Nella notte tra il 23 e il 24 maggio del 1915, l’Italia prese una delle decisioni più forti della sua storia, scegliendo di entrare in guerra. Il primo conflitto mondiale infuriava già da nove mesi, scuotendo l’Europa tra il fumo dei cannoni e i macelli umani nelle trincee. In tutta la penisola, da Nord a Sud, la notizia provocò potenti reazioni emotive, che altalenavano tra l’euforia di molti e la preoccupazione di altri.
Per interpretare bene i sentimenti di quella folla di metà anni dieci del XX secolo, è necessario smarcarci dal “senno del poi” di cui siamo dotati.
All’alba dell’ingresso nello scontro bellico più grande che l’uomo avesse conosciuto fino ad allora, il fronte degli interventisti era infatti abbastanza folto. Partito senza troppi favori, in breve tempo riuscì ad incanalare con grande efficacia l’ardore montante nella popolazione, riscoprendo un animo bellicistico piuttosto forte all’interno del paese.
Il mondo intellettuale giocò un ruolo influente nel dibattito, fungendo da cassa sonora di uno schieramento piuttosto che di un altro.
Gabriele D’Annunzio, che proprio in quegli anni aveva conosciuto una fama immensa, assunse le vesti di cantore per il fronte di coloro che erano favorevoli ad una salita di Roma sul campo di battaglia (L’Italia nel Novecento, Miguel Gotor). E proprio la figura del poeta-vate, come è stato definito più volte per la sua capacità di interpretare i tempi correnti (insieme a Giosuè Carducci), si intrecciò con Genova, nel maggio di quel 1915.
Era il 55° anniversario della spedizione dei Mille di Garibaldi, quando a Quarto venne inaugurato il monumento che ancora oggi domina il curvone dell’Aurelia vista mare.
Era il 5 maggio del 1915
In molte piazze si stavano svolgendo le cosiddette “radiose giornate”, momenti di adunata pubblica che risultarono utili a fomentare la crescente volontà popolare di schierare le truppe sui fronti di guerra. Quel giorno, D’Annunzio prese la parola e si lanciò in un climax retorico capace di trascinare il pubblico in mormorii di approvazione e in scroscianti applausi in conclusione.
Infiammò l’atmosfera scagliandosi contro Giovanni Giolitti, principale rappresentante del neutralismo italiano, reo di frenare le aspirazioni di un paese che voleva ritagliarsi il proprio spazio nel settore adriatico e balcanico, ai danni dell’impero austro-ungarico.
Per l’impostazione della sua perorazione prese spunto dal celebre “Discorso della Montagna” (di origine evangelica), da cui si sono lasciati ispirare grandissimi oratori della storia, quali il Mahatma Gandhi e Martin Luther King.
Questa ebbe luogo proprio lì, sui gradoni di quel monumento di Quarto dei Mille che oggi fa da sfondo agli spritz estivi di molti giovani. Secondo alcune fonti, quel giorno erano presenti ben ventimila persone (La Grande Guerra degli italiani, Antonio Gibelli).
L’abruzzese incalzò
… Popolo grande di Genova, Corpo del risorto San Giorgio;
Liguri delle due riviere e d’oltregiogo;
Italiani d’ogni generazione e d’ogni confessione, nati dell’unica madre, gente nostra, sangue nostro, fratelli …”
Introdusse così, con parole dotate di quella eleganza d’altri tempi, ma pronte a coinvolgere emotivamente la platea fin da subito, abbracciandola tutta insieme in tre frasi. Poi, quasi ad allacciare il passato con il futuro, quasi a mettere in connessione l’impresa garibaldina con le nuove speranze che si riponevano, elevò la carica psicologica dell’intervento:
“ […] Udiste allora la sua voce d’arcangelo?
Disse: “Qui si fa l’Italia o si muore”
A lui che sta nel futuro “Qui si rinasce e si fa un’Italia più grande” oggi dice la fede d’Italia […]”.
Sul finale quindi, affondò i colpi più vibranti, facendo ricorso a ogni suo sforzo persuasivo, davanti alle onde che lambivano gli scogli di Genova. Queste le parole che esprimevano con ardore il desiderio di imbracciare le armi, dove l’immagine del fuoco della guerra lo fanno da padrona.
“ […] Il fuoco cresce, e non basta. Chiede d’esser nutrito, tutto chiede, tutto vuole. Voluto aveva il duce di genti un rogo su la sua roccia, che vi si consumasse la sua spoglia d’uomo, che vi si facesse cenere il triste ingombro; e non gli fu acceso.
Non catasta d’acacia né di lentisco né di mirto ma di maschie anime egli oggi dimanda, o Italiani. Non altro più vuole. E lo spirito di sacrificio, che è il suo spirito stesso, che è lo spirito di colui il quale tutto diede e nulla ebbe, domani griderà sul tumulto del sacro incendio: “Tutto ciò che siete, tutto ciò che avete, e voi datelo alla fiammeggiante Italia! […]”.
(Il Primato Nazionale)
E ancora:
“ [… ] Beati quelli che, avendo ieri gridato contro l’evento, accetteranno in silenzio l’alta necessità e non più vorranno essere gli ultimi ma i primi.
Beati i giovani che sono affamati e assetati di gloria, perché saranno saziati.
Beati i misericordiosi, perché avranno da tergere un sangue splendente, da bendare un raggiante dolore […].”
Questa arringa fu un successo totale per d’Annunzio, un vero e proprio bagno di folla, come quelli che sarebbero seguiti nei giorni successivi in altre piazze del paese, mentre la rabbia popolare contro l’attendismo del governo cresceva e cresceva.
Il 24 Maggio 1915, infine, l’Italia imboccò il bivio e la decisione di entrare in guerra venne resa pubblica. Tutto ciò che è venuto dopo lo sappiamo, e parla di numeri strazianti e pagine di vita calpestate.
Dopo la firma segreta sul Trattato di Londra, posta dall’allora ministro degli Esteri Sidney Sonnino il 26 Aprile 1915, la penisola si trovò ad entrare in scena al fianco dell’Intesa, rappresentata in principal modo da Inghilterra, Francia e Russia.
Il dado era stato tratto.
I quarantatré mesi successivi avrebbero richiesto un tributo di vite umane immenso, superiore alle 680.000 vittime, tra civili e soldati.
Una tragedia della Storia, un profondo cono d’ombra lungo il percorso degli eventi, come ce ne sono stati tanti durante il XX secolo.
Immagine di copertina:
Velizar Ivanov
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