A: Ciao Ilaria, ci conosciamo dai tempi del liceo e sono felice di condividere la tua storia, e le tue idee, con i nostri lettori. Siccome in molti potrebbero non conoscerti, cominciamo dalle presentazioni.
I: Ciao a tutti, sono Ilaria, ho 25 anni e sono nata e cresciuta a Genova. Dopo il Liceo Linguistico Deledda, ho conseguito la mia prima laurea in Lingue per l’impresa all’Università di Pavia. Mi sono poi trasferita all’estero, tra Galles ed Inghilterra, per motivi di lavoro e studio. Ho frequentato e concluso la laurea magistrale all’Università di Cambridge, per poi cominciare un’esperienza di lavoro presso UN Women a New York, dove ho lavorato fino allo scoppio di questa emergenza sanitaria. (femminismo)
A: Cosa è UN Women?
I: UN Women è l’ente delle Nazioni Unite che si occupa di uguaglianza di genere e di empowerment della donna. è l’agenzia delle Nazioni Unite più giovane, nata nel 2010, e non è sicuramente tra le più conosciute. Io stessa ne sono venuta a conoscenza solo nel 2018, durante un MUN (Model United Nations) organizzato a Cambridge.
Questi eventi, conosciuti ai liceali genovesi come GEMUN, sono conferenze internazionali rivolte ai giovani in cui si simulano le conferenze internazionali delle Nazioni Unite. Nel 2018 ho avuto l’opportunità di essere chairwoman nell’evento organizzato da UN Women presso l’Università di Cambridge e sono entrata in contatto con una realtà fino ad allora sconosciuta.
A: Questi eventi, spesso laterali rispetto al percorso di studi classico, sono invece un’ottima opportunità per approfondire le proprie conoscenze, creare una rete di relazioni, trovare nuove opportunità lavorative.
I: Sì, esattamente. Sinceramente, da ragazzina non sei cosciente del potere delle Nazioni Unite. A 15 anni vuoi stare con i tuoi compagni, divertirti, ed è raro che ci si affezioni al messaggio che gravita intorno alle assemblee.
A: Sono un’ottima occasione per vestirsi bene e sentirsi più grandi.
I: Certo, quando mai, a 15 anni, hai la possibilità di metterti i tacchi tutto il giorno? Ma non solo. Nonostante l’incoscienza di quegl’anni, i MUN sono occasioni per mettersi alla prova, parlare tutto il giorno in una lingua che non è la vostra, con ragazzi da tutto il mondo, a parlare di cose che spesso nemmeno si capiscono. Perché sì, spesso nemmeno capiamo gli argomenti che trattiamo costantemente per tre giorni, ma indirettamente vi è una formazione e una sensibilizzazione al tema.
A: I MUN sono un’occasione per uscire dalla propria comfort zone anche per quei ragazzi che non si possono permettere di viaggiare all’estero, e hanno così la possibilità di accogliere il mondo a casa loro. Per quanto riguarda UN Women, quali progetti portate avanti e nello specifico quali hai portato avanti tu?
I: Io lavoro per l’executive board, che è un po’ la punta dell’iceberg dell’organizzazione. La mia unità si occupa del rapporto con gli Stati Membri e dei processi di negoziazione. Tre volte all’anno, ci occupiamo di riunire i paesi che hanno aderito a UN Woman e di negoziare e poi votare le politiche mirate all’empowerment della donna e alla parità di genere.
Io, nello specifico, lavoro nel campo psicolinguistico, in inglese language policy making. Durante gli studi a Cambridge, la mia ricerca ho sviluppato uno studio su come la lingua, il codice e le scelte linguistiche hanno un impatto sulla mentalità nei confronti del ruolo della donna. Trovo che sia un argomento interessantissimo perché tutto il giorno siamo immersi in fiumi di parole, che provengono dai media o da chi ci sta intorno, e questo ha conseguenze sulla formazione delle idee di ognuno di noi.
