Liquidi immobili: in Liguria ci sono settanta miliardi di euro fermi in banca

Liquidi immobili: in Liguria ci sono settanta miliardi di euro fermi in banca

Avviamo una nuova stagione di mecenatismo, ai giovani servono alleati, parola di Giacomo D’Alessandro.
23 Febbraio 2022
16 min
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Ehi, Edo, ma lo sai che nei conti in banca dei Liguri ci sono 70 miliardi di euro fermi?! No, dico, immobili! Sono liquidi, contante frusciante, ma pietrificato, cristallizzato nei conti! Non è assurdo?!

Me l’ha buttata lì così Giacomo D’Alessandro questo dato emerso 1 anno fa e da cui nulla, assolutamente nulla, è cambiato.

Ne è uscita una lunga ed ampia conversazione – siamo bravi a svarionare, va concesso – su quei settanta miliardi, sul conflitto e/o sulla alleanza tra generazioni oggi, sulla nostra amata-e-odiata Genova, divoratrice di giovani e produttrice di anziani…fino a quando?!

Edoardo: E allora perché non parlarne noi due, Giacomo, di questi settanta miliardi?!

Giacomo: Ma non lo trovi anche tu assurdo? I Liguri, la Liguria, la regione che non è la Lombardia, avrebbero settanta miliardi di Euro -SETTANTA!- fermi nelle banche, immobili lì…

E sappiamo che non sono soldi di giovani che devono mettere su famiglia, non sono risparmi per il futuro. Sono soldi accatastati a nutrire delle banche e le loro attività finanziarie raramente indirizzate con coscienza dal correntista.

Questa cosa ci dice che la pandemia ancora una volta fa emergere criticità che non sono solo di oggi ma del nostro modo di vivere da tanti anni, e che oggi forse paghiamo ancora di più.

E ci dice anche: abbiamo cinquantacinquemila giovani che negli ultimi 5 anni se ne sono andati fuori dalla Liguria perché qui non c’è lavoro, perché qui si può studiare meno, e per altri leciti motivi… E dall’altra abbiamo una fetta crescente di anziani che rimangono qua – diciamolo – a morire soli, perché alla fine è questo che succede. Perché una società di anziani ha molta meno solidarietà, meno supporto, meno servizi e via di seguito su ogni fronte.

E in tutto questo abbiamo 70 miliardi fermi in banche?!? Alla luce di una pandemia!

E: Eh, bravo, ma quindi che proponi? Perché qui servono proposte concrete, mica…

G: Solo a me, che non sono nessuno, che mi muovo un po’ nell’associazionismo, vengono in mente, così di getto, almeno dieci progetti che con 20-30-50 mila euro domani farebbero grandissime cose! Svolterebbero. Progetti intelligenti ed efficaci ma mai messi a sistema, col risultato di perderli nel tempo. O progetti appesi a budget limitati e faticosi, che se avessero qualche professionista in più mostrerebbero la portata del loro impatto.

Il recupero di spazi abbandonati o vuoti, come forti, cascine, caserme, conventi, ambienti dove ripristinare muri a secco e orti urbani, frutteti, giardini… Progetti che tengono insieme valore sociale, ambientale, culturale, economico e comunitario, ce ne sono tanti in embrione che faticano a decollare o a svoltare. Tutti dicono “uh, che bello, che bello”, “servirebbero dei fondi”. E poi abbiamo settanta miliardi fermi.

Ma così come tante start-up giovanili e imprese. Tanti giovani che vivono in famiglia perché trovare una casa decente è impossibile per gli affitti allucinanti. E ci sono settanta miliardi fermi: vuol dire che non c’è minimamente la percezione che è meglio investire che accumulare.

Chiunque avesse più di tot.mila euro fermi in banca potrebbe – dovrebbe – guardarsi intorno e cercare un’Associazione, un Progetto, una nuova Impresa, un Gruppo di Giovani che hanno una bella idea, e buttarci dentro un po’ di soldi che stanno lì a prendere la muffa. Perchè no?

Una persona che oggi ha 70-80 anni, tra dieci anni cosa mai dovrà farci con 1-2 milione di euro che tiene lì fermi? E ora parliamo di soldi, ma questo vale in generale per i patrimoni, gli spazi, le case.

