero scampata alla fabbrica e al bancone. Ma né il diploma né tutti gli esami dati a lettere erano riusciti a ostacolare la fatale trasmissione di una miseria di cui la ragazza incinta era, alla stregua dell’alcolizzato, l’emblema. Mi ero fatta fregare dall’ultimo degli ardori, e ciò che cresceva in me era, in un certo senso, il fallimento sociale”.
Potente, eh?
Oggi, qui, certo l’aborto è legale e sicuro e gratuito, ma tutto quel senso di colpa, quel controllo, c’è eccome, nelle assurde percentuali di obiettori, nei soldi tolti agli spazi pubblici di cura della salute, nelle lezioni di educazione sessuale in cui si parla solo di pericolo e mai di bellezza, nelle farneticanti dichiarazioni dei ministri sulla natalità, nel vuoto di cura.
Risuonano molte parole, tra la storia di Ernaux e la nostra, quelle che dicono la vergogna ma anche quelle che dicono la lotta e la consapevolezza e la strada da fare insieme.
Perché questo libro è così bello
Verso la fine del volume c’è una sintesi bellissima del perché questo libro è così bello e del senso di raccontare storie nuove, dare spazio a storie sincere e dirette e con così tanto da dire, del senso di ascoltarle e di lasciarsi abitare da esse.
“Ho finito di mettere in parole quella che mi pare un’esperienza umana totale, della vita e della morte, del tempo, della morale e del divieto, della legge, un’esperienza vissuta dall’inizio alla fine attraverso il corpo. Ho cancellato l’unico senso di colpa che abbia mai provato a proposito di questo evento, che sia successo e non ne abbia fatto nulla. Come un dono ricevuto e sprecato. Perché al di là di tutte le ragioni sociali e psicologiche che posso trovare per quanto ho vissuto, ce n’è una di cui sono sicura più di tutte le altre: le cose mi sono accadute perché potessi renderne conto. E forse il vero scopo della mia vita è soltanto questo: che il mio corpo, le mie sensazioni e i miei pensieri diventino scrittura, qualcosa di intelligibile e di generale, la mia esistenza completamente disciolta nella testa e nella vita degli altri”.
Che bellezza pensare a Annie Ernaux che cammina da sola per Rouen, e alle nostre storie, con i nostri corpi, paure, ingiustizie, diritti, completamente disciolte le une nelle altre.
Immagine di copertina:
Grafica wall:out magazine su foto di Emanuela F.
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