Plastica

Apologia della plastica

La plastica è un ottimo materiale. Non fosse così, non sarebbe così diffusa. Ora, mentre state leggendo, provate a contare quanti oggetti che contengono plastica, tra vestiti e cianfrusaglie, avete addosso.
24 Maggio 2020
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Non è difficile, di questi tempi, fingersi sostenitori di questa o quell’altra idea: basta condividere indignati un post superficiale, seguire una pagina populista o, nei migliori dei casi, scrivere la propria opinione faziosa e densa di cattive influenze. In qualsiasi caso, senza approfondire il discorso. Io, che di superficiale ho solo la pelle, mi diverto invece ad andare un po’ oltre allo slogan, per scorgere quegli antri nascosti che stanno dietro ad ogni problema.

Immaginatevi un problema come una bella spiaggia tailandese: sabbia bianca, acqua cristallina, verdi montagne a picco sul mare. Ecco, io sono quel rompicoglioni che non si accontenta di godersi il paesaggio così com’è, accoccolato sul telo, ma prova a infilarsi in grotte segrete, ispeziona i fondali con la maschera e le bombole, si perde nei boschi alla ricerca di frutti e animali esotici, scruta i granelli di sabbia per coglierne gli spigoli.

Perché ogni notizia, come un bel paesaggio, cambia a seconda della prospettiva. Ma soprattutto, la tua visione si ribalta e si riassesta secondo la conoscenza dell’ambiente che sta dietro quel paesaggio, o quella notizia.

Notizia non recente è quella dell’isola di plastica, di dimensioni pari alla Francia, che galleggia nel Pacifico, creata dall’uomo e cullata dalle correnti oceaniche. Da qui, una stupida e inutile campagna anti-plastica si è diffusa sul web, con tanto di boicottaggi e proteste sociali.

Tutto il polverone si è calmato quando è cominciata l’emergenza sanitaria, confermando la priorità che diamo alla salute personale rispetto a quella dell’intero ecosistema. Mascherine usa e getta, guanti monouso e fazzoletti di carta hanno surclassato l’abolizione delle cannucce, dei piatti e delle posate di plastica. Nonostante si sia riammesso lo spreco dettato dagli oggetti monouso, abbiamo quantomeno riconosciuto alla plastica i suoi meriti.

La plastica è infatti un ottimo materiale. Non fosse così, non sarebbe così diffusa.

Ora, mentre state leggendo, provate a contare quanti oggetti che contengono plastica, tra vestiti e cianfrusaglie, avete addosso. Comincio io: ho gli auricolari, gli occhiali, la maglietta, suppongo i jeans, l’accendino, il portachiavi, le mutande, forse i calzini e le scarpe.

Praticamente tutto tranne cintura e portafoglio, rigorosamente in pelle di mucca. Così, dopo i lettori ambientalisti, mi faccio un po’ odiare persino dai vegani.

La plastica è un materiale ottimo per una serie innumerevole di ragioni. In primis, è prodotta a basso costo. Economico, s’intende. Inoltre, la plastica è un materiale incredibilmente duttile e versatile: può essere rigido, flessibile, colorato, trasparente, resistente o fragile. Si può declinare la plastica in così tanti modi e per così tanti usi che, tecnicamente parlando, sarebbe più corretto usare il plurale: le plastiche.

La nostra società dipende dalle plastiche, ne siamo assuefatti: ormai la produciamo e consumiamo senza nemmeno renderci conto degli effetti, come se ne fossimo abituati. E non solo grazie all’influenza dei grandi gruppi petroliferi, cari inermi complottisti.

Da un punto di vista ambientale, il costo è sicuramente elevato.

Produzione e riciclo delle plastiche producono emissioni, il loro deterioramento avvelena l’acqua, quindi i pesci e di conseguenza noi. Il WWF stima una media settimanale di 5 grammi di microplastiche ingerite per persona. Le più comuni sono il polipropilene e il polietilene tereftalato.