E: Beh, se hai settanta-ottant’anni ci sta anche uno si preoccupi del tramonto della propria vita, della cura di sé, e del lasciare qualcosa ai propri figli, nipoti…

G: Ma certo, nessuno mette in dubbio questo. Ma stiamo parlando di settanta miliardi di euro, non dei risparmi di famiglia, di una seconda casa, del gruzzoletto messo da parte dalla giudiziosa formica in vista dell’inverno. Parliamo di patrimoni enormi…e polverosi, inattivi, che esprimono la sterilità dell’eccesso.

E: Forse dipende anche dal fatto che molti non sanno cosa potrebbero fare di alternativo…? Oppure qualcuno ci pensa ma non ha delle garanzie: “e i miei soldi dove vanno?

G.: Io credo sia infatti una questione di cultura. E mi chiedo: ma quelle agenzie culturali o educative che avrebbero dovuto preparare un altro tipo di cittadini, cosa hanno fatto?

Sentiamo spesso istituzioni, personalità pubbliche, ambienti ecclesiastici e luoghi di formazione, pontificare: “i giovani bisogna aiutarli ad andarsene di casa, a lavorare, a mettere su famiglia, ad avere protagonismo nelle istituzioni…

Giustissimo. Ma poi? Indicazioni concrete io non ne ho mai sentite.

E: Ed io nemmeno.

G: Per esempio, non ci si è mai occupati di sanzionare socialmente la logica dell’ “accumulo – viviamo in difesa”. Hai mai sentito una parola di rimprovero per questo modo di gestire il proprio patrimonio? Eppure su come comportarci e come vivere la nostra vita ne arrivano, eh, di influenze forti e dirette! Su questo però mai nulla.

Ti racconto questa.

Una cara persona, ottantenne, ha avuto due figli. Uno purtroppo si è tolto la vita già in età adulta. L’altra si è trasferita in Inghilterra con tutta la famiglia. L’anziano signore a chi gli faceva visita diceva:

Vedi questa casa signorile, in posizione centralissima, una volta era grande il doppio, poi l’ho fatta dividere in due in modo che qui potessero venire a vivere le famiglie dei miei due figli. Vedi, noi genitori, con che presunzione per anni ci siamo fatti i piani della vita dei nostri figli, mentre il mondo è cambiato completamente…? E oggi sono qui da solo, acciaccato, in una casa mezza vuota e troppo grossa per me, senza i figli vicino, senza nipoti vicino…”.

Mi è sembrata una ammirevole, amara ammissione di coscienza di una persona che rilegge onestamente alcuni approcci alla sua vita, al suo rapporto con i beni e le persone.

Tante volte c’è l’automatismo di “vivere in difesa”, “perché poi potrebbe servirmi, potrei fare, potrebbe capitare che…”, quando invece non leggi la realtà che hai attorno e i richiami che ti fa.

E: Ma questi discorsi non passano in secondo piano con la pandemia e le crisi che ne derivano?

G: Anzi! Proprio in un periodo di emergenza come quello della pandemia, bisognerebbe un po’ tutti leggere meglio la realtà e dire “ma oggi a cosa posso servire io per provare a costruire qualche cosa di più bello?” Peraltro mentre vedi che cinquantamila giovani della tua città sono andati via, a fare dell’altro; oh, forse gli piaceva così, non è sempre una necessità l’emigrazione, ma a volte solo il desiderio e le nuove possibilità di autodeterminare il proprio futuro.

Insomma, qui non stiamo giudicando le persone e le motivazioni personali, ma semplicemente “gridando” che se i fatti raccontano di 70 miliardi fermi in un grande periodi di crisi, forse occorre ragionare un po’ di più nell’ottica del Bene Comune, cioè nella logica, del tutto evangelica anche, secondo cui del bene donato ne beneficiamo tutti, a ricaduta. Io di discorsi così vorrei sentirne di più, da chi ha delle responsabilità.

E: Le tue parole mi suscitano riflessioni amare (e forse ingiuste se riferito a tutti i genitori, ma qui non parliamo dei nostri genitori, lo abbiamo detto!).

E: Questa volontà di conservazione e di disporre oltre la propria morte mi sembra davvero uno spirito incapace di accettare il limite della vita, una prova di sopraffazione, di forza, di presunzione: ostinarsi ad esercitare poteri ultra vires è spirito conservatore.

