Andy Caraway Saint Victoire project

Il nudo artistico di Andy Caraway

Andy Caraway, una delle più interessanti fotografe genovesi under 30, parla della sua produzione e delle prospettive che offre Genova ai giovani artisti.
14 Agosto 2020
9 min
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Andy Caraway, classe 1996, fotografa genovese attiva tra la Liguria e Torino, ci parla dei suoi esordi, delle sue mostre tra Genova e Parigi, della sua poetica artistica e delle collaborazioni con Federico Clapis e Luca Farinelli.

Quando e come hai capito che il tuo progetto artistico si sarebbe incentrato sul nudo?

Ci sono parenti che sostengono che fin da piccola io abbia avuto la passione per la fotografia, io onestamente non ricordo questa cosa, però mi fido abbastanza di questa informazione. Verso i 14 anni ho scoperto che era possibile acquistare delle macchine fotografiche che non fossero delle compatte, anche senza essere dei fotografi professionisti.

Come tutti quelli che iniziano a muovere i primi passi nel mondo della fotografia ho iniziato fotografando pozzanghere, le amichette: foto in bianco e nero totalmente a caso. Col tempo ho cercato di affinare la tecnica, informandomi da sola fondamentalmente; non ho mai fatto dei corsi professionali di fotografia.

Dopo un periodo passato dedicandomi alla ritrattistica “tradizionale”, crescendo, ho iniziato a chiedermi come sarebbe stato fotografare dei corpi nudi. Essendo all’epoca minorenne e non avendo la possibilità di interfacciarmi con modelle professioniste ho iniziato scattando ritratti di corpi nudi molto semplici. 

Diciamo che mi sono approcciata a questo tipo di fotografia per necessità personale, dettata anche da una passione per il romanticismo, dal concetto di “sublime” che vede l’uomo impotente nei confronti della natura. La location che si prestava meglio alla mia ricerca erano i boschi, ambiente di cui la Liguria è ricca, proseguendo nei laghetti e, alla fine, verso il mare.

Andy Caraway, untitled
Andy Caraway, untitled. Fonte Instagram di Andy Caraway

Quindi possiamo dire che, vista la tua necessità di eliminare progressivamente panneggi e orpelli dalla ritrattistica “tradizionale”, il corpo del modello è diventato un pretesto per modellare contrasti fluidi tra luci e ombre? In sintesi, non un corpo in quanto tale, ma un mezzo per indagare toni e forme?

(N.B. se leggendo questa domanda hai subito pensato a Monet e Cézanne e all’ossessione per la luce che illumina lo stesso soggetto: devi sapere che l’ultima opera di Andy Caraway si chiama proprio Saint Victoire.)

Possiamo dire di si, considerato che quei corpi si trovavano immersi nella natura, sono arrivata a capire che non esiste un’espressione della natura più autentica del corpo stesso. Utilizzarlo come pretesto per indagare e effettuare questa ricerca è stata la soluzione più semplice e naturale per me.

Scorrendo in ordine cronologico fra i tuoi scatti possiamo notare un progressivo impoverimento del contorno in favore del solo corpo; passiamo infatti da ritratti immersi nella natura, fino ad arrivare alle semplici curve del corpo su sfondo bianco.

Cosa ti ha portato verso questo tipo di evoluzione?

All’inizio è stata una necessità visto che l’inverno arriva per tutti, letteralmente: non era possibile continuare a scattare nudi in esterno durante le stagioni più fredde.

Escludendo le ragioni pratiche, sono arrivata a un punto in cui mi sono resa conto che non potevo controllare il numero di foglie e di elementi variabili della natura (che è una cosa bellissima ma allo stesso tempo incredibilmente fastidiosa per una persona col disturbo ossessivo compulsivo!). Da quel momento mi sono resa conto che la soluzione migliore era portare questi corpi nel contesto più etereo possibile, senza contare il fatto che questo amplificava l’effetto di astrazione temporale, elemento che ho sempre ricercato nei miei scatti.

Questa è sempre stata una mia prerogativa, soprattutto nei primi scatti nella natura: evitare riferimenti per rendere le foto, in qualche modo, sospese nel tempo.

