Il 28 marzo 1980, prima ancora dell’alba, in via Fracchia 12 nel quartiere di Oregina, i carabinieri fecero irruzione in quello che era stato individuato come il covo delle Brigate Rosse a Genova. Bilancio: un maresciallo gravemente ferito e quattro brigatisti morti. Anche per questo bilancio l’Irruzione in Via Fracchia resta uno degli episodi più significativi degli Anni di Piombo e della lotta che lo Stato mise in atto contro le BR, che proprio a Genova avevano una colonna sì forte da poter dire che la nostra Città sia stata una delle “capitali delle Brigate Rosse” (articolo di wall:out 24/01/1979, Genova capitale delle Brigate Rosse).
Ma cosa avvenne quella mattina di inizio primavera, immersa nel clima di quegli anni, quelli della strategia della tensione e nel loro contesto informativo, vale a dire il vuoto? Capirlo è ancora oggi davvero difficile.
Proviamo a ricostruire i pezzi del puzzle, a tutt’oggi incompleto
Via Fracchia per Genova rieccheggia a causa di un altro tragico evento: solo 1 anno prima, il 24 gennaio 1979, proprio a pochi passi da quel civico 12 sede del covo, venne ritrovato il cadavere del fiero operaio sindacalista Guido Rossa, vittima della vendetta delle BR.
Possibile abbiano compiuto un crimine così efferato proprio sulla soglia del covo?
Badate però che nulla si sapeva delle BR: nulla davvero! Non si sapeva chi fossero gli aderenti, né dove o quando si riunissero: non c’erano telefonini da intercettare, blog o scambi di informazioni telematiche da decriptare, nulla di tutto questo, ecco la forza della clandestinità. Vigeva all’interno delle BR la “compartimentazione” cioè nemmeno i singoli affiliati si conoscevano tutti tra loro, era la Direzione Strategica a conoscere tutti e inviare a ciascuno singolarmente le informazioni necessarie a quel singolo per agire, magari anche in gruppo.
Questa tecnica organizzativa rendeva davvero segreta l’organizzazione, perfino ai propri aderenti, comportava la segretezza dei piani di azione fino al compimento, metteva al riparo l’organizzazione da spifferate o pentimenti in casi di fermi o arresti dei singoli aderenti. Solo la Direzione Strategica aveva contezza completa di ciò che accadeva e dei piani da mettere in atto, ed infatti le BR cominciarono a crollare solo quando si pentirono alcuni degli uomini al vertice e quando l’infiltrazione da parte dei servizi segreti raggiunse l’apice dell’organizzazione.
Questo mix tragicamente vincente di clandestinità e compartimentazione fece conferire alla colonna genovese l’appellativo de “gli imprendibili”.
E proprio un caso di pentimento fu determinante per l’irruzione di Via Fracchia: quello di Patrizio Peci
Patrizio Peci militava nella colonna torinese delle BR, era buon amico di Rocco Micaletto (leader non solo della colonna torinese, ma anche di livello nazionale), ed infatti assieme vengono “arrestati” a Torino in Piazza Vittorio Veneto, in un giorno imprecisato (diverse fonti indicano date diverse) tra 18-19-20-21 febbraio 1980. “Arrestati” tra virgolette perché anche questo evento non è mai stato chiarito.
Alla ipotesi più piana e semplice del pedinamento cui è seguito l’arresto, è da sempre posta accanto l’ipotesi del “doppio arresto” ossia di un primo arresto (il 13 dicembre 1979), cui è seguito l’accordo di un rientro nelle fila delle BR per acquisire nuove informazioni, e poi un successivo arresto definitivo. Detto ciò, dire “arresto” suona ancora più strano, visto che Patrizio Peci, nome di battaglia Mauro, appunto è il primo pentito delle Brigate Rosse: pare davvero più probabile che i due brigatisti si siano fatti trovare, e poi sia stato annunciato l’arresto, anche al fine, ovvio, di non mettere eccessivamente in allerta le BR.
Peci aveva partecipato, diciamo fortunosamente, alla riunione della Direzione Strategica tenutasi a dicembre 1979 proprio in Via Fracchia. Non conosceva bene la zona né ricordò subito numero civico o interno dell’abitazione, ma aveva impresso il nome della via grazie all’allora celebre personaggio tragico-comico, antesignano di Fantozzi, interpretato da Paolo Villaggio: Fracchia, la belva umana, non poteva scordarselo!
