Ferragni

La ferragnizzazione della cultura. Pesto, Botticelli e altre cose sacre

Uno spettro si aggira per le nostre regioni: lo spettro della ferragnizzazione della cultura. Dal pesto delle Cinque Terre, alla Cappella Sistina, fino agli Uffizi, Chiara Ferragni si sta mostrando capace di far parlare di “cultura”. Ci dobbiamo preoccupare o può essere una strategia per rilanciare mondi sempre più sofferenti?
25 Luglio 2020
5 min
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E insomma questa estate c’è questa cosa di Chiara Ferragni che va nei posti che diventano, all’improvviso, luoghi in cui c’è stata Chiara Ferragni. Lei va lì, con tutto quello spazio solo per lei e i suoi amici, raccoglie qualche foto e qualche micro-video e poi tutti (gli altri) giù a raccontare.

Dall’internet alla rivista cool (Rivistastudio), dal profilo Twitter di qualche intellettuale a quello Instagram di qualche trash-magazine, tutti giù a raccontare. L’ultimo in ordine cronologico è quello degli Uffizi (Artribune): tutto il museo per lei, foto e capolavoro di descrizione sul profilo Instagram ufficiale di Uffizigalleries (con cose tipo “ideale femminile della donna” accostato a “capelli biondi e pelle diafana”) .

Quindi, matematico, il diluvio di commenti, tra cui emerge per lucidità e chiarezza, quello di Montanari per il Fatto Quotidiano.

Lo riassumo così:
niente da dire a Chiara che fa il suo, ma forse un’istituzione pubblica così prestigiosa per la cultura italiana dovrebbe adottare una politica diversa dal regalare un setting fotografico a una influencer.

Vero. Ma torniamo alla prima frase: Ferragni va nei posti e questi diventano posti di cui parlare. Possiamo davvero ridurre questo “fenomeno sociologico”, per usare sempre le brillanti parole della descrizione Instagram di Uffizigalleries, a una colpa di dirigenti e amministratori culturali?

Me lo chiedo qui, perché uno dei luoghi che ha attraversato la buona vecchia Chiara è stato, non più tardi di qualche settimana fa, le Cinque Terre. E si è fermata, tra le altre cose, a scattare qualche foto e qualche micro-video mentre faceva, ebbene sì, il pesto. E, infatti, il suo mortaio ripreso nel micro-video, con il relativo paesaggio ferocemente spettacolare di quei luoghi, è diventato velocemente virale.

Tutti alle Cinque Terre a fare il pesto, dunque?

Non necessariamente, ma intanto mesi di riunioni e discussioni tra amministratori per decidere la campagna di comunicazione con cui presentare la regione o la città sono stati risolti con quelle due foto e il micro-video. Dice: sì, vabbè, ma un conto è il pesto, un conto la Venere di Botticelli. O la Cappella Sistina (HuffingtonPost).

Ecco, appunto. Allora, forse, questo è il problema, forse questo avevano in mente tutti coloro che hanno diluviato di commenti contro questa ferragnizzazione della cultura (all rights reserved). Forse è che ci sono dei confini che devono essere tenuti ben chiari: se mi parli di scarpe e di pesto, tutto ok, ma se mi parli di arte, cioè, scusate, di Arte, allora non vorremmo mica confondere la cultura artistica con il vile denaro di una con, cito: “capelli biondi e pelle diafana”?

La foto di Chiara davanti al mortaio pieno di pesto, è un sì; quella davanti al quadro della Venere, è un grande No.

E più o meno questo dice lo storico dell’arte Montanari, nel suo bell’articolo: “è la Ferragni a sfruttare gli Uffizi, e non il contrario”. E, naturalmente, questo non va bene. Il fatto è che se sfruttare il pesto e il paesaggio delle Cinque Terre si può fare, mentre sfruttare il paesaggio degli Uffizi no, il punto non è più la bionda influencer dalla pelle diafana. Il punto sono certi confini da non superare.

Ecco, qui su Wall:out abbiamo parlato molto di modelli di gestione della cultura (Il triangolo no? Una domanda sul significato di città “smart”) e, in particolare, della cultura artistica (Non conoscete il nostro Museo di Arte Contemporanea? Non è solo colpa vostra!).

Perciò vorrei dirlo chiaro: perché no? Perché non far sì che chi ha il potere di restituire (grande) visibilità a luoghi altrimenti in ombra, non sia lasciato lavorare? Perché la ferragnizzazione della cultura non potrebbe essere una strada per ridare vita a mondi che sembrano agonizzare?