Quanto è importante per te il corpo del modello e le sue caratteristiche? Ci sono messaggi che intendi veicolare attraverso la scelta di alcuni corpi specifici?

La caratteristica principale che ricerco durante la selezione dei modelli è certamente l’empatia. Per me è assolutamente indifferente la fisicità, paradossalmente, nonostante sia il soggetto dei miei scatti, non mi importa il tipo di fisico, non ricerco caratteristiche specifiche. Il messaggio che intendo veicolare si può sintetizzare con il concetto di Body positivity, ovvero il fatto che ogni corpo merita rispetto.

Attraverso questo, ad oggi, vorrei veicolare l’essenza di questo messaggio: non tanto il “tutti i corpi sono bellissimi”, ma tutti i corpi hanno pari dignità, meritano ugual rispetto e meritano ugualmente di essere rappresentati, indipendentemente dalla loro forma, colore o anche assenza di, per esempio, arti.

Sfortunatamente non ho ancora avuto il piacere di lavorare con persone diversamente abili, nonostante intendessi approfondire questo tipo di caratteristica in modo da poter rappresentare le più varie tipologie di corpi attraverso il mio lavoro.

Possiamo dire che le tue fotografie, oltre a dare pari dignità ad ogni corpo, possono esaltare la bellezza delle caratteristiche di ognuno? 

Assolutamente si, infatti in futuro mi auguro di collaborare con sempre più tipologie di fisicità differenti. Purtroppo sono ancora poche le persone che accettano di mettersi in gioco e mostrare le proprie vulnerabilità a una sconosciuta, specialmente attraverso il nudo totale.

È stata proprio Genova a darti il battesimo artistico, prima con Ephemeral, la tua prima mostra personale a Palazzo Ducale e, successivamente, con la collettiva Young & Lovely.

Considerata la tua storia espositiva, credi che Genova offra reali possibilità ai giovani artisti?

Assolutamente si, credo che Genova sia stata un ottimo trampolino di lancio per poter ottenere tutte le possibilità che mi sono state proposte quest’anno.

Tramite il bando di concorso di Sala Dogana, Genova Creativa, sono riuscita a realizzare la mia prima esposizione, Ephemeral. Onestamente non mi aspettavo che Genova potesse offrire questo tipo di possibilità ai giovani artisti, soprattutto in una delle principali sedi espositive della regione.

La visibilità derivata da Ephemeral ha avuto come immediata conseguenza la possibilità di essere contattata da Erica Rigato, la curatrice di Young & Lovely, ricevendo l’invito alla mostra collettiva presso l’ex Ospedale psichiatrico di Quarto.

Ephemeral è stata per me una scommessa essendo la prima volta che esponevo al pubblico “reale” i miei lavori che fino al giorno prima erano stati diffusi esclusivamente on-line. La profonda differenza tra il consenso effimero e istantaneo derivato dai social e l’opinione del pubblico di una vera mostra mi spaventava in un certo senso. Ho ottenuto circa 700 visite che, da quanto mi è stato riferito, è un ottimo risultato per i numeri di Sala Dogana e questo mi rende molto felice. Non nego che sia stato molto complicato dovendo curare completamente l’esposizione e azzardando la creazione di alcune installazioni, elemento completamente sconosciuto al pubblico che mi seguiva on line. 

Young & Lovely invece è stata una collettiva dal tema generico che aveva come obiettivo far conoscere il panorama artistico composto da giovani artisti genovesi. È stata decisamente un’ottima occasione per noi, qualcosa che mancava e di cui si percepiva la necessità.

Mi sento quindi di poter dire che le occasioni per noi giovani genovesi esistono, ma sicuramente dovrebbero avere una risonanza maggiore.

Tengo a sottolineare, per i lettori che non hanno avuto occasione di visitare Ephemeral, che una delle installazioni (accanto alla fotografia di un modello “sepolto” sotto un cumulo di lenzuola) prevedeva un meccanismo sotto un telo bianco: la simulazione di un corpo umano e relativi movimenti del torace derivati dal respiro. Questo provocava un profondo spaesamento dello spettatore, convinto che sotto il lenzuolo giacesse una povera stagista di Palazzo Ducale brutalmente schiavizzata da Andy Caraway.

