Il rapporto tra femminismo e bellezza è sempre stato complesso. La ragione però non risiede nel pregiudizio che vuole qualsiasi persona, ma soprattutto qualsiasi donna, impegnata, socialmente, politicamente, intellettualmente, come sgradevole d’aspetto o quanto meno a esso del tutto disinteressata.
Questo è piuttosto un sintomo, evidente, di una condizione che è invece difficile da riconoscere: la bellezza non è un attributo descrittivo, qualcosa che semplicemente si constata, ma ha un valore normativo, cioè si impone come norma, e pertanto ha una forza politica.
Per comprendere questa dinamica basti pensare a quanto il canone di ciò che può dirsi bello abbia subito e subisca variazioni significative non appena si sposti il focus dalle coordinate spazio-temporali in cui viviamo e che, tanto per ricordarlo, non sono assolute. In epoche passate la bellezza includeva altre caratteristiche rispetto alle attuali.. Lo stesso cambiamento si può notare se ci muoviamo tra latitudini, culture, etnie, comunità.
Lungi dall’essere un riferimento rigido e imperituro, il bello cambia volto a seconda dell’angolo visuale che adottiamo. O, meglio, il bello fa cambiare volto e corpo tutto a qualsiasi persona si riferisca come una norma. Soprattutto, ma non solo a qualsiasi donna.
Mancanza di scelta
“Il vero problema non ha niente a che fare con il fatto che le donne si trucchino oppure no, che ingrassino o dimagriscano, che si sottopongano a interventi di chirurgia estetica o ne facciano a meno, che si vestano bene o malamente, che trasformino in un’opera d’arte il loro abbigliamento, il loro viso e il loro corpo o che trascurino ogni tipo di ornamento. Il vero problema è la nostra mancanza di scelta”
In questo modo limpido e lapidario Nancy Wolf descriveva il funzionamento di quello che ha efficacemente chiamato Il mito della bellezza, rieditato da Tlon pochi mesi fa nella traduzione di Marisa Castino Bado.
Il suo lavoro risale al 1990, ma resta uno dei capisaldi della saggistica sul tema. Quello della sistematica oppressione femminile da parte del patriarcato eterocisbiancoabilenormato.
Il funzionamento di questa limitazione della libertà è sufficientemente subdolo da essere introiettato, ma non per questo meno forte, anzi proprio per questo capace di nutrire una fitta rete di interessi che proliferano nel sacrificio, economico, mentale, politico, culturale, fisico, della donna che è costretta a inseguire la bellezza.
Priva di qualsiasi intento vittimistico, Wolf offre anche chiari strumenti per riappropriarsi della propria corporeità, del proprio desiderio e della propria bellezza, invitandoci a essere:
“sfrontate e avide. Inseguire il piacere. Evitare il dolore. Indossare, toccare, mangiare e bere quello che ci fa piacere. Tollerare le scelte delle altre donne. Ricercare il sesso che vogliamo e combattere furiosamente contro quello che non vogliamo. Scegliere le nostre cause. E quando avremo infranto e cambiato le regole in modo che non venga scosso il nostro senso della nostra bellezza, la sventoleremo e ci crogioleremo in essa”.
Riappropriazione della bellezza
Con una magnifica illustrazione di copertina di Elisa Seitzinger, la nuova edizione del Mito è accompagnata da una opportuna prefazione, ricontestualizzante, di Maura Gancitano e Jennifer Guerra.
Entrambe hanno saputo pensare la questione della corporeità sotto prospettive preziose per il femminismo ed è proprio in questa dimensione di lavoro che si colloca il saggio di Gancitano sulla bellezza, una prigione nel sottotitolo di Specchio delle mie brame, edito da Einaudi sempre lo scorso anno, ancora con illustrazione di copertina di Elisa Seiztinger.
Nello stile di scrittura fruibile ma non per questo meno denso che la caratterizza, la filosofa ci conduce attraverso alcune questioni, storiche e individuali, che hanno articolato il dominio della bellezza come norma sul corpo femminile e non solo.
