PATRIARCOUT 2025. Piccola, chiusa, pericolosa famiglia borghese

Piccola, chiusa, pericolosa famiglia borghese

Considerazioni di una mamma ventottenne.
13 Marzo 2025
8 min
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Due anni fa nasceva mio figlio Sebastiano. A quando il tuo articolo sulla maternità? – mi si chiedeva scherzando su una generazione privilegiata che ha tempo di speculare sulle proprie esperienze e crede che metterle per iscritto possa essere un atto di pubblica utilità.

Io che faccio in tutto e per tutto parte della categoria e non disdegno di regalare al mondo i miei pensieri, non ho naturalmente escluso di raccontare l’esperienza più significativa della mia vita.

Ma ho temporeggiato, immaginando che il tempo mi avrebbe portato più serenità e consapevolezza per poterci capire qualcosa, e in parte è successo, però non nel modo in cui mi aspettavo che succedesse: i motivi per cui fare figli è la cosa più bella del mondo restano oscuri, astrali, ineffabili (ma ci sono); i motivi per cui fare figli è la cosa più faticosa del mondo, invece, si sono delineanti chiaramente, e la rabbia che li accompagna è stata il motivo che mi ha spinta a scrivere questa ennesima, poco utile, considerazione personale.

Il cielo stellato sopra di me, la borghesia dentro di me

Da infante ad adolescente ti costruisci, nel bene e nel male, la tua cosmogonia personale.

Un firmamento di punti saldi, riferimenti, ancoraggi, che rimarrà più o meno silente per poi tornare tutt’a un tratto con imprevedibile urgenza nella vita adulta: quegli innocenti numi hanno molta più concretezza di quel che immaginavi, e scendono ora sulla terra con crediti da riscattare, conti da saldare e pezzi sparsi da riordinare.

Tu non lo sapevi, ma il vero gioco inizia ora.

Non è solo diventare grandi, diciamo così, è trovarsi faccia a faccia con le regole sbagliate del sistema, e scoprire con immensa disillusione che quelle regole ci sono sempre state, e anche quando tu non te ne curavi, qualcuno le rispettava per te.

Nella nostra fortunata parte di mondo, infanzia e vita adulta si vuole che siano intramezzate dagli anni dello studio: parentesi mitica / buco nero / esperimento di libertà vigilata.

Anni in cui ci si diverte alla grande, quando a farti vivere ancora ci pensano altri, e hai tutto il tempo per pensare e immaginare nuovi mondi.

Capolavoro di crudeltà, questi anni in cui letture e frequentazioni ti portano insieme a uno spirito anarchico l’illusione di essere immune dallo schifo che c’è tutt’intorno, e il desiderio di trovare per te, la tua comunità, il mondo intero, una via di scampo.

Anni che passi a correre più lontano che puoi finché non arrivi alla Samarcanda del sistema dove la borghesia è lì che ti aspetta e ti dice:

Dove credevi di andare? 

A un tratto accade qualcosa che attiva una catena di preoccupazioni e urgenze assolutamente nuove: la nascita di un figlio, la morte di un genitore, gli anni che improvvisamente sono già passati.

È lì che ci accorgiamo che il modello di famiglia borghese tradizionale col quale siamo cresciuti e che abbiamo incorporato, anche se ci immaginavamo di esserne fuori con ingenuità puerile, ha fatto crescere in noi come semi guasti convinzioni molto più forti di quanto avremmo potuto immaginare.

Tra queste, in ordine sparso:

la crescente urgenza di procurare ogni bene per il proprio piccolo e chiuso nucleo famigliare, quale che sia la sua forma; l’ossessione di costruire nel proprio piccolo una struttura abbastanza solida e duratura, fatta di relazioni rassicuranti e affetti stabili; l’illusione che le mura di casa possano diventare l’architettura ideale per la propria felicità e serenità, da quando la ricerca della felicità individuale è diventato l’unico vero scopo delle nostre esistenze.

Fare un figlio, per esempio, porta la conferma inequivocabile che queste convinzioni erano così radicate da resistere, silenti e profonde, per tutti gli anni del libertinismo, l’università, la scoperta del mondo e l’entusiasmo per la contestazione. 

Che la borghesia è dentro di te, quando fai un figlio, te lo indicano molti segnali.

