Una monumentale scalinata bianca. Sdraiati sui suoi gradoni, danzatrici e danzatori fasciati da tutine color carne. In cima allo scalone, la Nike di Samotracia. Davanti ad essa, vestiti di bianco, Beyoncé e Jay Z.
Era il giugno 2018 quando la coppia The Carters fece uscire il video musicale della loro hit Apesh*t, interamente girato al Louvre di Parigi. Nel filmato, inquadrature di dettagli di quadri emblematici del museo francese si alternano a scene in cui i due artisti americani ballano e cantano in sale deserte.
Manco a dirlo, nel giro di nove giorni, il video raggiunse 67 milioni di visualizzazioni. Certamente, il calibro degli artisti e la rinomanza dell’ambientazione hanno determinato il successo di questo prodotto. Tuttavia, è importante sottolineare che questo non è stato né il primo né l’ultimo video musicale girato in un museo.
Alcuni esempi
Vi ricordate l’iconico video di Hey Boy, Hey Girl dei Chemical Brothers, anno 1999? Quello dove la pista da ballo di un famoso club londinese si popola di scheletri? Beh, forse vi sarà sfuggito questo dettaglio, ma alcune delle scene sono state girate proprio nel Museo di Storia Naturale di Londra.
Vi sono anche esempi nostrani: il video di Marco Mengoni a Palazzo Madama, quello di Mahmood al Museo Egizio di Torino e quello di Ghali al Museo del Risorgimento Italiano.
Non manca neppure un esempio genovese. Anche il nostro Museo di Storia Naturale Giacomo Doria ha aperto le sue porte e ospitato le riprese del video della ex concorrente di X- Factor, Giorgia Bertolani, in arte Joey Funboy.
I video citati costituiscono esempi di una pratica che sembra iniziare a prendere campo, ma soprattutto generanoalcune domande.
Cosa spinge un cantante a voler girare il proprio videoclip in un museo? E perché un museo decide di accettare tale proposta? Si tratta solamente di un modo per ottenere più risorse o dietro questa scelta si celano fondate motivazioni ideologiche?
Cerchiamo di rispondere analizzando alcuni di questi esempi. Al tempo stesso, teniamo presente che questo è un fenomeno relativamente poco diffuso e non ancora sistematizzato. La sua discussione può solo offrire spunti di riflessione e non pretende in alcun modo di giungere a conclusioni definitive.
Partiamo da Beyoncé
Le ragioni che hanno spinto i Carters a girare il loro video al Louvre sono duplici. Da una parte, la coppia è molto legata al museo. Questo loro interesse è dimostrato dalle quattro visite in soli dieci anni, come riporta la rivista Vulture.
La seconda motivazione è più artistico-politica. Nel video, la maggior parte delle opere inquadrate sono di artisti bianchi che ritraggono soggetti bianchi, ad eccezione di Portrait of Black Woman, di Marie-Guillemine Benoist e alcuni personaggi delle Nozze di Cana di Veronese. Questo non dipende da una scelta del regista. È perché in questo consiste la collezione del Louvre (e della maggior parte dei musei occidentali).
I coniugi Carter, quindi, ponendosi al centro del museo, si auto-candidano come eccellenze nere che non solo richiedono il loro meritato posto nella hall of fame, ma se lo prendono, impossessandosi del Louvre. D’altra parte, il gesto di affittare il noto museo per girare il proprio video, considerando che la tariffa giornaliera per chiudere il Louvre ammonta a $ 17.500, non è esso stesso un chiaro segnale di potere, ricchezza e raggiungimento di status quo?
Quindi quando Beyoncé balla al museo vuole celebrare il suo legame con il Louvre, ma al tempo stesso autocelebrarsi (I can’t believe we made it, canta la popstar seduta su un canapè al centro di una sala vuota e a sua completa disposizione) e portare avanti una rivendicazione razziale.
La comunità nera è stata esclusa per secoli dal mondo dell’arte? Beh, sai che c’è, ora ce la riprendiamo.