L’estensione dell’analisi di Gancitano all’epoca contemporanea le permette infatti di sviluppare considerazioni di carattere trasversale sugli effetti limitanti, alienanti e oggettivanti di questo imperativo nella vita di ogni persona. Cambiano tuttavia le modalità di emancipazione, lotta e, è proprio qui il caso di dirlo, consapevolezza. Quello che le pagine autobiografiche nella loro onestà e le riflessioni dell’autrice nella loro lucidità evidenziano è infatti come il meccanismo di eversione da questa logica non possa ma nemmeno debba essere il rifiuto, bensì la riappropriazione, della bellezza “come nutrimento essenziale dell’essere umano, […] esperienza dell’alterità e della relazione”.
Certo, accettare la portata di questa dinamica non è necessariamente semplice.
E non per disonestà intellettuale, ma per cecità di fronte al proprio privilegio. Quella stessa ottusità che permette di porre dei confini alla vita corporea altrui, articolando giudizi più o meno paternalistici, più o meno rigorosi. La dimensione che forse meglio di tutte spiega come culturalmente agisca indisturbata una forma pervicace di mito della bellezza, leggi di dominio sui corpi, è quella della grassofobia.
È infatti spesso di fronte a un corpo grasso che la società tutta, credendosi abbastanza evoluta per aver tollerato le rughe di qualche bianca abile conformissima attrice d’altri tempi o aver applaudito alla cellulite a malapena visibile dell’ennesima influencer-verità, si sente in dovere di richiamare all’ordine morale e fisiologico la corporeità delle altre persone. Dimenticando le persone stesse.
Tecniche per ribellarsi a un mondo grassofobico
A chiarire le articolazioni di questa forma di violenza costante, a mostrarne i pericoli concreti e a smantellarne le convinzioni, sono Chiara Meloni e Mara Mibelli, note per il loro lavoro sui social come Belle di faccia, che nell’omonimo testo edito da Mondadori, condividono, come suggerisce il sottotitolo, tecniche per ribellarsi a un mondo grassofobico.
Costellato di illustrazioni pazzesche della stessa Meloni e introdotto dalle parole di Irene Facheris, il discorso onesto, ironico e documentato orienta 3 lettor3 in un universo che possono aver interiorizzato e/o subìto ma che non per questo non può essere smantellato. Come scrivono le due autrici, non per giungere all’obiettivo di amarci, così come come siamo, bensì per liberarci:
“Che siate persone conformi o non conformi allo standard, liberatevi dal pregiudizio nei confronti dei corpi grassi, dal disprezzo, dalla commiserazione, perché è roba tossica che oltre a discriminare le persone grasse fa male a tuttə, crea ansie in tuttə”.
La bellezza non è estetica
È ancora una volta Tlon a permetterci di approfondire la dimensione storica del fenomeno con un testo fondamentale come Fat shame. Lo stigma del corpo grasso di Amy Erdman Farrell, nella traduzione di Dorotea Theodoli.
Ancora con una illustrazione di copertina di Chiara Meloni e le sue parole insieme a quelle di Mibelli per introdurre il lavoro della studiosa, il testo ricostruisce le dinamiche che hanno portato alla costruzione sociale di una vera e propria riprovazione morale nei confronti della grassezza.
L’accuratezza delle analisi e dei riferimenti articolano inoltre una prospettiva radicalmente intersezionale, che evidenzia l’uso degli standard corporei come arma politica di ulteriore marginalizzazione:
“Rafforzando l’idea pericolosa del “corpo civilizzato”, la denigrazione dei grassi si unisce ed esacerba il razzismo, il sessismo, il classismo e l’omofobia, e tutti gli altri mezzi con cui la nostra cultura classifica e opprime le persone in base agli attributi corporei e alla posizione sociale”.
Qualcosa che non ha niente a che vedere con la salute, come la bellezza non ha nulla a che fare con l’estetica, ma che invece, per entrambe, è solo disciplinamento, controllo, oppressione.
Disclaimer: queste non sono recensioni a pagamento, sono consigli su ciò che credo valga davvero la pena leggere. Se potete, acquistate i vostri libri dalle librerie indipendenti o dai siti delle case editrici: è un’occasione importante per riconoscere il valore del loro lavoro. |
Immagine di copertina:
Illustrazione di Martina Spanu
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