G: Uno potrebbe tranquillamente obiettare:

Questi soldi li ho fatti io, li accumulo per i miei figli, per quel tale motivo, per quando serviranno o io saprò che servono a uno dei miei cari”.

Come se non potesse esservi l’idea secondo cui “io che faccio i soldi, li rimetto in un circolo virtuoso che pensa ai ‘ragazzi di oggi’ come ‘i miei ragazzi’, cioè nello scambio tra generazioni”. Se io sostengo un’associazione che fa pulizia dei giardini pubblici, dei boschi, dei parchi, anche se mio figlio non ne fa parte, non importa!

Mio figlio magari fa ricerca, studia, lavora su altre cose, e se c’è una cultura virtuosa dell’investimento sociale ci sarà un altro “bravo cristo” che sosterrà lui in quello che fa.

Ci serve una nuova fiducia nelle dinamiche virtuose, nella semina, indurre “la profezia che si autoavvera”.

Liquidi immobili: in Liguria ci sono settanta miliardi di euro fermi in banca
Veduta di Genova nel 1490 circa fonte Wikicommons. Illustrazione modificata da Giacomo Vallarino

E: A me sembra che tutto sia incapacità di accettare i propri limiti.

E: Se non accetto che è mio figlio a disporre della propria vita, che del mondo ne dispongono altri, quando alla fine lascio questa vita – prendiamone atto – e le mie ricchezze non vengono con me, che me ne faccio? Che ho seminato?

G: Infatti, la chiave per tutti noi è recuperare la concezione di Bene Comune; in termini cristiani diremmo una fecondità, cioè essere seminatori (o terreno seminabile da altri) hic et nunc – qui e ora – con le risorse che abbiamo ricevuto o ottenuto, senza dare troppo spazio all’istinto di fare i dominus della nostra vita e di tutte le vite attorno a noi, come se potessimo prevedere tutto e controllare ogni cosa.

Appurato che ormai il mondo cambia non solo velocemente, ma con dei sobbalzi imprevedibili, lo abbiamo visto con la pandemia e lo vedremo sempre più drammaticamente con il climate change.

A quel punto fare tanta autoconservazione perde di senso. La scelta sensata diviene invece cercare di dare il meglio che possiamo per un Bene diffuso, che riguardi i figli, ma non solo i miei figli, i figli di tutti, i figli della Comunità, anche se magari non la percepiamo come Comunità, e se così non è, allora sì che la pagheremo tutti.

Crescere persone più sane, trovare belle idee e sostenerle. Nutrire processi positivi e fecondi.

Ci sono tante età nella vita, in ogni età senti delle mancanze affettive. Quando sei bambino hai bisogno di avere genitori, che di proteggano e ti diano nutrimento e attenzione; quando sei in età da genitore, che tu abbia o no figli, cerchi un legame, un rapporto, un dare e ricevere della cura; quando sei in età da nonno cerchi e desideri dei nipoti, qualcuno a cui trasmettere, da accudire… e quindi perché non cercare delle “persone/realtà da adottare”?

Hai una certa età e ti trovi a disporre di tante, superflue ricchezze? Cerca delle realtà significative a cui trasmettere il testimone, da sostenere, da far crescere e coltivare. Apri strade nel deserto, o meglio dai gambe a chi lo fa e lo vuole fare.

Il senso di essere vivi e di non essere eterni si rinnova anche così.

E: Però non è mica semplice oggi, proprio nel turbinio della infodemia, cioè la circolazione di una quantità eccessiva di informazioni, talvolta non vagliate con accuratezza, che rendono difficile orientarsi su un determinato argomento per la difficoltà di individuare fonti affidabili, tutti andrebbero accompagnati in questa particolare ricerca.

E: Che cosa, allora, può fare la politica?

G: Due cose banali – che forse così banali non sono –: connettere queste due realtà che vivono accanto ma spesso non si conoscono; trovare qualche cavillo economico per incentivare l’utilizzo dei capitali fermi.

Alcune cose passano solo per la cultura, quindi forse occorre anche una grande campagna di sensibilizzazione e informazione su come e dove è possibile redistribuire risorse verso buone iniziative di giovani generazioni. Offrire consulenze gratuite, esempi, buone pratiche, momenti di socializzazione e di incontro.