L’informazione rivelata da Peci è preziosissima.
In Italia il clima politico è incandescente: la legge sui pentiti voluta dal Generale dei Carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa e dal Presidente del Consiglio Francesco Cossiga era ad un passo, mancava una prova di efficacia, ed eccola qua servita; a Genova nei precedenti cinque mesi le BR avevano ucciso quattro membri delle forze dell’ordine e feritone uno (Mario Tosa e Vittorio Battagliani il 21 novembre 1979, Antonino Casu e Emanuele Tuttobene -“uomo di punta di Dalla Chiesa”, a detta dei brigatisti- il 25 gennaio 1980 quando viene anche ferito Luigi Ramundo), senza contare i feriti civili; si stava per compiere a Torino una serie di retate per catturare finalmente non pochi terroristi, non potendosi rinviare l’azione di Genova.
C’era quindi anche il timore dello smantellamento del covo, sulla cui reale esistenza si era certi al 90%, ma di cui poco o nulla si sapeva. Le forze dell’ordine presidiarono la zona attorno a Via Fracchia per due giorni, ma non riuscirono a comprendere se e quanti brigatisti vi avrebbero trovato. Tutto ciò è dichiarato dal capitano Michele Riccio cui venne affidata l’operazione.
L’unico soggetto previamente individuato e conosciuto era Annamaria Ludmann, “ragazza per bene” leggendo la sua biografia sino ad allora, da poco dimessasi dal proprio impiego da segretaria per dedicarsi a tempo pieno al supporto della colonna genovese, in cui aveva un ruolo logistico.
E così, sul far del giorno avvenne il blitz
Stando ai carabinieri erano le 4:30 del mattino, ma l’orologio della Ludmann risultò fermo alle 2:42, e un giornalista ha dichiarato recentemente di essere stato avvertito del blitz da una chiamata alle 3 del mattino (dichiarazione finita negli Atti della Commissione Parlamentare di Inchiesta sul caso Moro).
Non è chiaro se i carabinieri di Dalla Chiesa erano in possesso delle chiavi dell’appartamento (si dice avendole trovate nelle tasche dell’arrestato Micaletto) o se ne forzarono la debole porta.
Non è chiaro come si arrivò allo scontro a fuoco, se vi fu una interlocuzione tra carabinieri e brigatisti.
Probabile appare che i brigatisti vennero sorpresi nel cuore della notte, non è chiaro che tipo di scontro a fuoco si instaurò: il maresciallo Rinaldo Benà venne colpito all’occhio ad inizio operazione (pare dal brigatista Betassa), e questo certamente contribuì ad alzare la tensione tra i colleghi, che lo videro cadere a terra, intuendo comprensibilmente la letalità del colpo subito (fortunatamente Benà, pur perdendo l’occhio, si salvò, sottoposto ad intervento chirurgico: anche qui non v’è ancora chiarezza sull’orario in quel terribile mattino).
Venne quindi acceso un faro e puntato dentro l’abitazione verso il corridoio (i carabinieri avevano la pianta catastale dell’abitazione, riconosciuta con sicurezza da Peci) dove le forze dell’ordine riferiscono di aver visto a gattoni avanzare altre tre figure armate, la Ludmann in particolare con una bomba ‘ananas’ in mano, e quindi di aver aperto sì il fuoco per primi, avendo intimato vanamente ai brigatisti di arrendersi e farsi trovare disarmati.
L’azione dura nel complesso 9 minuti, per lo più al buio, con una tensione forse perfino più alta da parte dei carabinieri che dei brigatisti.
Ai giornalisti è impedito l’accesso al luogo per giorni, così come ha ricordato ormai anni dopo nel 2004 il divenuto direttore del “Corriere Mercantile” Mimmo Angeli:
«dappertutto carabinieri in borghese e in divisa. I colleghi non ebbero nemmeno il tempo di dire “siamo giornalisti” che si trovarono faccia al muro con i mitra spianati […] un cordone ferreo attorno al palazzo. L’ordine perentorio: “nessuno può entrare” veniva ripetuto seccamente con monotonia quasi ossessiva dai carabinieri in borghese. Neppure il vice-questore Arrigo Molinari riuscì ad entrare; anzi, con decisione, venne invitato ad allontanarsi».