Tra i primi, la rabbia di accorgerti che non potrai mai offrirgli quello che hai ricevuto tu; perché sì l’amore, la libertà del pensiero, ma soprattutto le risorse.

Inizi a fare pensieri sinistri su quali siano oggetti e materiali più funzionali alla sua crescita felice, accorgendoti che la qualità è quasi sempre proporzionata al prezzo.

Ti senti responsabile del suo adattamento in società, e inizi a pensare che più possibilità gli offri meglio è.

Inizi anche a volerlo proteggere, morbosamente e rabbiosamente, e il dolore degli altri inizia a infastidirti quando intacca la sicurezza del tuo fortino, perché ancora non lo accetti, ma lo stai già costruendo con sudore e sangue da vero/a borghese.

La borghesia di oggi è peggio di quella di ieri

Basta poco per accorgerti che questa società ti stringe in una morsa sempre più stretta.

Tra il dedicarti al bambino e il costruire un futuro che non è più solo tuo, riscrivi le priorità e vedi come non ci sta più tutto: lavoro, viaggi, vacanze che a volte diventano un vero inferno, attività fisica, lettura, film, amicizie, rapporti da mantenere vivi e coltivare. La tua salute. Questo è importante, quest’altro è fondamentale.

Devi fare un piano per i risparmi, riscattare gli anni dell’università e richiedere il rimborso della retta dell’asilo.

Ogni cosa viaggia sul suo binario, sta a te fare le acrobazie per provare a tenere insieme non dico tutto, ma almeno qualcosa.

Poi ti trovi a preparare da mangiare e fare il bucato per te e per la tua famiglia: era l’ultima cosa che avresti immaginato, eppure, stai desiderando di saper cucinare abbastanza bene da far sentire tutti a casa, e cerchi il detersivo con il profumo che più si avvicina alla tua idea di famiglia.

Si dice che oggi i papà siano più presenti, ma certe tradizioni di genere sono dure a morire.

In ogni caso, l’epigonismo è schiacciante, ovviamente, se pensi a quando eri figlia tu: non è solo insuperabile ricordo d’infanzia, è carovita triplicato e welfare eroso all’osso.

La società dice: corri veloce, non perdere tempo.

Una mamma non ce la fa a correre la corsa della società se deve accudire un bimbo piccolo. Perché che lo vogliamo o no il modello è ancora quello della tradizionale famiglia borghese e le cure primarie ricadono sulla madre, perché vuoi per biologia o per cultura incorporata, ma se un bambino ha bisogno chiama la mamma.

E un bambino ha sempre bisogno, di notte e di giorno.

O madre o lavoratrice

Com’è compatibile questo lavoro di cura estenuante, usurante, senza tutele né sindacato, con la carriera — tutta costruita sul modello uomo — che la società borghese magnanimamente concede alle donne?

Se la borghesia accetta che le donne competano con gli uomini nel mondo del lavoro (perché di competizione si tratta), ma vuole donne madri attente e presenti, è naturale che poi decidiamo di non fare figli oppure di fare le madri a tempo pieno, e in ogni caso la società ci legge un fallimento.

La cosa che fa meglio questo sistema è metterti con le spalle al muro, a scegliere tra le due illusioni più grandi che è riuscito a instillarti nel profondo: realizzare te stessa come lavoratrice, oppure realizzare te stessa come madre.

Chi tenta di sceglierle entrambe viene glorificata per il suo sacrificio doppio, ma la sua sofferenza e la sua frustrazione restano affare privato.

Chi ne sceglie solo una, si fa carico della pressione sociale che comporta aver “rinunciato” all’altra, e anche in questo caso sofferenza e frustrazione possono eventualmente essere tamponate in terapia privata, se ci sono risorse che lo permettono.

Chi non ne sceglie nessuna, strega.

E madre o padre che tu sia, da genitore il tempo diventa preziosissimo: ogni minuto è una moneta. Non c’è modo di oziare, meditare, abbandonarsi alla deriva creativa.

Ogni ora ha veramente un costo: la babysitter, l’asilo oppure i favori di genitori o amici, che chiedere aiuto per molte persone è terribilmente faticoso quando si sa che si ha poco (tempo, attenzioni, energie) da restituire in cambio. E nella società borghese dove ogni cosa ha un prezzo, i sinceri slanci di altruismo sono merce rara.

