Ciao Antonio, presentati ai lettori di wall:out
Ciao Francesco, mi chiamo Antonio, in arte Rois_One. Sono un graffiti writer e un appassionato di fotografia. Sono spesso diviso tra questi due interessi e, nonostante sia riuscito in passato a fare della fotografia un lavoro, credo di preferire il processo creativo del graffito, in cui mi applico da più di vent’anni.
Quando e com’è nata la tua passione per i graffiti?
Il mio incontro con questa cultura fu praticamente casuale. Era il 1996 e all’epoca abitavo nel basso Piemonte, la cosiddetta campagna, che in estate veniva frequentata da alcuni dei writer che stavano formando la scena genovese. Le amicizie in comune mi portarono a entrare nel giro e a conoscere, appunto, i graffiti. Poi un giorno trovai una piccola bomboletta da carrozziere da 200ml per strada e da lì mi si aprì questo mondo legato al potere della comunicazione pubblica.
Sono molto legato a questa forma artistica anche per il ruolo sociale che ha giocato nella mia vita, permettendomi di stringere belle amicizie con altri ragazzi che come me facevano parte di una nicchia culturale assolutamente underground costretta a operare nell’illegalità. Oggi infatti Internet ha aperto uno spazio comunicativo unico per chi come noi non aveva modo di esprimersi attraverso i canali ufficiali (o mainstream) che ignoravano, o peggio fraintendevano, la nostra arte e le nostre necessità.
Ci “taggavamo” [apporre la propria firma d’arte, ndr] la suola delle scarpe Vans nella speranza di incrociare qualcuno che come noi adottasse quel linguaggio, e traevamo reciproca ispirazione dai graffiti che dipingevamo sui treni, in viaggio dentro e fuori dai confini regionali e, occasionalmente, nazionali. Per noi stazioni e vagoni erano gallerie d’arte itineranti su binari.
Una pubblicazione che ripercorre in maniera approfondita questa pratica è “All City Writers” di Andrea Caputo, dove si evidenzia come questa necessità di networking artistico fosse nata sulle carrozze della metropolitana di New York, dove tutto ebbe inizio, e di come si fosse poi estesa e diffusa in maniera esponenziale attraverso la rete ferroviaria europea.
Un ragazzo come me da Genova poteva vedere la scena di Milano, Roma o Pisa e a loro volta i milanesi osservavano i graffiti che arrivavano da Parigi o Berlino.
Non fu un caso infatti che dopo qualche anno, complice la mancanza di spazi dedicati al graffitismo, mi appassionai alla fotografia, intento a esprimermi attraverso un mezzo differente, che ha caratterizzato la mia carriera da outsider.
Sono curioso di sapere come si sia evoluto il tuo percorso artistico, dimmi di più!
Con l’arrivo del nuovo millennio molti writer iniziarono a operare all’interno degli edifici abbandonati sul territorio ligure, che negli anni ’50 aveva vissuto un boom dell’edilizia industriale e popolare.
Queste cattedrali di nessuno rappresentavano un’opportunità unica per noi artisti che, in tranquillità, potevamo dedicare maggior tempo e spazio alla creazione di graffiti più elaborati e ambiziosi. Questi luoghi mi aiutarono a sviluppare una visione documentaristica della fotografia, grazie alla quale ho anche sviluppato la capacità di inquadrare in maniera più efficace le mie opere.
Fu proprio durante una delle mie prime mostre sugli scorci post-industriali genovesi che fui contattato da un fotografo professionista con studio in centro per fare di questa mia passione un lavoro.
Con il passare degli anni e l’arrivo di Internet il mondo ha conosciuto meglio la realtà dei graffiti e sono nati i primi festival di street art legale e autorizzata. Genova stessa in occasione del “ColoriAmo” festival nel ’95 ospitò, tra i tanti, uno dei padri fondatori del graffito, PHASE II.
Tu come hai vissuto il passaggio dall’illegalità alla legalità?
Il passaggio mi ha spinto ad adottare un linguaggio che si rivolgesse al pubblico generale e non più soltanto a quella nicchia di attori nel mondo dei graffiti. Volevo che le persone potessero vedere ma soprattutto capire la gestualità del mio operato.
Sentii anche la necessità di sfruttare il tempo dato dal poter operare nella legalità per realizzare graffiti più complessi sia nella progettazione che nella realizzazione. Oggi mi capita di dedicare dalle 5 ore all’intera giornata per il completamento di un’opera…
Pensi che il mondo dell’arte urbana in generale abbia beneficiato di questo (parziale) sdoganamento?