No, non sto provando a farvi una supercazzola. E per semplicità le chiameremo sempre plastiche. Ma quelle prima citate, le “innominabili”, sono le plastiche più comuni che adoperiamo tutti i giorni.

Il polipropilene varia dallo zerbino al tappeto, dal paraurti al cruscotto della macchina, dallo scolapasta all’etichetta delle bottiglie, includendo la custodia dei CD (ah, bei tempi), i bicchieri e le posate di plastica e così via. Il polietilene tereftalato, più comunemente PET, pesa due terzi della produzione globale di bottiglie e boccioni per le bevande.

State cominciando a capire l’entità del problema?

Avete messo in dubbio l’irrisorio contributo, per quanto positivo, di un boicottaggio occasionale della plastica nei supermercati di qualche ricco paese occidentale che, comparato con quanto produce e inquina il sistema-mondo, diventa ridicolo e anacronistico?

Anacronisti, sì, vestiti da progressisti dell’ambiente. Spostate il vostro odio, visto che mai riuscirete a placarlo, dal particolare al generale, dal materiale al sistema produttivo: il consumismo è nemico dell’ambiente, non la plastica consumata. Virate, amici, e puntate i vostri cannoni verso la filosofia dell’imballaggio, e non il materiale dell’imballaggio. Perché se domani, paradossalmente, tutta la plastica al mondo venisse sostituita da materiali organici e non cancerogeni, il rimpiazzo verrebbe prodotto e consumato altrettanto velocemente, in un loop senza fine.

Cioè voi davvero credete che il problema di una bottiglietta d’acqua stia nel PET e non nel suo ciclo di consumo irrisorio? Così fosse, cari ambientalisti, non avete capito niente di sostenibilità.

Ecco quello che penso io.

Sostenibilità significa garantire che il sistema produttivo consumi quell’ammontare di risorse che è destinato al suo tempo, senza quindi precludere, o meglio rubare, le stesse risorse alle generazioni future. Nell’etica della sostenibilità, si aggiunge anche il non sottrarre con la forza, che sia essa fisica, economica o finanziaria, le risorse alle generazioni presenti di altri continenti.

Torniamo all’esempio della bottiglietta d’acqua, e ragioniamo per cicli di vita.

Premessa filosofica: la società tecno-capitalista moderna si fonda sul concetto tutto cristiano del tempo come linea storica: passato nefasto, presente peccaminoso, futuro redentore. La Natura è creazione di Dio in mano agli uomini, che grazie alla tecnica possono controllarla ed ammansirla. Questi due assiomi conducono inevitabilmente alla mancanza di un limite, tipico della cultura greca, che porta ad un consumismo predatorio che saccheggia e distrugge senza coscienza (Limite, Serge Latouche).

Torniamo, dicevo, all’antica idea di limite e di ciclo: ogni prodotto, così come ogni montagna e ogni moscerino, ha un inizio e una fine. La plastica viene prodotta dal petrolio, materiale essenziale per l’industria energetica contemporanea e ragione di innumerevoli conflitti. Il petrolio è un fossile: prestiamo attenzione a questa parola, sempre abusata nel contesto dei combustili. È un fossile, come quelli delle prime conchiglie, delle proto-piante, dei dinosauri.

La teoria più accreditata fa risalire la formazione del petrolio a centinaia di milioni di anni fa, nel paleozoico, quando organismi microcellulari presenti nell’acqua, sotto l’effetto di batteri anaerobi e agenti chimici, si sono lentamente trasformati in cherogene e poi, grazie a sedimentazione e cracking, in petrolio (Origine, migrazione e accumulo del petrolio, Treccani).

Centinaia di milioni di anni è il ciclo di formazione della materia prima delle plastiche. Questo ci potrebbe già bastare per dire, ragionevolmente, che l’impiego di oli fossili non è sostenibile in alcun modo. Ma non basta.

Una volta cambiato il materiale, come ipotizzato in precedenza, il sistema produttivo attuale continua la sua perversa devastazione ambientale.

Ed è lì, e non sulla formazione delle materie prime, che possiamo agire.