Parlavi di fiducia. Ne trovo moltissima in Africa, ogni volta che ci vado, e in Sud America, invece ne trovo molta meno qui, dove non ci manca niente, e se anche ci andasse male, dico veramente male, comunque dei servizi sociali, sanitari, legali li avremmo! E invece è diffusa molta più paura.

Mi verrebbe da dire alla gente: “chiudete la tv, smettete di seguire i telegiornali”, perché 5 minuti al giorno di tv dell’odio o tv della paura, ti fanno vivere in difesa, quando non ne hai nessun motivo. E giù a lamentarti del mondo cattivo, quando stai nei primi dieci paesi del mondo sotto ogni profilo. Manca proprio tanto la fiducia. E’ un enorme fallimento del cristianesimo europeo: milioni di persone che non hanno fiducia nella Provvidenza.

Risuona la parabola del tizio che arriva al tempio e lascia le due monete in surplus che gli avanzano, mentre la vedova ci butta i suoi unici due spiccioli, che valgono meno ma sono tutto ciò che ha.

Dagli anni Duemila siamo immersi nella retorica delle crisi finanziarie, economiche, globali, terroristiche. Anche se riferite a fatti reali, queste crisi le abbiamo lasciate prosperare noi con una debolissima cultura che non ha arginato certi sistemi di potere e di controllo. Una cultura debole ti toglie facilmente la fiducia nell’investimento, nel Bene Comune, nel senso di Comunità, nel dare gratuitamente, nel sapere che da qualche altra parte ciò che fai poi ti ritorna, in qualche altra forma.

Il tutto in una città quale è Genova, dove il sociale è malconcio, anche malconcio di competenze e di ambienti di lavoro sociale accoglienti, creativi, entusiasti, e così chi avrebbe competenze spesso fa o deve fare o sceglie di fare altro.

Certo, abbiamo limiti istituzionali, di governance, dei grandi poteri, dei soggetti pubblici e privati, ma anche un limite culturale, perché avremmo delle risorse per decidere un po’ del destino della nostra terra, e invece stiamo abdicando a questo, avvitati su noi stessi.

Liquidi immobili: in Liguria ci sono settanta miliardi di euro fermi in banca
Foto di Josh Appel

E: Frequentando un poco il mondo associativo genovese, mi verrebbe da dire che, a grandi linee, molte cose o le fai come volontariato o non le fai, ma tant’è se non hai soldi…

E: Quella attivazione associazionistica dal basso, di tante e tanti ragazze e ragazzi, giovani, trentenni ventenni ed anche prima, è forse un modo nuovo di vivere la partecipazione e la democrazia, per i giovani di oggi.

È possibile che loro giovani stiano rispondendo così all’accusa del “siete chosy”, “giovani da divano”. E lo stiano facendo, non percorrendo le strade del sindacato, della scuola, dei partiti, i classici “corpi intermedi” si diceva una volta ed ha appena ripetuto il ri-Presidente Mattarella nel suo discorso di insediamento: no, non per queste vie.

Ma su altre strade, eppure prendendo egualmente parte alla democrazia, alla vita partecipata: stanno (e stiamo) partecipando, stanno svolgendo azione politica, si stanno prendendo carico di questioni che riguardano tutti.

Questi «giovani d’oggi» si stanno sì occupando degli spazi pubblici, della casa comune, ma a loro modo. Sono loro i partiti veri di oggi.

G: Tra le deformazioni culturali che abbiamo oggi c’è a volte l’idea che i soldi ce li metto “se i giovani fanno quello che ci interessa a noi!”, se noi esperti della vita validiamo, bolliamo come conforme ciò che si fa.

Invece il senso è proprio l’opposto: una società progredisce anche perché a un certo punto si decide di dare ai più giovani delle risorse e del margine per fare ciò che loro vogliono, ciò che sentono, anche a costo di fare qualche sbaglio o sbavatura. Se non si sperimenta mai, si muore per fossilizzazione quando è troppo tardi per cambiare.

Io mi sono imbattuto spesso in persone di una certa età competenti, intelligenti e qualificate, che stimo, ma che alla fine delle conversazioni su un nuovo progetto concludevano: “però vi dico come dovreste fare queste cose che volete fare”. Eh no!