A: Premesso che spero di utilizzare un linguaggio consono e che non suoni sessista, sono assolutamente d’accordo con te: noi siamo le parole che diciamo. E non possiamo pensare una parola che non conosciamo.
A tal proposito, è molto interessante un video di un discorso di Paola Cortellesi al David di Donatello 2018, in cui l’attrice fa notare come tantissime parole al maschile, una volta declinate al femminile, diventino un sinonimo di “prostituta”.
In Germania, negli ultimi anni, c’è stato un forte lavoro di modifica della grammatica, soprattutto per quanto concerne l’uso del plurale. Come avviene per l’italiano, nel tedesco la forma utilizzata per un plurale che comprende maschi e femmine è quella maschile. Mi interessa capire, da te che l’hai studiata, cosa pensi di questa impostazione della lingua italiana (e tedesca) e come giudichi le azioni intraprese, come l’utilizzo dell’asterisco, per ovviare a ciò?
I: È un discorso molto complesso con tantissimi pareri a riguardo. Io credo che l’approccio classico a questo discorso sia “Ma cosa vuoi che sia?” Questo approccio non è corretto per qualsiasi tematica. Adesso abbiamo gli strumenti mentali per capire che ogni cosa che diciamo ha un impatto e che è una scelta che facciamo. Non possiamo inventarci parole che non esistono o parlare “sgrammaticato”. Io stessa non ho apportato modifiche all’aspetto grammaticale della lingua, ma piuttosto mi sono concentrata sull’uso di alcune parole, o modi di dire, comuni.
Per esempio, in italiano, abbiamo nomi per alcune professioni che fino a pochi decenni fa erano riservate al sesso maschile e che quindi non prevedono una forma femminile. Nel caso fossi giudice, o avvocato, non mi sentirei offesa dall’uso del genere maschile per questa professione, ma contemporaneamente non sarei pienamente gratificata, riconosciuta, attraverso questa parola.
Vivendo nel Regno Unito, e utilizzando l’inglese come se fosse la mia prima lingua, non ho trovato nell’inglese lo stesso tipo di approccio. L’inglese è una lingua molto più semplice, dal punto di vista grammaticale, ma anche molto più inclusiva. Questo si riflette sulla società anglofona e sulle ideologie che si sviluppano appunto dalla lingua.
Prima di parlare della questione asterischi, vorrei mettere l’accento sulla scelta del lessico è, a mio avviso, ancora più importante rispetto alle regole grammaticali. In Italia, negli ultimi anni, abbiamo assistito a spettacoli spaventosi nei media e nella cultura moderna, spesso da brividi.
Per quanto riguarda le azioni intraprese io dico: “Perché no, perché non provare?” Se l’impatto delle parole è così evidente, è probabile che, tra qualche decennio, si assisterà a cambiamenti anche nel modo di pensare la donna e il suo ruolo nella società.
A: È molto interessante ciò che sostieni. Vorrei parlare ora un po’ di te. Una volta uscita dall’Italia, ci sono esperienze e aneddoti che vuoi raccontare?
I: Quando ero a Cambridge ho insegnato Italiano sia a universitari sia a bambini e ragazzi inglesi. Insegnare la mia lingua mi ha fatto riflettere. Ricordo perfettamente che quando dovevo insegnare il maschile, il femminile e il plurale gli studenti mi rispondevano “ma voi siete pazzi!”, perché per loro è un incubo. In più, quando spiegavo l’uso della flessione plurale al maschile per gruppi misti, mi facevano notare come questo non avesse senso, e io stessa mi son chiesta che senso avesse.
Così mi son chiesta quale fosse l’impatto di essere nata e cresciuta parlando italiano, circondata da ragazzi e ragazze che parlano la mia stessa lingua. È stato un grande spunto di riflessione per ragionare sull’argomento e poi approfondirlo con la mia tesi di laurea.
Per quanto riguarda il ruolo della donna nell’ambito accademico e professionale ho notato grandi differenze. È chiaro però che ho frequentato un ambiente molto inclusivo, sia a Cambridge dove studenti di tutto il mondo e di entrambi i sessi convivono, sia a New York all’interno di UN Women. In generale, ho comunque percepito una grande inclusività nei confronti non solo delle donne, ma della diversità in generale.
