Overshoot Day

Overshoot day, cambiamenti climatici e autodistruzione: ricetta per un cocktail di positività

Nel 2020 la terra ha esaurito le sue risorse annuali il 22 agosto. L’Overshoot Day ogni anno arriva in anticipo, segnalando ancora una volta quanto la nostra società si stia irrimediabilmente spingendo verso un punto di non ritorno.
16 Settembre 2020
4 min
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Nel 2020 la terra ha esaurito le sue risorse annuali il 22 agosto. Overshoot day. Questo significa che nei prossimi mesi tutte le risorse che sfrutteremo andranno ad aumentare il debito nei confronti delle generazioni future, nonché delle popolazioni più povere.

<< Lo sviluppo sostenibile è quello sviluppo che consente alla generazione presente di soddisfare i propri bisogni senza compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare i propri >>

Questa definizione del concetto di sostenibilità venne per la prima volta introdotta nel 1987 da Gro Harlem Brundtland, coordinatrice della Commissione mondiale sull’ambiente e lo sviluppo (WCED). Sono passati più di trent’anni da quel momento. Nel frattempo, abbiamo fatto in tempo a vedere la fine della Guerra Fredda, il susseguirsi di ben nove legislature, il successo e il declino dei Back Street Boys e un aumento della temperatura terrestre a dir poco allarmante.

Secondo il centro di ricerca sul cambiamento climatico della NASA, la temperatura media terrestre è cresciuta in maniera quasi costante nel corso del XIX secolo. Se nel 1987 l’aumento rispetto alla seconda metà degli anni ’70, era di 0.3 °C, nel 2019 si è arrivati ad un aumento di 0.99°C 1.

Le conseguenze di tutto questo sono catastrofiche. Eppure, sembra che interrompere questo ciclo sia impossibile e accumulazione e produzione continuano imperterrite ad essere il faro di questo sistema capitalistico destinato inevitabilmente ad implodere. 

Il fatto che la specie umana abbia un qualche istinto suicida non è una novità

Una delle teorie che spiega la fine della popolazione dei Rapa Nui – gli abitanti dell’isola di Pasqua – è quella dell’ecocidio. Gli abitanti avrebbero sfruttato le risorse dell’isola in maniera talmente intensa da determinare la loro stessa rovina. La progressiva deforestazione e il successivo aumento dell’erosione del suolo avrebbero favorito l’esaurimento delle risorse fino a portare al collasso della società.

La comunità scientifica non sembra essere completamente d’accordo con questa teoria, tuttavia mi sembra uno scenario piuttosto familiare e credibile per quanto riguarda il nostro presente e futuro.

Contemporaneamente, scienziati, ambientalisti e organizzazioni internazionali sembrano concordare sull’urgenza della catastrofe climatica già in corso. A partire dalla fine del XVIII secolo, insieme alla popolazione sono cresciuti in maniera esponenziale anche il Pil, il trasporto di merci, il consumo, il turismo e le grandi costruzioni. Allo stesso tempo, sono aumentante anche le disuguaglianze sociali in un ciclo alternato e continuo di produzione, accumulazione e sfruttamento.

Le vicende amare della famiglia Joad, raccontate in Furore di Steinbeck sembrano non essere mai terminate. Partiti a inizio ‘900 verso la California alla ricerca di lavoro, sembra abbiano continuato imperterriti a viaggiare a bordo del loro gigantesco camion per approdare nel 2020 nelle campagne dell’Agro Pontino, in un contesto di ingiustizie sociali e sfruttamento che completamente invariato. 

Lo scenario attuale, insomma, è veramente catastrofico

Tra i dieci parametri ambientali, individuati dal programma internazionale Geosferabiosfera per monitorare l’andamento del cambiamento climatico, in ben quattro ambiti i limiti sono già stati oltrepassati: erosione del suolo, ciclo dell’azoto, riduzione della biodiversità e concentrazione di gas serra.

Le conseguenze di questi cambiamenti sono già in atto. Un articolo del Guardian ha descritto uno dei peggiori scenari possibili per il breve futuro del nostro pianeta. Uno scenario in cui, sulla base delle negoziazioni che si sono concluse in occasione della Cop 21, entro la fine del secolo il riscaldamento dovrebbe superare i 3°C, la terra si scalderebbe fino a 3° o 4° gradi in più, e i poli si scioglierebbero provocando un innalzamento dei livelli del mare fino a sei metri.