Appunto ad Aprile 2004 sul Corriere Mercantile, grazie ad una significativa serie di reportage del giornalista genovese Andrea Ferro, vengono finalmente pubblicate le foto relative ai primi momenti successivi al blitz.
Le pagine dell’inchiesta del 2004 condotta da Andrea Ferro sul Corriere Mercantile. Fonte Pinterest Le pagine dell’inchiesta del 2004 condotta da Andrea Ferro sul Corriere Mercantile. Fonte Pinterest Le pagine dell’inchiesta del 2004 condotta da Andrea Ferro sul Corriere Mercantile. Fonte Pinterest Le pagine dell’inchiesta del 2004 condotta da Andrea Ferro sul Corriere Mercantile. Fonte Pinterest
Sin da subito vennero avanzati dubbi relativi alla posizione dei cadaveri se confrontati con le versioni dei carabinieri, con le relazioni balistiche svolte, e con le conclusioni delle indagini partite ad aprile 1980 e terminate a febbraio 1984. Se i carabinieri dichiararono e la magistratura confermò la tesi della difesa proporzionata all’offesa minacciata, i brigatisti accusavano le forze dell’ordine di una strage, premeditata e perpetrata contro soggetti arresisi.
È il 4 aprile 1980 il giorno delle prime notizie
Da un lato i carabinieri rilasciano la loro versione dell’accaduto, dall’altro le Brigate Rosse rivelano il nome vero di Roberto, il brigatista riverso per primo verso la porta di ingresso nell’appartamento di via Fracchia. A distanza di giorni, tale era il grado di clandestinità e compartimentazione, che i carabinieri ancora non erano riusciti a risalire alla vera identità di tutti e quattro i brigatisti rimasti uccisi: chi erano?
E pensare che già il 29 marzo le BR avevano diramato la descrizione dei quattro brigatisti, ma non bastò. Di Annamaria Ludmann si è detto, nome di battaglia Cecilia; Lorenzo Betassa, nome di battaglia Antonio, era operaio e sindacalista alla FIAT di Mirafiori a Torino, dove era tra i leader della colonna locale, complice dell’assassinio del Presidente dell’Ordine degli Avvocati Fulvio Croce, rifugiatosi a Genova avendo fiutato l’accerchiamento dei carabinieri nella capitale sabauda; e così come lui trasferitosi a Genova era Piero Panciarelli, nome di battaglia Pasquale, operaio della Lancia a Chiavasso (TO), descritto come un caro amico dal Peci nella propria autobiografia.
E chi era quindi quel Roberto? Non si può che restare sorpresi nel rilevare che i carabinieri non sapevano di aver trovato ed ucciso Riccardo Dura.
Riccardo Dura, leader della colonna genovese, probabilmente il più violento e imprevedibile, autore non autorizzato degli omicidi del magistrato Francesco Coco, del maresciallo Antonio Esposito, dell’operaio Guido Rossa, già aderente a Lotta Continua in cui legò particolarmente con Andrea Marcenaro, cui va il merito di aver riconosciuto Dura nella descrizione di Roberto nel comunicato del 29 marzo ed aver così spinto le BR a rivelarne l’identità.
Solo l’8 aprile 1980 i magistrati e i giornalisti sono finalmente ammessi nell’appartamento luogo dell’irruzione
Peraltro ai giornalisti è permessa la visita uno-due alla volta, per soli tre minuti, accompagnati da un ufficiale dell’arma. Ciò è comunque sufficiente al fine di notare, tra le tante cose dubbie, che nel muro sul pianerottolo a fianco della porta di ingresso dell’abitazione vi sono quattro fori di arma da fuoco e la porta appare in ottime condizioni.
Da allora ogni anno in occasione della tragica ricorrenza emergono notizie, retroscena, provocatorie commemorazioni, talvolta rivelazioni, altre volte conferme su cosa realmente avvenne quel mattino di 41 anni fa.
E così il già citato reportage di Andrea Ferro nel 2004 sul Corriere Mercantile è certamente stato un elemento di arricchimento significativo per provare a fare ancora luce, così l’esposto di Luigi Grasso nel 2017 in ordine alle circostanze della morte di Dura ha fatto aprire delle indagini che hanno portato alla scoperta che il fascicolo d’indagine originaria è sparito.
