Sheikh Jarrah è un luogo attualmente famoso per l’escalation di violenza avvenuta nelle ultime settimane. Arroccato su una delle venti colline su cui si trova la Città Santa per le tre grandi religioni monoteiste. Importante non solo per l’aspetto religioso, ma per i palazzi internazionali che hanno sede proprio in quella zona tra cui: il moderno palazzo del QG del Quartetto, dell’UE, della FAO e della Croce Rossa.
Il quartiere che sorge nella Gerusalemme Est, da ormai decenni, è al centro di una disputa nelle aule dei tribunali israeliani, dove le potenti organizzazioni dei coloni ne escono sempre vittoriose.
Le origini
Prima di diventare teatro di violenza e oppressione, Sheikh Jarrah era un ricco e ventilato frutteto ai piedi delle antiche mura della Città Vecchia di Gerusalemme.
Nel 1956, sotto giurisdizione di Amman, furono costruite diverse case per 28 famiglie palestinesi proprio in quel quartiere. Quelle famiglie facevano parte di una popolazione più ampia di 750 mila palestinesi espulsi con la forza dall’esercito israeliano e dalle milizie ebraiche che lo affiancarono durante la guerra del 1948, quando città arabe divennero parte di Israele.
L’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi, l’Unrwa, diede l’approvazione ad Amman di trasformare proprio quel frutteto in un quartiere per famiglie rifugiate. Negli anni Sessanta i componenti di queste famiglie strinsero un accordo con il governo giordano. Quest’ultimo li avrebbe resi proprietari dei terreni e delle case dopo tre anni ricevendo gli atti fondiari ufficiali firmati a loro nome, in cambio della rinuncia dello status di rifugiati.
Tuttavia, l’accordo fu interrotto quando Israele occupò la Cisgiordania e Gerusalemme Est nella Guerra dei Sei Giorni del 1967 e la Giordania perse il controllo di queste zone che passarono sotto la dizione di “territori palestinesi occupati”.
Dopo l’occupazione di Israele furono rivendicate, tra le altre, i terreni a Sheikh Jarrah, intentando diverse cause legali – con esito positivo – per sfrattare i palestinesi dal quartiere. Una delle tante motivazioni fu l’idea che quella terra fosse di proprietà dal 1885 – durante il dominio ottomano – degli ebrei sefarditi.
La strategia dietro alla politica degli sfratti
Israele ha una grande strategia di insediamento chiamata “Bacino Sacro”: il piano prevede la rimozione delle case palestinesi nelle zone che per culto o risorse hanno un ruolo protagonista. Lo scorso novembre, un tribunale israeliano ha ratificato lo sfratto di 87 palestinesi dalla zona di Batan al-Hawa nel quartiere arabo di Silwan, a sud della moschea di Al-Aqsa, a favore del gruppo di coloni israeliani di Ateret Cohanim.
Questo gruppo, con forti finanziamenti stranieri, mira a espandere la presenza dei coloni all’interno dei quartieri palestinesi di Gerusalemme Est e all’interno della Città Vecchia.
Si stima che 13 famiglie, per un totale di circa 300 persone, abbiano ricevuto un dispositivo di sfratto dai tribunali israeliani che sarà eseguito nei prossimi mesi.
Nahalat Shimon ha già annunciato l’intenzione di demolire le case dei palestinesi e costruire appartamenti da destinare a circa 200 coloni. La Corte aveva lasciato spazio alle parti per un eventuale accordo extra-giudiziale, che avrebbe potuto prevedere una serie di protezioni legali per i residenti palestinesi, in cambio del riconoscimento che i terreni dove abitano appartengono a Nahalat Shimon. Non è stato raggiunto alcun compromesso.
“Le famiglie sono state distrutte psicologicamente”, racconta Iskafi, un uomo di 71 anni, preoccupato per i suoi nipoti. “Quando sanno che ci sono dei piani per cacciarli di casa, diventano naturalmente carichi di odio, arrivano a pensare che tutti gli ebrei sono ladri, che sono il nemico”, spiega. “Solo grazie agli attivisti ebrei che vengono qui ogni settimana a contestare le espulsioni capiscono che non tutti gli ebrei sono così. Noi non siamo contro il popolo ebraico, io glielo spiego. Noi non abbiamo educato all’odio i nostri figli e i nostri nipoti. È la realtà che produce odio”.
La legge israeliana lavora a favore dei coloni consentendo soltanto agli ebrei di rivendicare proprietà che sostengono di aver posseduto prima del 1948, negando invece lo stesso diritto ai palestinesi.
La questione ha avuto inizio il 2 maggio, quando la Corte Suprema Israeliana ha ordinato a quattro famiglie, composte da 30 adulti e 10 bambini, di abbandonare le proprie abitazioni entro il 6 maggio, mentre ad altri nuclei familiari è stato concesso di rimanere fino al primo agosto prossimo.
In totale sono 58 gli abitanti, di cui 17 minori, costretti ad evacuare, presumibilmente per dare maggiore spazio a un insediamento israeliano. I palestinesi avevano chiesto alla Giordania di rilasciare carte e documenti ufficiali per dimostrare la loro proprietà. In aprile, il ministro giordano degli Affari Esteri, Ayman Safadi, ha consegnato documenti che dimostrano la proprietà palestinese delle loro terre a Sheikh Jarrah, nel tentativo di impedire un nuovo sfratto di massa.
L’area è un punto focale della protesta a Gerusalemme alla quale partecipano anche attivisti israeliani. “Peace Now” è fra le organizzazioni israeliane sostenitrici dell’idea che in base al diritto internazionale, i tribunali d’Israele non hanno l’autorità di insediare i civili nei Territori palestinesi occupati, mentre lo sfollamento delle famiglie palestinesi vìola i fondamenti del diritto internazionale umanitario.
Articolo di
Giulia Marchiò
Immagine di copertina:
Foto di Jorge Fernández Salas
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