A: Questo è sicuramente vero per quanto riguarda gli Stati Uniti, il “melting-pot”, dove persone diverse si sono trovate a collaborare. Parlando di New York, e facendo un paragone con Genova, quanto è evidente la differenza nella vita comune? Per esempio, ti hanno mai fischiato per strada?
I: Grazie per l’opportunità di approfondire questo aspetto, a cui tengo molto. In Italia, ho dato per scontato per anni cose che non devono e non possono essere normali. Il fischio per strada, per esempio, non è giusto che me lo aspetti.
Io non mi sono mai scandalizzata, perché non gli ho mai dato il giusto peso.
In realtà, in 5 anni all’estero, non ho mai ricevuto un fischio o un commento per strada, e non credo che all’estero le persone non si apprezzino a vicenda. Penso piuttosto che ci sia un livello di rispetto per cui il fischio lo rivolgo ad un cane, e non ad una ragazza che passa.
La maggior parte delle ragazze non apprezza questo tipo di approccio, perché non è un commento o un fischio che alla fine della giornata ti fa sentire bella, ti fa sentire bene. Piuttosto ti lascia quel senso di ingiustizia…
A: …e di mancanza di rispetto.
Nel corso degli anni, ho letto volentieri i tuoi interventi a difesa del ruolo della donna. Con classe, serenità e senza quell’aggressività tipica del mondo maschile, hai sviscerato diversi concetti molto importanti su cui non ci concentriamo spesso. Vorrei sapere che cosa significa, per te, femminismo?
I: Grazie per i complimenti. Io mi sento serena quando parlo di queste tematiche, ma non ho rabbia nei confronti di nessuno. Il messaggio femminista che voglio portare parla di collaborazione tra donne e uomini. Non è un problema delle donne, ma dell’umanità. In questa lotta non ci sono le donne contro gli uomini.
Nei miei post, cerco di ribadirlo continuamente. Non c’è bisogno di una donna che superi l’uomo, né tantomeno lo prevarichi. Bisogna dire agli uomini: “voi siete con noi, non contro di noi”.
A: Assolutamente d’accordo. Io stesso ho conosciuto il femminismo in questa accezione solo all’estero. In una società piuttosto machista come quella Italiana, che non si discosta molto dagli altri paesi latini o mediterranei, il femminismo ha assunto troppo spesso la forma di un maschilismo in rosa. Stesso vale per l’emancipazione della donna, che non è un compito del solo genere femminile, ma è un percorso da esplorare congiuntamente.
Grazie alle esperienze all’estero, e a diverse discussioni con ragazze e ragazzi provenienti dal Nord Europa, ho appreso che femminismo non significa anti-maschilismo. Respinta questa visione del femminismo così beceramente meridionale, ho cominciato a presentarmi fieramente come femminista perché sostenitore dell’eguaglianza di genere.
I: E tu perché pensi di aver raggiunto questa consapevolezza una volta uscito dall’Italia?
A: Beh è interessante che l’intervistata domandi all’intervistatore.
Scherzi a parte, credo sia dovuto al fatto che durante la mia adolescenza non ho mai parlato di femminismo con i miei coetanei, o coetanee, né ho mai appreso nulla dalla televisione. Quindi non ho mai avuto la possibilità di fare un ragionamento simile. Solo una volta tornato, ho avuto il piacere di incontrare amici e amiche femministe con cui condividevere la causa.
A Vienna ho avuto la fortuna di stringere amicizia con una ragazza svedese e una sera, di fronte ad una bottiglia di vino rosso, ci siamo avventurati negli stereotipi tipici di svedesi e italiani, dipingendo i primi come assolutamente femministi e gli ultimi come assolutamente machisti. Come ogni volta che si approfondisce uno stereotipo, ci siamo resi conto che la realtà è molto più profonda e variegata.