In parte sì, soprattutto la street art che a differenza dei graffiti opera attraverso un canale comunicativo più decodificabile e quindi apprezzabile anche da chi l’arte urbana non la conosce affatto: se la street art si rivolge quasi sempre all’osservatore, il graffito può invece nascondere un doppio significato decifrabile dagli altri writer o da chi ne conosce il linguaggio in maniera approfondita.
Nonostante ciò, reputo che alla città di Genova manchino gli spazi dedicati dove promuovere eventi artistici e culturali destinati alla comprensione pubblica e comune di questo fenomeno.
Mi è capitato più volte di esser verbalmente aggredito perché stringevo in mano una bomboletta, nonostante fossi all’opera con gli adeguati permessi: le occasioni per dipingere con il consenso o l’appoggio del comune si presentano, ma quel passo in più che potrebbe riavvolgere il processo di demonizzazione del graffitaro visto come vandalo deturpatore non è ancora stato fatto.
Lo stesso PHASE II è stato cancellato dalla memoria della città: l’opera che aveva realizzato in occasione di “ColoriAmo” è stata recentemente coperta da una mano di vernice gialla, dopo anni di incuria del sottopassaggio Cadorna in cui si trovava [ora chiuso, ndr].
Si trattava della rara testimonianza di un signore classe ’55 (venuto a mancare nel 2019) che ha fatto la storia di questo movimento, accreditato come il padre fondatore dello stile bubble. Un pezzo di storia dell’arte contemporanea trattato al pari delle scritte di ispirazione puerile o calcistica che hanno a loro volta ricoperto il muro giallo.
Io stesso che da quattro anni operavo con il permesso del comune all’interno dei Giardini Baltimora, presidiando, riqualificando la zona, e colorando il grigiore dell’edilizia locale, mi sono visto cancellate la maggior parte delle opere senza alcun preavviso; l’ennesimo colpo basso ai graffiti che vengono prontamente dimenticati da estemporanei progetti di “rinnovamento” territoriale.
Una grave mancanza di rispetto alla quale ho risposto cancellando io stesso una delle mie ultime opere nella zona. Questo non mi impedirà di portare avanti i miei progetti che puntano proprio a diffondere la cultura del graffito all’interno del tessuto sociale.
Come hai detto tu, è la percezione che la popolazione ha nei confronti dei graffiti a dover cambiare se si vuole puntare a una piccola rivoluzione culturale.
A tal proposito, parlami del tuo progetto “We Love Colorz”!
“We Love Colorz” è un progetto in collaborazione con il mio socio Raffaele, in arte Rom_One, nato dalla comune necessità di riportare l’attenzione sulla semplicità e accessibilità del graffito, come arte popolare degna di accettazione in quanto alla portata di tutti, per tutti.
Vogliamo scacciare quell’alone di negatività che aleggia sulla figura della persona con la bomboletta, ed è per questo che stiamo cercando di toccare tutti i municipi di Genova. Per ora abbiamo lavorato in centro, a Levante e nella bassa Val Bisagno, con quattro opere sul tema dei fumetti per stimolare la sensibilità e la curiosità del maggior numero di persone possibili.
È un atto di riqualificazione attraverso cui speriamo di trasformare un muro grigio in patrimonio da preservare, che funga indirettamente da conservante delle zone limitrofe, dandogli un significato, come una storia da ricordare.
Oltre ai lodevoli sforzi che compi portando avanti i tuoi progetti, cosa vorresti che venisse fatto da parte degli enti comunali e regionali per la cultura dei graffiti?
Ci vorrebbe un progetto pilota dedicato alla diffusione della cultura del graffitismo e soprattutto la designazione di spazi dedicati ai writer come è accaduto a Milano e a Palermo: non solo per dipingere in libertà, ma anche per diffondere un senso di appartenenza al territorio e al nucleo artistico cittadino.
Operando nell’illegalità si diffondono tensioni e divisioni che portano gli artisti ad agire nel proprio territorio in piccoli gruppi isolati, intralciando la possibilità di un futuro comune e in comunità.
Ai ragazzi dev’essere data la possibilità di affacciarsi istituzionalmente ai graffiti prima di essere univocamente etichettati come vandali. Lungi da me fare distinzioni tra graffiti buoni e cattivi, ma perché un writer prenda l’una o l’altra via dev’esserci innanzitutto la possibilità di scelta che a Genova manca da oltre vent’anni.
Quali sono i piani per il tuo futuro artistico e professionale?
Un presupposto per il mio futuro è sicuramente quello di cercare uno spazio più “convenzionale” in cui portare il mio percorso artistico di natura underground. Mi piacerebbe molto, per esempio, integrare le mie due passioni in una mostra fotografica: credo che ne trarrebbero beneficio entrambe.
In bocca al lupo!
Immagine di copertina:
Foto di Antonio Rois_One
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