Se da un lato puoi passarmi una grande esperienza, dall’altro tu che hai settanta-ottanta anni non hai più lo sguardo anagraficamente proiettato sul futuro, per quanto tu abbia cultura, sensibilità, visione, consapevolezza del mondo, non sarà mai il punto di vista sul mondo che ha un trentenne.

A volte penso che bisognerebbe davvero suscitare una nuova stagione di “mecenatismo”, in cui si individuano dei gruppi/personalità che già fanno buone cose e le fanno bene, ma che hanno poche risorse, e si dice loro “bravi, capisco a metà quello che stai facendo, ma intuisco che ha un valore, ora ti do strumenti e risorse, mostra cosa sai fare e vai avanti”, confidando che un simile processo si tradurrà in qualcosa perfino migliore di ciò che tu finanziatore ti aspettavi. 

Questa roba qui da noi non va di moda.

In questa città non c’è niente che non sia in qualche modo gestito da un ultrasessantenne… Dal piccolo festival alla dirigenza, dal comune alla chiesa, alle associazioni.

Che sguardo può avere questa città se è guidata solo da over60? Con che coraggio si parla e si fanno piani sull’enpowerment dei giovani?

Ci servono alleanze tra generazioni, con libertà di manovra per quelle più giovani, e quelle meno giovani e più attrezzate a supporto, come cuscinetto legale, finanziario, burocratico, logistico. Un modo di accompagnare le nuove energie, non di dirigerle.

E: Fammi fare l’avvocato difensore della generazione dei nostri genitori, i boomers:

E: loro alla nostra età uscivano dal mondo dello studio e si trovavano coi dirigenti cinquantenni, e pensavano, sulla logica dei loro genitori, “poi diventerò dirigente a cinquant’anni, tanto a sessanta-settant’anni ci si ritira, o per la pensione o per cause naturali”. Ed allora, per la generazione dei loro genitori, il discorso filava benissimo.

Poi però le cose sono andate diversamente.

Loro sono la prima generazione a trovarsi col tetto di cristallo degli ottantenni che non ci mollano mai. Hanno sì preso in mano la loro vita, ma non sono arrivati a guidarla. E forse allora quando ci arrivano, beh, non ci mollano.

Perché poi oggi vedono anche i nuovi ventenni e trentenni, che hanno studiato più di loro, come hardware, ed hanno anche molte più soft skills. E con ciò voglio dire anche comprendere che il cellulare sia solo un giochino o una stupidata, che mi sembra la introiezione con cui attenui quella che per te è anche una minaccia.

La competizione è sulle soft skills, sminuitissime dai non più giovani. Ma appunto, da avvocato del diavolo, quando hai un posto da dirigente, finalmente, ma quando mai lo dovresti mollare?!

G: Mi capita fin da quando avevo 16-17 anni di collaborare con persone più grandi, a volte anche con 60 anni più di me. Quando nei progetti queste persone vogliono stare troppo ferme o troppo a lungo, le cose cominciano ad ammuffire e il clima fa scappare gli altri.

Nella crescita umana della vita io sono per la logica missionaria: fai 5-8-10 anni in un progetto e poi cambi, lasci spazio, fai altro. Bisognerebbe rendere più fluido questo necessario cambiamento, che fa bene.

Le realtà che si personalizzano, si incancreniscono. 

E: “La cosa più pericolosa da fare è rimanere immobili”, W.S. Burroughs.

E: Avrei allora un altro spunto: quanto però oggi i giovani devono lavorare sette giorni su sette, più di otto ore al giorno, e quindi perdono quel margine di spazio e tempo per impegnarsi nel settore associativo, del volontariato, dell’impegno, perché sono saturi della vita?

Magari hanno sia meno tempo per fare gli stessi guadagni dei propri genitori, sia anche molte più proposte di cose da fare, più interessi possibili da mettere in campo o a cui rispondere.

Quanto allora per forza guidano tutti i sessantenni, un po’ perché sono più esperti, un po’ perché magari sono in pensione e quindi hanno più tempo, e un po’ perchè i giovani non ci sono? Perché se tu Società non mi dai il tempo, io giovane come faccio ad occupare quel posto?!

G: Questa è una bellissima domanda. Un domanda su cui fare focus group con gente della nostra età, ventenni e trentenni, anche più giovani, perché è un tema gigante.