Mi ha spiegato così come il femminismo portasse ad uguali pagamenti per uguale lavoro, una tematica molto semplice e perfettamente illustrata in un video dove i protagonisti sono coppie di bambini norvegesi.
Arrivo così a chiederti: pensi che il femminismo sia qualcosa di diverso dalla filosofia del “gender equality”? Se sì, in cosa si differenzia?
I: Parità dei sessi intende riportare alla parità una serie di squilibri di genere che sono presenti nella storia più o meno recente. Come citavi prima, un esempio di parità dei sessi riguarda la parità dei salari.
Nell’ultimo evento UN a cui ho partecipato, il segretario generale Antonio Guterres ci ha presentato dati incontrovertibili, in cui si sosteneva che per ogni dollaro pagato ad un uomo, ci sono 77 centesimi pagati ad una donna. E lui, come tutti noi, si chiedeva: “Come posso giustificare ciò alle mie nipotine?”
E razionalmente nessuno di noi saprebbe dare una risposta. In primis, si deve ripensare al ruolo della donna e quindi alla parità dei sessi, e di conseguenza diritti e doveri verranno di conseguenza. Compreso ciò, l’umanità intera potrebbe giovare del pari potenziale di donne e uomini.
Il termine femminismo si riferisce sicuramente a quanto citato finora, ma include e sottolinea il ruolo che ha la donna nella società a livello di immagine. Ancora prima dei diritti, voglio lavorare per rivendicare la mia identità di donna nella società e l’importanza del mio ruolo in quanto donna.
Come te, mi sono avvicinata al femminismo solo all’estero, perché in Italia si tende a classificare il femminismo come una contro-violenza. Davanti a una pagina bianca in cui riscrivere queste idee, ho capito che il femminismo è per me una unione di uomini e donne rispetto a una causa comune, rispetto alla società e al mondo.
A: Diciamo che il femminismo è l’ideologia motrice e poi la parità dei sessi è l’obiettivo, la meta.
Secondo me molti ragazzi che ci ascoltano non si sono mai definiti femministi, non tanto per la paura di essere additati come “femminucce”, ma proprio perché si confonde femminismo come anti-machismo.
Ciò è interessante in merito a fenomeni, spesso etichettati con termini anglofoni, come “revenge porn” e “body shaming”. Vogliamo spiegare meglio cosa sono questi fenomeni e perché coinvolgono più spesso la donna che l’uomo?
I: Io sono più familiare con il fenomeno del “body-shaming”, perché è un argomento che mi sta a cuore e sono felicissima di poterne parlare qui oggi.
“Body-shaming” è tutto ciò che si riferisce, non solo all’aggressività e al giudizio rispetto al corpo della donna e dell’uomo, ma l’eccessivo focus nei confronti dell’aspetto esteriore. Credo che sia una pratica più violenta sulla donna, con differenze nelle varie culture e società per il mondo. In Italia, abbiamo sicuramente colpe innegabili, che partono dai media e nello specifico è iniziata nella televisione.
Siamo bombardati quotidianamente, oggi anche attraverso Instagram e Facebook, con immagini irraggiungibili, e le donne sono state esposte più degli uomini a modelli severissimi e completamente irrealistici. E così ci siamo trovati a dover soddisfare l’occhio dell’altra persona, o dello spettatore, senza però poter mai raggiungerlo. Ciò ha fatto sì che l’uomo desiderasse qualcosa che non esiste, e la donna si sente in dovere di rivestire quel ruolo, di raggiungere quegli standard.
Ma di che standard stiamo parlando? Andando all’estero, di nuovo, mi sono resa conto che gli standard variano, e che quei paletti assolutamente insormontabili che ti affliggono nell’adolescenza sono in realtà circoscritti alla città, o al paese, in cui sei vissuta. Non che all’estero non ci siano altri standard irraggiungibili, ma comprendere che quei paletti non sono assoluti ma piuttosto relativi e ristretti alla tua comunità, ti fa capire il peso che questi hanno, ridimensionandoli.