No, non era deciamente una povera stagista. Era un meccanismo, di cui non conosco assolutamente le specifiche perché è stato realizzato da un amico tecnico dell’arte, che sollevava questo cumulo di teli simulando un modello della fotografia, un voluto omaggio alla Venere degli stracci di Pistoletto.

Passando al contesto internazionale: quanto ha contribuito, in termini di popolarità, la mostra Ethereal a Parigi?

Parigi è stato qualcosa totalmente inaspettato, come un po’ tutto il resto in realtà. Subito dopo Ephemeral mi ha contattato Laura Tota (di Paratissima e Imagenation Paris) proponendomi da partecipare a questa collettiva a Parigi e, reduce dall’esperienza genovese, era una cosa che mi ha fortemente sorpreso.

È stata una bellissima esperienza che mi ha permesso di conoscere molte personalità artistiche, italiane e non, anche se gli artisti italiani occupavano una grande fetta in questo contesto internazionale di rilievo.

Come definiresti il tuo rapporto con i social? Hai voglia di parlarci del tuo esperimento di “scatti a distanza”?

I social mi hanno dato sicuramente un apporto molto rilevante dal momento in cui ho iniziato a pubblicare i miei lavori on line ottenendo un riscontro finora sorprendentemente solo positivo, inoltre chiaramente questo genera appagamento per il proprio operato.

Questa modalità di consenso immediato aiuta sicuramente ad avere la sicurezza di operare verso una direzione positiva. Con questo non voglio dire che il consenso social sia sempre meritocratico o uguale per tutti, però nel mio piccolo sono riuscita e crearmi un seguito affezionato alla mia produzione artistica; non parlo di numeri incredibili ma sicuramente mi hanno permesso di avere di fronte più possibilità, come l’opportunità di essere contattata direttamente da modelle che hanno piacere a prestarsi come soggetto dei miei scatti mosse dal desiderio di essere ritratte attraverso il filtro della mia intenzione artistica.

A livello più ampio certamente il social permette una fruizione dell’arte più diffusa, specialmente quando si parla di fotografia.

Come tutti avevo dei progetti prima del lockdown, che purtroppo sono saltati, quindi mi sono dovuta adeguare. Ho provato a realizzare degli scatti via Skype, come se fossimo in sala posa.

Purtroppo i progetti che intendevo realizzare prevedevano la presenza di molte persone nella stessa stanza, che è l’ultima cosa che il Covid ti permette di fare, quindi credo che per parecchio tempo non sarò in grado di realizzare scatti di questo genere.

Ho quindi optato per lasciare i corpi nella loro intimità, nel loro safe place (le mura domestiche), facendo riferimento ad un libro di Isaac Asimov del Ciclo dei Robot, ovvero Il sole nudo, una lettura che ho amato tantissimo e che, durante il periodo di quarantena, non ho potuto fare a meno di ricordare perché descriveva un futuro in cui le persone vivevano da sole nelle loro abitazioni potendo comunicare solo tramite proiezioni.

Questo mi ha fatto immediatamente pensare a un parallelismo con il periodo che abbiamo appena attraversato, caratterizzato da comunicazione digitale affidata alle videochiamate. Ho quindi deciso di trasferire questo concetto nelle mie fotografie appropriandomi del mezzo digitale per creare una sala posa a distanza.

Andy Caraway, Il sole nudo
Andy Caraway, Il sole nudo. Fonte andycaraway.com

La cosa più sorprendente è stata la possibilità di conoscere, o meglio, non conoscere delle ragazze estranee (sarebbe stato bello avere a disposizione anche ragazzi, ma purtroppo non si prestano così spesso a scatti di nudo); senza contare il fatto che nello stesso periodo era stato reso noto lo scandalo dei gruppi Telegram in cui venivano condivisi scatti intimi di ragazze, quindi revenge porn. Realizzare quindi degli scatti intimi consenzienti, con le stesse modalità con cui quelle persone avevano cercato di abbattere il corpo femminile, e l’intero universo femminile, è stato qualcosa di unico, una sorta di riscatto o comunque un tentativo di mantenere il controllo: il corpo è mio e decido io quando e come mostrarmi nuda, o nudo, e per chi.