Naturalmente questa critica alla secolare discriminazione artistica è piuttosto velata. Beyoncé non sta suggerendo di mettere a ferro e fuoco tutti i musei occidentali e cambiare la storia dell’arte. Se fosse stato così, viene spontaneo chiedersi cosa avrebbe risposto il Louvre.
Perché proprio in questo scambio, il museo francese sembra essere la controparte che ne ha beneficiato maggiormente. La lungimiranza di aprire le porte alla diva e di massimizzare questa opportunità creando addirittura percorsi ad hoc ispirati al video musicale ha ripagato eccome il Louvre.
Il 2018 ha visto un incremento del 25% dei visitatori rispetto il 2017 e secondo fonti autorevoli un fattore determinante in questa crescita è stato il video. Inoltre, è interessante notare che ben il 50% di questi ingressi erano visitatori under 30.
Ma passiamo ai casi italiani
Se nell’esempio franco-americano gli artisti utilizzano la piattaforma museale per esprimere un messaggio autocelebrativo che si contrappone indirettamente al museo stesso, nel caso di Mahmood il messaggio dell’artistasposa perfettamente la missione museale. In un’intervista a proposito del video, il rapper milanese esprime una vera e propria dichiarazione d’amore per i musei, che considera protettori del nostro patrimonio culturale.
“L’oro non è nei beni materiali, ma nel patrimonio di cultura che costituisce la nostra origine” afferma Mahmood. E quando gli viene chiesto come mai la sua generazione non va al museo risponde candidamente: perché manca l’abitudine. (Corriere della Sera)
Anche il direttore del Museo del Risorgimento Italiano si dichiara a favore a tali iniziative.
“Ci fa davvero piacere che il nostro Museo particolarmente attento al pubblico giovanile abbia accolto un artista sensibile e impegnato come Ghali. Un incontro che può solo arricchire chi si lascerà incuriosire e attrarre dal messaggio che ne deriva: non esiste la separazione tra cultura alta e cultura bassa. Esistono diverse forme di espressione che possono e devono dialogare tra loro”. (Quotidiano Piemontese)
Dall’affermazione di Ferruccio Martinotti emergono due questioni centrali: l’attenzione verso potenziali sviluppi creativi generati dall’incontro di diverse arti, dei quali i musei potrebbero farsi promotori, ma soprattutto il costante tentativo dei musei di avvicinare e avvicinarsi a un pubblico giovane.
Certo, per avere conferma dell’efficacia di questo abbinamento anche in un contesto italiano, si deve aspettare l’anno prossimo per conoscere il bilancio dei visitatori del 2020 – considerando ovviamente le chiusure dovute alla pandemia.
Da questo quadro appare evidente che il connubio video musicale – museo offre grandi potenzialità per gli istituti culturali.
Dal punto di vista più materiale, può portare introiti, come nell’eclatante caso del Louvre. Allo stesso tempo, e forse questo è il punto cruciale, colloca i musei sotto i riflettori della stampa e dell’opinione pubblica, generando dibattiti intorno ad essi. (Leggi l’articolo di wall:out La ferragnizzazione della cultura. Pesto, Botticelli e altre cose sacre)
Dibattiti che si possono, e forse si devono, trasformare in auto riflessione. I musei in questo modo sono portati a riconsiderare i loro punti deboli e a rivedere la loro missione. Sono portati a cambiare il loro rapporto con i diversi pubblici, siano questi quello giovane, quello nero, quello disabile e così via. Sono stimolati a rendere la loro collezione più inclusiva, a instaurare un dialogo attivo e a lasciare ai visitatori la possibilità di esprimersi e raccontare il loro museo, un po’ come hanno fatto Beyoncé e Mahmood.
Dunque, alla domanda provocatoria di Dr Oonagh Murphy Can Beyoncé save Art History?
Possiamo rispondere: yes, she might.
Immagine di copertina:
Screenshot dal video APES**T – THE CARTERS su YouTube
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