A: è notizia di cronaca recente (link) l’accusa di body-shaming commessa da Striscia la Notizia nei confronti della giornalista Giovanna Botteri, inviata storica di Rai3, per il suo look e i suoi capelli non curati.
Qui, alleggerendo un po’ il discorso, vorrei citare una battuta del comico satirico Filippo Giardina sulla mercificazione del corpo femminile. La battuta, assurda ed estrema come la migliore satira raccomanda, sostiene che questa immagine della donna perfetta non influenza l’uomo medio, perché lui si farebbe tutte.
Tirando fuori il messaggio dalla battuta, si sostiene che anche noi uomini siamo sottoposti a tali modelli: si possono incolpare gli uomini in generale per l’imposizione di questi modelli, perpetrata dalla televisione o da media?
I: Parlando di uomini in generale, assolutamente no. Penso che anche gli uomini siano sottoposti ad un modello che gli sta estremamente stretto. Maschi che devono fare i maschi, che devono per forza commentare, penso che non sia un modello in cui tutti gli uomini si ritrovano. Ne è in gioco la virilità dell’uomo.
Siamo vittime tanto quanto, uomini e donne. Il fatto però che, statisticamente, ci siano più uomini nelle posizioni di potere, sia esso politico, economico o mediatico, fa in modo che la lente con cui si osservano i fenomeni è spesso maschile. Penso che il problema si trovi in alto, ma bisogna lavorare nel nostro quotidiano e nel nostro piccolo per invertire la rotta anche “nei piani alti”.
A: Arriviamo quindi al ruolo e all’immagine della donna. Se vogliamo costruire una nuova immagine della donna, dobbiamo farlo noi? E a chi dobbiamo ispirarci?
I: Come dicevo prima, il cambiamento è lungo e difficile. Io mi ispiro a donne e uomini che hanno raggiunto degli obbiettivi con i mezzi propri. Un esempio che mi ha ispirato riguarda la vita di Stephen Hawking, grande cosmologo e scienziato dell’Università di Cambridge.
La sua storia, al di là delle grandi scoperte scientifiche, è significativa per la grande sofferenza legata ai suoi problemi di salute. È stato affiancato in questo cammino da Jane, che poi ha descritto la sua storia. Ciò che mi ha ispirato non sta solo nei suoi meriti accademici, ma nella dignità del suo essere donna e compagna di un grande uomo.
A: In ogni campo, trovare esempi che siano un riferimento a cui ispirarsi, è il modo migliore per cambiarsi, muoversi, migliorare. L’esempio di Jane è sicuramente interessante, donna di grande forza e di sostegno inattaccabile. C’è da dire però che Jane è passata alla storia come la spalla di Stephen Hawking, e alcune femministe potrebbero argomentare che il ruolo della donna non è di stare al fianco di un uomo geniale.
I: Capisco la critica, ma ciò conferma maggiormente l’esempio citato. Ho scritto un articolo dimostrando come per anni gli attributi geniale e intelligente siano stati legati solo all’uomo. L’esempio non è banale perché non credo che una donna possa sentirsi realizzata solo raggiungendo quegli standard che noi pensiamo come fondamentali, come per esempio il successo economico o professionale.
Questo non è femminismo.
Nonostante i numerosi esempi di donne in carriera a cui mi ispiro quotidianamente, Jane supera questi modelli perché rappresenta una donna a 360 gradi: lei non rinuncia ai suoi obiettivi professionali e accademici per supportare il suo uomo. E ciò vale sia per la donna che per l’uomo.
È il primo esempio completo che mi è venuto in mente e che volevo riportare, e consiglio a tutti la visione del film tratto dal libro di Jane “La teoria del tutto”.
A: È un esempio bellissimo. Vorrei parlare di nuovo della parità dei sessi e portare un esempio che dimostri quanto sia complicato il mondo dei diritti. L’Islanda ha parificato i tempi di paternità e maternità. In Italia, agli uomini è ancora concesso meno tempo a casa che alle donne.