Credo che sia molto importante questo perché purtroppo questi comportamenti vengono ancora giustificati e non è tollerabile nel 2020 questa totale assenza di empatia e di educazione al rispetto del corpo delle altre persone.

Nel tuo ultimo progetto ti sei prestata come video maker per Luca Farinelli, a servizio di un cortometraggio incentrato sul fallimento, “Cosa succede ai salmoni che non tornano a casa?”. Vuoi parlarcene?

Oltre alla realizzazione di fotografi, negli ultimi anni mi sono dedicata anche al video making, un po’ per esigenze lavorative, ma anche per esplorare la ricerca del corpo in movimento realizzando piccoli cortometraggi, come avevo fatto per Ephemeral.

Per questo lavoro Luca mi ha contattato, essendo amici da tanti anni, filmando la sua impresa: riuscire a navigare un fiume controcorrente. Contro ogni previsione il fiume, che sarebbe dovuto essere profondo un paio di metri, una volta arrivati sul posto si è palesato semi-asciutto, da qui si è palesato un fallimento ancora più consistente di quanto era prevedibile. Inizialmente avrei dovuto seguirlo in questa impresa riprendendolo mentre tentava di risalire questo fiume, sfruttando il mio interesse per le riprese documentarie che avevo già sperimentato l’anno scorso con l’opera di Federico Clapis, Tank Fish Project, realizzato in barca. Poco prima di arrivare ho deciso di riprendere ciò che precedeva la performance, fino a realizzare insieme questo piccolo documentario/esperienza.

Trovo questa opera molto interessante, specialmente rapportata al percorso artistico di Luca, credo molto in lui come artista e ritengo che questa sia una delle performance più belle che ha realizzato, non solo perché ne sono stata testimone diretta, ma per tutto il messaggio che trasmette che, un po’ per non invadere il suo privato e un po’ per la stima artistica che provo nei suoi confronti, non voglio spiegare io direttamente in prima persona, posso solo dirvi di andarlo a cercare sul suo canale Youtube (link al canale).

Andy Caraway e Luca Farinelli , Cosa succede ai salmoni che non tornano a casa?
Frame di “Cosa succede ai salmoni che non tornano a casa?”, di Andy Caraway e Luca Farinelli. Fonte YouTube di Luca Farinelli

In conclusione: puoi parlarci di qualche tuo progetto per il futuro?

Come ho accennato il lockdown ha interrotto il progetto Saint Victoire, probabilmente non potrà essere realizzato per parecchio tempo. Ero riuscita a pubblicare un piccolo assaggio di questo progetto in occasione dell’8 dicembre, giornata che per la Chiesa celebra la solennità dell’Immacolata Concezione di Maria, promettendo di pubblicare una “foto della madonna”, doppio senso chiaramente riferito al significato più popolare della frase, riferito ad uno scatto che ritraeva numerose persone, chiaramente nude, tutte dello stesso sesso, nella stessa stanza, accalcate una sopra l’altra.

Una cosa che per la Chiesa Cattolica di questi tempi è ancora inconcepibile ma questo è un altro discorso per un’altra sede e ne parleremo un’altra volta magari. 

Comunque, in programma quest’anno, covid permettendo, forse parteciperò ad una mostra a Milano – non è ancora detto – ma sicuramente con Luca Farinelli cercheremo, molto probabilmente a Genova, di realizzare qualcosa insieme. E poi, beh, nel 2021 se sarà possibile cercherò di recuperare tutto ciò che non ho fatto quest’anno.

Immagine di copertina:
Andy Caraway, Industrial. Fonte andycaraway.com


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Piemontese adottata con successo dalla Superba. Storica dell’arte contemporanea. Le sue ricerche principali riguardano i falsi quadri di Modigliani, cominciando dallo scandalo genovese del 2017, per questo motivo è convinta che il fantasma del pittore bohémien vegli su di lei incasinandole la vita.

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