Niente più serate al Banano o nei vicoli, per dirla in parole povere. Quali sono dunque le possibili soluzioni?

Innanzi tutto, per poter limitare il più possibile i danni, è necessario implementare politiche e pratiche che siano in grado di limitare il riscaldamento climatico sotto la soglia di 1.5°C.

Le strade per raggiungere questo obiettivo sono principalmente due: da un lato la riduzione della produzione e il passaggio a energie rinnovabili e metodi sostenibili, dall’altro l’aumento delle capacità di assorbimento della terra tramite la rigenerazione e protezione di foreste ed ecosistemi in grado di riassorbire le emissioni.

Lo scenario verso cui stiamo realmente andando incontro è quello del tapullo, speriamo cioè che la tecnologia sia in grado di sistemare tutto ed invertire la rotta per permetterci di continuare a mantenere lo stesso stile di vita. Questa possibilità, tuttavia, è estremamente rischiosa, per non dire folle sia dal punto di vista ambientale, sia dal punto di vista sociale.

Le BECCS – i sistemi bioenergetici accoppiati a tecnologia di cattura della CO2 e al suo stoccaggio geologico – sono tra le principali tecnologie ad emissione negativa individuate fino ad ora. Si tratta di sistemi basati sulla coltivazione di biomassa per permettere una rimozione di carbonio dall’atmosfera e una successiva produzione di energia derivante dalla combustione della biomassa. Le criticità legate alle BECCS sono innumerevoli, e in definitiva queste tecnologie sono ben lontane dall’essere sostenibili. 

In primo luogo, nel breve termine l’emissione di CO2 rimarrebbe sostanzialmente invariata, lasciando così alle generazioni successive la responsabilità di eliminare la CO2 accumulata. Nel caso italiano poi, l’adesione a questo modello tecnologico e di sviluppo, implicherebbe l’uso di superfici territoriali estremamente ampie. Lo stesso vale anche per la produzione di biodiesel e bioetanolo che per soddisfare almeno il 10% del consumo di gasolio annuale, dovrebbe sottrarre centinaia di migliaia di ettari al settore agricolo. 

Il problema vero è che sembra che gli sforzi siano più concentrati nell’investire sul tapullo piuttosto che sulla reale cura

La protezione degli ecosistemi naturali, indispensabili a mantenere equilibri fondamentali alla base della nostra catena alimentare, la promozione di uno sviluppo territoriale sostenibile e rispettoso dei bisogni e delle necessità delle popolazioni indigene, sono tutti fattori indispensabili e per i quali, ad ora, non esiste mercato.

E questa è esattamente la nostra condanna. Investiamo in una soluzione solo nel momento in cui può generare crescita.

Da un lato può generare una crescita di guadagni laddove il mercato è più florido ed attrattivo, dall’altro può anche essere finalizzata alla crescita dell’elettorato, motivo per cui personaggi come Bolsonaro e Trump concentrano i loro sforzi sulla totale negazione del cambiamento climatico. 

Guarda un po’, sembra che ancora una volta l’unica soluzione sia il superamento del capitalismo neoliberista a cui tanto siamo affezionati. Senza questo salto e questi cambiamenti, siamo a dir poco spacciati, chi più, chi meno.

Ah, tra l’altro questo cambiamento dovrebbe avvenire in modo drastico, tipo dal giorno alla notte. Ci dovremmo insomma svegliare domani mattina in un mondo in preda ad espropri e redistribuzioni, in cui le industrie più dannose (vedi armamenti) vengono abolite, in cui l’agrobusiness viene completamente eliminato in favore dell’agroecologia contadina e dell’ecoforestazione, e la tutela alla sovranità alimentare diventa una priorità. 

)Comunque zero pressure raga, continuiamo a conservare quella vena ottimista tipica del ventenne che vuole cambiare il mondo e cerchiamo di essere #resilienti che sembra che quest’anno vada di moda. 

(Leggi l’articolo di wall:out Stiamo abusando della parola resilienza? )

Immagine di copertina:
Markus Spiske


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Anima in pena e girovaga. Genovese di nascita e di indole, studia a Bologna Relazioni Internazionali e cerca di sfuggire alla noia mangiando e stando all’aria aperta. E’ nata nell’epoca sbagliata, ascolta solo cantautori morti e adora le carte e le sagre. Scoprire posti nuovi è la cosa che più la entusiasma.

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