Tanti sum li Zenoeixi, e per lo mondo si desteixi, che dund eli van e stan un’aotra Zena ghe fan, così scriveva l’Anonimo Genovese nel XIII secolo. Mai detto fu più vero, come già abbiamo avuto modo di raccontarvi con alcuni articoli dedicati all’emigrazione genovese in America Latina; la presenza genovese nel mondo, però, cominciò ben prima dell’epoca delle grandi emigrazioni, con numerose colonie mercantili nel Mediterraneo i cui nomi sono ben presenti nella nostra toponomastica: Caffa, Teodosia, Scio, Crimea, Tolemaide non sono solo vie del quartiere Foce, così come Galata, Metelino, Caffa, Tabarca non sono solo edifici della vecchia Darsena.
Nel 1541 alcuni abitanti di Pegli, Multedo e della retrostante Val Varenna salpano alla volta di Tabarka, isola sulle coste nord africane, da poco concessa dal bey di Tunisi alla famiglia Lomellini che vi impiantò una fiorente attività di pesca del corallo per la quale i nuovi abitanti liguri costituirono la fondamentale manovalanza.
Fu così che i liguri divenuti tabarkini rimasero per quasi due secoli lontani dalla madre patria, pur mantenendo stretti legami commerciali con essa e senza scordarne lingua e tradizioni.
Poco prima della metà del Settecento, a causa del deteriorarsi dei rapporti con i vicini arabi e per la diminuzione dei banchi di corallo, gli abitanti lasciarono Tabarka e crearono nuove comunità lungo altre sponde mediterranee: re Carlo Emanuele III di Savoia concesse loro di fondare una città sull’Isola di San Pietro nel sud della Sardegna, chiamata Carloforte in onore del sovrano; di fronte ad essa, sull’isola di Sant’Antioco, sorse alcuni decenni dopo Calasetta; nello stesso periodo nacque Nueva Tabarca su un’isola al largo di Alicante, dove si installarono alcune famiglie tabarchine liberate dalla schiavitù dal re di Spagna Carlo III.
A Tabarka resta traccia di questo passato nel forte genovese che domina l’isolotto; simile destino hanno avuto anche tante altre colonie genovesi, tanto che si è pensato, con il supporto di Italia Nostra, di candidare la rete di fortificazioni genovesi a patrimonio dell’umanità UNESCO.
I Cristezanti di Carloforte
Sono passati quasi tre secoli dalla nascita di Carloforte, mezzo millennio da quando i pescatori di corallo al soldo dei Lomellini hanno lasciato la Liguria alla volta di Tabarka, ma i tabarchini di Sardegna non hanno dimenticato le proprie radici e a Carloforte numerose sono le iniziative e le associazioni che hanno lo scopo di indagarle, approfondirle e rinsaldare il legame con la terra d’origine, fra esse il Gruppo dei Cristezanti di Carloforte “che si impegna nel valorizzare la tradizione delle Casacce liguri a Carloforte”.
Questo gruppo ha dapprima creato una squadra di cristezzanti tabarchini autodidatti, formatasi soprattutto guardando i video online delle processioni liguri, provando nei campi con una croce improvvisata e poi con “viaggi di istruzione” a Multedo dove hanno avuto occasione di provare un Crocifisso vero e proprio.
A seguito di queste prime esperienze il gruppo, anche grazie all’Arciconfraternita dei S.S. Nazario e Celso di Multedo, ha commissionato uno splendido Crocifisso da portare sull’isola, ispirato a quelli di Maragliano.
Nel corso degli anni diverse Confraternite liguri hanno portato il proprio Cristo in processione a Carloforte, il primo fu il Moro di Multedo, poi il così detto Tartaruga, opera seicentesca anch’esso dell’arciconfraternita di Multedo, ma anche quello della Confraternita dei SS. Nicolò ed Erasmo di Voltri ed altri Crocefissi da varie Confraternite della diocesi di Genova.
A Carloforte esisteva già un Cristo settecentesco di manifattura sarda al quale una ventina di anni fa furono aggiunti i canti sulla scorta di quelli liguri, ma questo sarà il primo vero Crocifisso carlofortino, voluto dal Gruppo Cristezanti Carloforte, nato un paio di anni fa in seguito ad una visita alla mostra Cristezzanti presso il Museo Navale di Pegli tenutasi fra la fine del 2019 e l’inizio del 2020.
La Croce, detta Cristo Tabarchino, opera di artigiani liguri, è stata ultimata il 21 giugno 2021 così da ricevere la benedizione del Vescovo di Genova durante la festa patronale di San Giovanni Battista il 24 giugno; non potendo raggiungere subito Carloforte per via delle restrizioni dovute alla pandemia è rimasto esposto prima in Cattedrale e poi nell’Oratorio di Multedo ed ha preso parte ad alcune processioni: la Madonna del Carmine a Multedo, la Madonna della Guardia presso l’omonimo Santuario, Santa Rosalia a Pegli e Nostra Signora dell’Acquasanta presso Voltri.
Il gruppo Cristezanti Carloforte è giunto a Multedo ai primi di ottobre, in occasione della processione della Madonna del Rosario, ha visitato diversi oratori della Liguria per poi fare ritorno in Sardegna dove, insieme ad alcuni confratelli di Multedo, ha portato il Tabarchino in processione fino alla chiesa di San Carlo Borromeo dove è stato collocato.