Ho fatto un percorso di vita poco rappresentativo e molto privilegiato, mi sento a disagio a parlare di dinamiche sociali che non ho mai vissuto; ho sempre teso a lavorare quanto necessario in virtù di ridurre i miei bisogni, non di aumentare le mie possibilità; e a regalare tempo ed energie alle cose che mi sembravano davvero significative senza misurazione di cifre, stipendi, sicurezze formali.

I miei parametri di vita non sono ripeto rappresentativi, ma frutto di esperienza e scelte personali.

Nella pluralità di esistenze che c’è oggi rispetto a qualche decennio fa, ci sono anche persone che coltivano orizzonti nuovi su come impiegare la propria vita, sui progetti da realizzare, e hanno slanci disinteressati legati a creatività, progetti artistici, all’ambiente, al sociale. Vivono un bisogno di radicalità, di fare esperienze forti e significative.

A questa fetta di persone bisogna dare le condizioni per lavorare qui, per cambiare la realtà qui, se no questi si muovono fino a trovare altri ambienti per fare le stesse cose, quelle che sentono, solo che non ti coinvolgono più. E come società, come comunità, come città, hai perso dei ganci di cambiamento, di rinnovamento.

E quando coloro che hanno tirato avanti la carretta fino a ottant’anni, scompaiono lasciando il campo libero…chi c’è? Il deserto! Che si riempie degli arrivisti, degli approfittatori, dei ricchi di turno. I conventi vuoti diventano RSA o resort di qualche multinazionale, invece di trasformarsi nella forma (cooperative, associazioni, comunità) ma continuare a fare il loro servizio umano a tutto il territorio.

E: E i grandi spazi pubblici diventano parcheggi dove piazzare la propria auto, sempre meno utilizzata.

E: E gli spazi fruibili anche in maniere innovative diventano invece solo sempre più grandi superfici di vendita, per le cui inaugurazioni ormai si fa la festa più che per il patrono. Ecco l’orizzonte a cui oggi ci stiamo già inconsapevolmente preparando.

Quanto è distante questo scenario da realizzarsi da oggi? Si parla tanto a Genova di silver ecomomy, ok, ma devono continuare ad esserci dei silver in città, e che siano danarosi!

Se no chi mette in moto la silver economy? Diventa transparent economy! Tra venti-trent’anni, i nostri genitori saranno morti e la città sarà piena di … di chi? Ci sarà ancora Genova?!

Devono continuare ad esserci degli anziani perché ci sia una silver economy, anche di costoro servono nuove leve.

G: Bisognerebbe capire se oramai ragionare sul medio-lungo termine sia atto di intelligenza o mero slancio di illusione. Perché probabilmente nei prossimi dieci-venti anni ci arriveranno sul collo questioni immani, vedi la pandemia, la crisi climatica prevista da cinquant’anni ma arrivata molto prima, molto più violentemente e in maniera schizofrenica: oggi una alluvione lì, domani un maremoto là, senza capirci nulla né poterlo prevedere, una crisi alimentare, carestia là e siccità qui… Visto in maniera realista lo scenario è disastroso.

Visto come opportunità e con una fiducia di fondo, è invece un mondo più fluido dove gruppi motivati che hanno delle visioni concrete, umane e radicali potrebbero indirizzare meccanismi ed ingranaggi ben più imponenti. 

La società liquida in cui siamo nati nuotando è un’arma a doppio taglio. Ti rende adattivo e intraprendente ma anche non fedele e non costante su nulla.

C’è il rischio di essere abili cittadini del mondo che si muovono da una realtà all’altra con disinvoltura, ma poi di fatto sono individualisti che non costruiscono mai “nuovi luoghi” dove sia possibile e diverso vivere da comunità.

Chi ha ricevuto le possibilità culturali, sociali ed economiche può rompere certi schemi, logiche di potere, accumulo, sopraffazione, difesa che ancora oggi informano la società. Ovvio che non tutti possono permettersi battaglie di cambiamento. Ma chi oggi può e non si pone la questione, ha una grande responsabilità a cui bisogna richiamarlo.

Come se io avessi 70 miliardi e li tenessi in banca in un periodo storico del genere.

Immagine di copertina:
Foto di Katt Yukawa


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