Sull’irruzione davvero non è chiaro se si trattò di reazione proporzionata in un ambiente buio e angusto, come hanno riferito tra i tanti anche Dalla Chiesa, Riccio e Cossiga. O se si trattò di strage efferata mossa da spirito di vendetta, se non persino di mera esecuzione, come hanno sostenuto non solo da sempre le BR, ma anche altri autori più recentemente, che hanno provato a ricostruire ex post la vicenda fondandola su molti altri elementi raccolti.
Quello che è sicuro è la rilevanza dalla irruzione nel covo di Via Fracchia – certamente per il bilancio di vite – ma soprattutto per la forte connessione con il più noto “attacco al cuore dello Stato”: il rapimento sequestro e assassinio di Aldo Moro.
Pare infatti ormai chiaro e non solo probabile la fondata speranza nutrita dal generale Dalla Chiesa di trovare nel covo di via Fracchia documenti, bobine, registrazioni contenenti informazioni che Aldo Moro avrebbe potuto aver rivelato alle Brigate Rosse nei 55 giorni della prigionia sottoposto al processo politico portato avanti dal tribunale del popolo, o magari anche le 2 borse sottratte dall’auto di Moro il 16 marzo 1978, giorno del rapimento, e mai più ritrovate.
Non è invece altrettanto sicuro cosa nel covo di via Fracchia venne davvero rinvenuto quella mattina.
Certamente un arsenale di armi, targhe rubate e contraffatte, materiale per produrre documenti falsi, tutto così come anticipato da Peci, ma non è sicuro cosa altro sia stato rinvenuto. E così, se stando alle parole di uno dei magistrati delle indagini sopraggiunto attorno alle 6 del mattino in giardino c’era uno scavo fresco, stando a quelle di un altro degli inquirenti, sopraggiunto prima del collega, invece nulla si trovò afferente al caso Moro. Anche i legami sottotraccia tra magistratura e forze dell’ordine erano ovviamente meno afferrabili allora.
Cosa resta ancora oggi a noi di quel 28 marzo 1980?
Tanti misteri e interrogativi, lo abbiamo visto. Ma una incontrovertibile certezza: fu il vero inizio della fine delle Brigate Rosse.
Il blitz taglia la testa alla imprendibile colonna genovese e ne demolisce il mito di inafferrabilità, come sontuosamente e coraggiosamente espone il giornalista del Corriere della Sera Walter Tobagi nei suoi articoli “Adesso si dissolve il mito della colonna imprendibile” e “Non sono samurai invincibili”.
Il primo pezzo uscì già il 29 marzo, il giorno dopo l’irruzione, e già dal titolo aveva il fine chiaro di sfatare quel mito che aleggiava attorno ai brigatisti genovesi, trasmettendoci i sentimenti dell’opinione pubblica di allora:
«quel che è successo l’altra notte, in fondo, alla gente appare come il contrapposto inevitabile di questo stillicidio di sangue […] E’ come se persino un sentimento di pietà non possa più trovar spazio; ed è la conseguenza più avvilente di quella strategia perversa che ha voluto puntare sulla lotta armata […] La dimensione della “svolta” è difficile da valutare. Certo, il mito dell’imprendibile brigatista genovese, che colpisce ma non può essere mai scoperto, comincia a dissolversi […] L’altra “svolta” riguarda la decisione con cui sono intervenuti i carabinieri, troppe volte negli ultimi mesi vittime designate degli agguati più brutali. Poco si sa di come si sia sviluppata l’operazione, comunque risulta chiaro il massiccio spiegamento delle forze e l’impiego di nuovi mezzi antiguerriglia […] Come a dire: alla sfida sul terreno delle armi, si risponde con lo studio di nuove tecniche che mirano a garantire non solo l’efficienza, ma anche la sicurezza degli uomini in divisa».