C’è l’amore, chiamiamolo così e sospendiamo il giudizio, c’è la gioia, sì. Ma a rimanere invisibili e sempre troppo trascurati sono la fatica, il sonno, la frustrazione, il lavoro ininterrotto, la progressiva erosione di ogni spazio personale.

Le famiglie nei primi anni di vita dei figli si chiudono nelle mura di un’appartamento sempre più piccolo, dove, salvo rare felici eccezioni, le coppie dialogano sempre meno, a volte per esigenze di cura iniziano a dormire separate.

Le urgenze e le contingenze occupano tutto, e i piani a lungo termine, i progetti di risparmi e investimenti rendono terribilmente volgare (perché borghese) una quotidianità che prima era fatta di condivisione, indugi e attenzioni. 

Tutto questo è una grandissima messa alla prova, da tutto questo si esce illesi solo se si hanno strumenti e risorse per trovare il giusto atteggiamento psicologico.

Tutto questo in due persone è veramente tanto, troppo da sostenere.

Le mura della famiglia borghese sono una trappola che vista da fuori ha ancora la parvenza di un nido d’amore e gioia.

Il capolavoro di illogicità, poi, è che più si fatica (per via delle contraddizioni del sistema), più si difende il poco che si ha proprio all’interno delle strutture del sistema. Tutto ciò che sta fuori le mura di casa sembra disgregarsi e perdersi tra le battaglie perse e la rassegnazione ai poteri forti.

Et voilà, si cancella lo spazio per pensare al bene comune, che seppur abbia sortito esiti discutibili, almeno quello le scorse generazioni ce l’avevano, e lo difendevano.

Vuoi per la complessità, per la caduta delle grandi narrazioni, ma assistiamo a una diminuzione esponenziale degli spazi della partecipazione. Sembra che il bene comune, siccome è di tutti, non valga più la pena difenderlo.

Il triste risultato è che non sappiamo più in cosa credere, dal momento che molti di noi non credono neanche più in se stessi, perché anche il mito americano dell’auto-realizzazione inizia a perdere credito.

Epilogo

Se le contraddizioni del mondo siano risolvibili o se una certa, nuova e fresca politica possa arginare almeno i danni più gravi, lascio la parola al resto di Patriarcout. Non mancano prese di coscienza e preziosissimi esperimenti di solidarietà oltre i confini della struttura precostituita. 

La mia conclusione è dolceamara. A chi mi chiede com’è fare un figlio oggi rispondo che è difficile. Però a me ha fatto imparare tante cose.

La più importante: ripartire dalle basi.

Cioè, ricostruire giorno per giorno l’architettura delle emozioni e delle relazioni fondamentali, e scoprire che il modo migliore per voler bene alle persone (e a me stessa) è non pretendere nulla.

Nulla da una donna in quanto tale, da una mamma, un figlio, un papà, un compagno, un’amica in quanto tale. 

I problemi che sorgono sul piano materiale sono tanti e per molti schiaccianti. Ma provare (per quanto mi riguarda è l’unico modo) a viverla come un’esperienza spirituale, un campo di battaglia per migliorarsi e superare i limiti di mente e corpo, restituisce veramente tanto.

Restituisce la possibilità concreta di ripensare a se e alla società in modi più sani, gentili, solidali.

Un figlio è un collegamento diretto con l’energia della vita, o con l’energia dell’universo. Accudirlo talvolta significa sperimentare i propri limiti, faticare fino allo stremo delle forze, vedere crollare previsioni e convinzioni.

Superato lo shock, questa esperienza può rivelarsi come un vero miracolo.

Sarà difficile ma è illuminante perlustrare i confini e sbirciare il mondo dal limite, vedere le strutture e le architetture sociali così goffe, sbagliate, precarie, di fronte alla forza dell’universo che si manifesta in un bambino che piange, o che ride. 

Immagine di copertina:
Grafica wall:out magazine su illustrazione di Rebecca Fritsche


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Membro del duo curatoriale Mixta con il quale si occupa di progetti artistici che siano attivatori sociali. Ha curato mostre, rassegne e festival negli spazi pubblici, nelle periferie e nei luoghi istituzionali della città di Genova. È anche fondatrice e CEO di Wanda, associazione per la trasformazione culturale, che accorcia le distanze tra le nuove generazioni e la cultura.

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