Supponiamo quindi di avere una plastica ricavata da un materiale con un ciclo di vita molto più breve del milionario petrolio: diciamo 1 anno, come provenisse da una pianta. Considerando la rapidità con cui si produce e raffina in serie una bottiglia, il tempo di produzione è assolutamente trascurabile.

Siccome viviamo in un’economia globale, produzione, raffinazione e stoccaggio avvengono in posti differenti. Trascurando gli effetti nocivi delle emissioni da trasporto, supponiamo un tempo complessivo, dall’estrazione materia prima alla fruizione, di 6 mesi. Stima molto ottimistica. Ora abbiamo la nostra bottiglietta in mano e siamo pronti a berla. Acquisto, consumo e destinazione a rifiuto avvengono in meno di un’ora.

Facciamo una bella proporzione?

Un ciclo di un anno e mezzo esaurito in un’ora significa un rapporto tra tempo di produzione e tempo di consumo pari a 13.140. Assumendo che il riciclo abbia un’efficienza del 100% (fisicamente impossibile data la seconda legge della termodinamica), e supponendo un riciclo del PET pari 20%, il rapporto scende a 10.512. Cioè, in altre parole, la rapidità con cui utilizziamo la bottiglietta è 10.500 volte maggiore della velocità di produzione. E stiamo parlando di bioplastica!

Spero che ora, amici, abbiate chiaro che il mio accanimento contro il consumismo prescinde dal materiale utilizzato. Una nuova cultura della produzione deve nascere; una cultura che preveda un ciclo di utilizzo dei prodotti quantomeno paragonabile a quello della loro creazione. Una cultura che non produce per consumare, ma per durare, in cui l’arte di realizzare non viene annichilita dalla tecnica del consumo.

Breve post-fazione filosofica, che se siete arrivati a leggere fin qui non vi annoierà di certo: il consumismo, cioè creare per distruggere, è la massima espressione dell’ospite inquietante chiamato nichilismo. Non c’è uno scopo, né un perché: si crea per creare ancora. Un cinghiale affamato che partorisce per mangiarsi i propri figli. Arriverà il giorno che il cinghiale, secondo leggi di Natura, non sarà più fecondo e morirà di fame, avendo dimenticato come cacciare. Dov’è quindi il senso in questa conservazione autodistruttiva?

Quale soluzione?

Beh, miei cari, troppo credete nelle mie facoltà se mi ponete una domanda simile. Una luce di cristiana speranza è però identificabile nel riuso, più ancora che nel riciclo.

Concetti come il vuoto a rendere devono sostituire il mono-uso, così da allungare il ciclo della vita degli oggetti. La produzione di imballaggi dovrebbe essere riportata ai livelli precedenti gli anni ’80, decennio dell’esplosione delle plastiche alimentari. Le uova, così come il latte, possono essere trasportate in grandi casse o barili e poi dettagliate al consumatore, che non usa imballaggi usa-e-getta, ma contenitori duri e duraturi. Così il riso, la pasta, la farina, le mele, e la stragrande maggioranza delle vivande che acquistiamo.

Spero di non avervi troppo confuso le idee, amici ambientalisti, con questa apologia della plastica. Che poi non consiste in una difesa incondizionata del materiale, e ben vengano nuove forme di plastica che non siano fossili. Il mio tentativo è di orientare la vostra rabbia non sui materiali, che cambiano e cambieranno così come indicato dalle leggi della moda e del mercato; ma piuttosto sul sistema che dietro ne governa lo sfruttamento. 

In breve, non si può accusare la plastica del paraurti di causare un incidente stradale mortale.

Immagine di copertina:
Illustrazione di Rilsonav


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Laureato in Ingegneria Civile e Ambientale all’Università di Genova, si è specializzato in Pianificazione del Territorio all’Università Leibniz di Hannover. Socio fondatore e Project Manager dell’Associazione Culturale CDWR, attraverso la quale diffonde una cultura nuova di rigenerazione urbana.

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