In realtà, il problema di farsi sfruttare dalla Ferragni, che sia per il pesto o per Botticelli, non è affatto quello del mischiare cultura alta e cultura bassa, non è, cioè, quello di vendere qualcosa di sacro che non dovrebbe essere toccato dalle vili logiche del mercato.

Non è neppure, come sembra indicare Montanari, che “la conoscenza della storia e dell’arte serve a nutrire un pensiero critico”: per carità, come se stare di fronte alla Venere dovesse per forza essere un esercizio intellettuale di guadagno di una qualche conoscenza (quale?). Sarebbe come dire che il pesto debba per forza essere degustato da assaggiatori professionisti. No, thanks.

Si può stare molto dignitosamente davanti alla Venere perché la si ritiene bella, o divertente, o strana, oppure mangiare il pesto perché è buono. O non fare nessuna delle due cose. Con buona pace, questo sì, di certe istituzioni pedagogiche che insegnano a vedere o sentire “cose” nel cibo o nell’arte (cioè, ciò che definiscono come tale). E, in questo, la ferragnizzazione non può fare che bene, dicendo ad altissima voce che si può fare balletti buffi su TikTok, poi visitare la Sistina e poi provare a fare il pesto. O “sembrare in Fornarina anche quando è in Dior”.

Dove, invece, questa logica non può funzionare – e di certo non per colpa della Ferragni – è nel suo tradurre e ridurre i mondi della cultura a una dimensione di spettacolarizzazione e, quindi, alla fine, di banalizzazione.

L’arte ferragnizzata diventa la Sistina e la Venere di Botticelli. Fine. La Liguria diventa il pesto. Fine. Universi interi trasformati in un click. O in un micro-video. Tutta l’arte in quel click. Tutta una regione in una manciata di fotogrammi. Micro-proiettili che riassumono tutto, per sempre. Potentissimi, ma muti di tutto ciò da cui vengono.

Come dicevo, non è che è colpa della buona vecchia Ferry. Questo deve essere chiaro. Il suo lavoro, che peraltro ha contribuito a inventare, funziona così e così bene, perché lei sa fare da Dio quella roba lì. Confezionare quei proiettili. Lei punta il dito e quel quadro diventa l’arte tutta. E una regione diventa una salsa. Proiettili già partiti, prima che si possa cominciare a chiedersi qualsiasi cosa. Già lontani.

Ma non è neanche solo colpa di qualche amministratore comunale che riceve una chiamata di una confezionatrice di proiettili comunicativi che chiede se può venire a spararne qualcuno dalle sue parti. Che vuoi dirle, no grazie, andiamo avanti con le nostre riunioni per decidere che grafica mettere sul manifesto da appendere in piazza?

Boh, qualcuno risponderà anche così, ma non si può incolpare chi accetta l’invito della pistolera più veloce del West.

Così, per concludere, questo pazzesco “fenomeno sociologico”, peraltro non così inedito e storicamente unico come si potrebbe pensare – tipo, giusto per dire, Garibaldi era più o meno uno come la Ferragni: andava nei posti e tutti ne parlavano e si radunavano lì – questo fenomeno, dicevo, potrebbe magari essere preso sul serio da chi amministra la cultura di città e istituzioni culturali. E, magari, si potrebbe trovare una strategia un po’ meno miope del banale scambio “io-ti-do-il-museo-così-tu-mi-dai-visibilità”, per provare a sfruttare, invece, la ferragnizzazione della cultura come base per una vera e propria politica culturale.

Per esempio, contrattando una costruzione di proiettili – foto e micro-video sul pesto o le Cinque Terre o Botticelli – più lunga nel tempo, più articolata e meno banalizzata. Fare pace con il potere contrattuale che la bionda e diafana si sta costruendo nei mondi della cultura italiana significa cominciare a prendere sul serio quel potere e, quindi, cominciare a contrattare sul serio. Che vuol dire una cosa tipo: se vuoi il mio pesto e il mare sullo sfondo, mi racconti nei tuoi prossimi 10 micro-video la storia della mia città, come dico io.

Giusto per fare un esempio, eh.

Immagine di copertina:
Caroline Attwood


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Nasce e vive a Genova, dove ha studiato Economia e altre cose noiose. Finisce a lavorare a Milano, dove ora insegna Sociologia della cultura all’Università di Milano-Bicocca. Nel frattempo, ha scritto di cibo e altre cose divertenti su riviste scientifiche, quotidiani on line (Genova24.it) e su qualche libro (Carocci Editore). Per il resto, si dedica a due discipline antiche: arti marziali cinesi e degustazione di vino.

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