Contro-intuitivamente, questo è un ostacolo per la donna più che per l’uomo, in quanto è ancora economicamente conveniente che una madre resti a casa rispetto ad un padre. Quanto è complesso quindi il mondo dei diritti delle donne, anche nei paesi occidentali?
I: In alcune aree, il tema è complesso e contraddittorio. Presso UN Women si ha lo stesso diritto di paternità e maternità, tanto per citare un esempio di best practice.
Ciò che hai citato è un limite per la donna, sia per un punto di vista pratico che psicologico. La donna ha a carico la gravidanza, che è un bene e una fortuna dell’essere donna, ma è una responsabilità non indifferente. L’uomo lo vive tanto quanto, ma fisicamente ci sono implicazioni psicologiche enormi.
Il padre che non ha lo stesso diritto di passare del tempo con il neonato, porta la donna ad aumentare le sue responsabilità sia come individuo, cioè come madre, che come persona nella società e nel mondo del lavoro.
A: Mi collego ad un discorso complesso, che introduce la differenza tra uguaglianza e parità. Uomini e donne sono diversi biologicamente, secondo tutti gli aspetti della sessualità e della procreazione. Ma come possono individui diversi godere degli stessi diritti?
I: Questa domanda mi è stata posta qualche giorno fa in una conferenza con il Liceo Cassini. Uomini e donne sono ovviamente diversi, ma ciò non ha niente a che vedere con i diritti. Le differenze tra le persone, in sesso, età, colore di capelli, non c’entrano in alcun modo con i diritti e doveri che abbiamo.
Mi piace paragonare il mio essere donna con il mio avere i capelli biondi. Come, una caratteristica che non scegliamo di possedere, può influire sul mio stare al mondo?
A: Esattamente. La differenza nei vari individui non deve implicare una diversità di trattamento, e di diritti, che sono invece un concetto universale esteso all’umanità in generale.
Legato a ciò, mi interessa capire da chi lavora all’interno delle Nazioni Unite, come affrontate il discorso riguardo all’“esportazione dei diritti”. I diritti dell’uomo sono un’invenzione occidentale che, per quanto condivisibile, non è propria di tantissimi paesi al mondo. Come fa l’ONU a portare avanti questa battaglia?
I: Innanzitutto mi preme specificare che l’adesione alle branche dell’ONU è volontaria, quindi i paesi scelgono liberamente di prendere parte a questa o quella convenzione. UN Women non è presente in molti paesi al mondo per una enorme quantità di motivi, ad esempio il fatto che è molto recente e che il femminismo suscita un forte contrasto con molte religioni e credenze presenti in molti stati al mondo, come per esempio in Medio Oriente.
Ad oggi, UN Women ha pochissime adesioni: i paesi membri dell’executive board sono solo 20 (su 208 riconosciuti, ndr). Il processo di negoziazione avviene tra questi paesi. Ciò che UN Women porta avanti per estendere il suo messaggio ai paesi non ancora membri, è organizzare eventi globali.
Il prossimo evento era fissato per Maggio 2020, ed è stato rimandato per via della pandemia in atto. L’evento si sarebbe chiamato Generation Equality Forum, sarebbe partito da Parigi, con l’inaugurazione del presidente Macron, e finito in Messico. Sarebbe stato un evento su grande scala, con tutti i paesi invitati, orientato a sensibilizzare le nuove generazioni ai temi della parità dei sessi. Sensibilizzazione e conoscenza: questo si sta impegnando a fare UN Women.
A: Molto interessante, sia il lavoro promosso da UN Women, sia il fatto che l’adesione alle varie branche dell’ONU sia su base volontaria. Grazie mille per la chiacchierata riguardo a femminismo, body-shaming, UN Women e altri temi che spesso non hanno l’esposizione mediatica che meritano.
Ti ringrazio nuovamente, ringrazio i lettori di Wall:out e ti auguro il meglio per tutto.
I: Grazie mille a te per l’opportunità e ai lettori tutti, ciao ciao!
Immagine di copertina:
UN Women
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