Intarsi e dettagli: ulivo, mirto, quercia e ginepro
L’immagine di Cristo, su modello di quelli del Maragliano, è opera dello scultore Ezio Garbarino di Lavagna, che ha realizzato anche lo stemma di Carloforte sul pessin (ossia il terminale inferiore della croce), dettaglio ispirato a quello analogo presente su uno dei cristi dell’Oratorio di San Bartolomeo di Varazze.
La croce è stata realizzata da Matteo Frandi di Santa Margherita Ligure ed è caratterizzata da un particolare intarsio di legni policromi dai molteplici significati, la decorazione principale riprende le foglie dell’astragalus maritimus moris, pianta endemica di Carloforte e nei bracci della croce sono incastonati rombi di legno ciascuno dei quali rappresenta una delle comunità legate alla vicenda di Tabarka:
L’ulivo per il Monte Oliveto a Pegli, da Tabarka nuovamente l’ulivo albero che lega le due sponde del Mediterraneo, il mirto per Multedo il cui nome deriva dal latino myrtetum, la quercia da uno storico cantiere navale di Nueva Tabarca, un frammento di un’antica botte di vino per Calasetta e infine del ginepro per Carloforte.
Quest’idea ricalca quella di uno dei crocefissi di Multedo in cui ciascun rombo rappresenta un continente dove è stato portato il cristianesimo.
L’intaglio dei canti, cioè delle decorazioni dei terminali laterali e superiore, è anch’esso opera del Garbarino, i mazzetti di fiori in argento sono stati cesellati da Osvaldo Cipolla mentre le dorature sono state realizzate da Clara Cipolla.
Il Cristo è stato poi assemblato a Multedo grazie al lavoro di Emanuele, Alessandro, Domenico, Matteo, Maurizio e Tonino che hanno fissato le parti in corallo e conchiglia e realizzato oltre 1800 saldature per adornare i tre canti rispettivamente con dodici mazzetti di diciassette fiori ciascuno per un totale di oltre 600 fiori.
Il Crocifisso è ricchissimo di dettagli che custodiscono e tramandano la storia dei tabarchini: la scritta INRI è realizzata in corallo offerto dai pescatori di Carloforte, quello stesso corallo per il quale anticamente gli abitanti di quel tratto di Liguria salparono alla volta di Tabarka dove svolgevano la professione di cercatori di corallo.
I raggi del titolo e dell’aureola di Cristo sono decorati con gli occhi di Santa Lucia, l’opercolo che chiude le conchiglie di un mollusco – la bolma rugosa – che i pescatori di un tempo solevano conservare per regalarli alle proprie mogli che ne facevano gioielli.
Il titolo è sormontato dall’effige della Madonna dello Schiavo, il cui originale è una scultura – probabilmente la polena di una nave cristiana raffigurante l’Immacolata – rinvenuta nel 1800 da un carlofortino che era stato fatto schiavo durante un’incursione tunisina sull’isola, egli tenne nascosta la statuetta finché non ritornò a Carloforte, dove l’effige cominciò a essere venerata come segno che la Santa Vergine non aveva abbandonato i suoi fedeli neppure durante gli anni della schiavitù, confortandoli durante il periodo più buio e concedendogli poi di ritornare in Sardegna.
Ai piedi della Madonna e in mano ad uno dei putti che circondano il titolo si trovano due medaglie, raffiguranti san Benedetto e la Madonna, che fino agli anni Settanta/Ottanta erano poste al di sotto del Corpus della tonnara a protezione dei pescatori e del loro bottino.
Quella del tonnarotto è infatti una delle professioni più tipiche dell’isola di Carloforte dove sorgono ancora oggi alcune delle poche tonnare fisse presenti in Italia (le altre si trovano a Favignana, in Sicilia), si tratta di un antico e complesso sistema di cattura controllata costituito da una serie di reti in successione che formano delle camere via via più piccole nell’ultima delle quali avviene la mattanza del pregiato tonno rosso che viene esportato soprattutto sul mercato giapponese.
L’idea in fieri è quella di aggiungere fra le mani degli altri putti medaglie votive legate alle prime processioni a cui il Tabarchino ha preso parte in Liguria, di cui si è detto sopra.
Uno stretto legame
Il legame di Carloforte con i luoghi natii della Liguria resta incredibilmente stretto, a partire dalla lingua, il tabarchino 5, che è perfettamente intelligibile per chi parla zenéize inoltre nell’Oratorio di Multedo si conservano le lettere scambiate nel corso dei secoli con le comunità di Tabarka prima e di Carloforte poi.
La costituzione di un’associazione culturale legata alla tradizione dei cristezzanti è un’ulteriore occasione per rinsaldare questi secolari rapporti.
Si ringraziano per il tempo e le informazioni trasmessemi Emanuele Montaldo, priore dell’Arciconfraternita dei S.S. Nazario e Celso di Multedo, e Andrea Luxoro dell’associazione Cristezanti Carloforte (notarsi il cognome che si trova praticamente solo a Carloforte e nel ponente genovese).
Immagine di copertina:
Il Cristo Tabarchino. Foto di Federica B:
Scrivi all’Autorə
Vuoi contattare l’Autorə per parlare dell’articolo?
Clicca sul pulsante qui a destra.