Il secondo pezzo, uscito il 20 aprile, è ancora più deciso nell’affermare la debolezza delle BR e nel pronosticarne la fine:
«è tanto estesa, dunque, l’organizzazione brigatista, o non ci si trova di fronte a un gioco degli specchi per cui un gruppo di poche decine di persone riesce a sembrare un piccolo esercito? A voler essere realisti, si deve dire che il tentativo di conquistare l’egemonia nelle fabbriche è fallito. I terroristi restano isolati dal grosso della classe operaia. Epperò sono riusciti a penetrare in alcune zone calde di grandi fabbriche […] Stupisce sapere […] che la mitica direzione strategica delle Brigate Rosse sarebbe formata da non più di cinque persone: gli operai Betassa e Dura, il tecnico Moretti, la maestrina Balzerani [sic.] e l’ex cameriere Peci {e avete inteso quanto l’irruzione di Via Fracchia abbia quindi spazzato via!, nda}[…] In ogni caso, conviene non cadere nelle facili mitologie per cui uno diventa l’inafferrabile e l’altra onnipresente. Lo sforzo che si deve fare è di guardare la realtà nei suoi termini più prosaici, nell’infinita gamma delle sue contraddizioni; senza pensare che i brigatisti debbano essere, per forza di cose, samurai invincibili […] Intendiamoci: le Brigate Rosse si sforzano di dimostrare una forza superiore a quella reale […] La lezione pare fin troppo chiara: le lotte sindacali più dure, quelle oltre i limiti convenzionali della legalità, sono servite agli arruolatori delle BR come un primo banco di prova e di selezione. Il sindacato dovrà tenerne conto, giacché i proclami nobili vanno accompagnati con revisioni coerenti. Questo può implicare anche una temporanea diminuzione del potere sindacale in fabbrica […] La sconfitta politica del terrorismo passa attraverso scelte coraggiose: è la famosa risaia da prosciugare […] tenendo conto di un altro fattore decisivo l’immagine delle Brigate Rosse che si è rovesciata, sono emerse falle e debolezze. E forse non è azzardato pensare che tante confessioni nascano non dalla paura, quanto da dissensi interni, laceranti sull’organizzazione e sulla linea del partito armato».
Tobagi tragicamente pagò per queste sue parole vere e durissime nei confronti delle BR: venne ucciso il 28 maggio 1980 (il Post) per mano della Brigata XXVIII marzo, nome preso proprio dal giorno dell’irruzione in Via Fracchia.
Il blitz colpì duramente l’intera organizzazione delle BR nella sua Direzione Strategica
Per le persone perse, per gli arresti di altri esponenti indicati da Peci, per l’ovvio abbandono immediato delle altre basi logistiche magari note a Peci, cancellando il lavoro di anni, tagliando di netto legami e connessioni non recuperabili, come diremmo oggi, dall’archivio cloud.
Il blitz poi fu un segnale forte della capacità della lotta dello Stato contro le BR, impressionò l’opinione pubblica ed è da ipotizzarsi anche aderenti e simpatizzanti. Alcuni hanno detto che il blitz fu anche la condanna per lo stesso Dalla Chiesa, ma par di voler così enfatizzare un singolo evento a fronte di una azione portata avanti nel corso di diversi anni.
Proprio il 14 ottobre del 1980 la marcia dei quarantamila quadri FIAT, manifestazione anti-sindacale poiché erano ormai 35 giorni che i picchettaggi impedivano a impiegati e quadri di entrare in fabbrica: la mancata risposta degli operai fu uno shock per le BR, che lo lessero come il segnale della sconfitta del proprio movimento rivoluzionario.
Da quel 1980 le azioni delle BR apparvero senza quel nesso così forte, «senza cervello» disse Alberto Franceschini, uno dei leader delle stesse BR, e ancora di «vero terrorismo» nel senso di violenza gratuita senza più alcuna finalità. Da quel 1980 le BR si spaccarono e si slegarono, ogni colonna prese ad andare per sé, non reggendo ormai più quell’elemento di verticalità e obbedienza che così tanto aveva contribuito a rendere le BR invisibili e imprendibili.
Non possiamo non ricordare che lo stesso Patrizio Peci pagò per le proprie rivelazioni: il fratello Roberto venne rapito, tenuto in sequestro per 55 giorni, ‘processato’ e infine ucciso (tutto filmato) il 3 agosto 1981.
L’irruzione in via Fracchia fu quindi una vittoria nella lotta al terrorismo, una vittoria col proprio prezzo.
E con ancora tante ombre e misteri. È un evento tragico e significativo della storia del nostro Paese e della nostra Città: per questo va ricordato, per questo se ne deve ancora oggi parlare.
Fa parte di una ‘pagina buia‘ della nostra Città, ma non deve spaventarci: la verità può ogni giorno di più tornare ad illuminarla, e «non bisogna mai dolersi di dire la verità. La verità è sempre illuminante. Ci aiuta ad essere coraggiosi» diceva Aldo Moro.
Immagine di copertina:
Illustrazione di Martina Spanu
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