Da un momento all’altro abbiamo smesso di fare le cose che abbiamo sempre fatto e tutto il nostro mondo è andato in stand-by. Eccoci che ridimensioniamo il nostro corpo alla misura della nostra casa e con il corpo anche le sensazioni, i pensieri e le priorità. A cambiare forma quasi radicalmente è l’ordine dei significati che attribuiamo alle cose: prima di tutto, cambia il significato che diamo al cibo.
Come molti altri in questi giorni, posso affermare di non aver mai cucinato così tanto. È vero che è un gioco, è divertente e dà soddisfazione, ma è anche vero che lo stiamo facendo così tanto perché non abbiamo alternative. Eravamo abituati a vivere il cibo come pretesto, catalizzatore, sottofondo delle nostre relazioni sociali: oggi più che mai ci rendiamo conto di quanto le nostre settimane fossero piene di aperitivi con gli amici, pranzi di lavoro o spuntini per strada. Il risultato, adesso, è che dobbiamo pensarci noi ogni giorno, senza tregua. Conseguenza principale? La sensazione (persecuzione) di essere sempre in cucina a impastare, sbucciare carote e soprattutto lavare pentole e piatti.
Vediamo tre opere molto differenti che affrontano il tema del cibo tra alienazione, ironia e relazione. In ordine: Martha Rosler, Dieter Roth e Rirkrit Tiravanija.
Martha Rosler – Semiotics of the Kitchen (1975)
Nel 1975 l’artista femminista Martha Rosler realizzò la performance Semiotics of the Kitchen, video con audio a canale singolo in bianco e nero. Nel video, l’artista si presenta in cucina con il grembiule a mo’ di casalinga americana sullo stampo delle celebri trasmissioni televisive di Julia Child degli anni ‘60. La performance consiste nella presentazione di tanti oggetti della cucina quante sono le lettere dell’alfabeto: la dimostrazione di ciascun oggetto, però, è totalmente contro intuitiva.
Lo scarto tra l’immagine della casalinga americana del suo tempo (quale imita nello stile) e i bizzarri significati che attribuisce agli oggetti presi in esame per mezzo dei suoi gesti violenti, rendono Semiotics of the Kitchen un’opera potentemente concettuale.
Genere a parte, l’opera nella sua portata concettuale può risultarci oggi, in tempi di alienazione culinaria, più comprensibile.
Dieter Roth – Staple Cheese (a Race) (1970)
Entriamo ora nel vivo del discorso, e parliamo del cibo come materia organica: l’artista svizzero-islandese Dieter Roth, noto principalmente per i suoi libri d’artista, condì gran parte delle sue opere con generi alimentari quali cioccolato, salsicce e formaggio, interessato alla loro componente degradabile e processuale. Ascrivibile alla corrente del Nouveau Réalisme, la sua ricerca artistica è molto più precisa e affilata di quel che può sembrare.
Nella primavera del 1970 alla galleria Eugenia Butler di Los Angeles, in una sua mostra personale, installò sul pavimento 37 valigie da viaggio piene di formaggi di diversi generi, tra cui cheddar, camenbert e brie; e applicò al muro (tecnicamente spiaccicò) dell’altro formaggio.
Il nome della mostra, Staple Cheese, è un gioco di parole che richiama al termine inglese steeplechase, usato per definire le corse a ostacoli dei cavalli. Infatti l’artista disegnò sul muro una lunga linea: i formaggi si sarebbero sciolti e avrebbero colato, così il primo a raggiungere la linea avrebbe vinto la corsa.
In pochi giorni la galleria si riempì di insetti e l’aria si fece irrespirabile. Gli ispettori della salute pubblica tentarono di chiudere la mostra e l’evento creò molto scalpore. A chi gli rimproverò di aver realizzato una mostra inaccessibile ai visitatori, Roth dichiarò che l’unico pubblico che aveva previsto erano proprio gli insetti e le mosche.
Rirkrit Tiravanija – Untitled (Free) (1992)
Decisamente meno cinico e più ottimistico è l’esempio di Rirkrit Tiravanija realizzato una ventina di anni dopo. L’artista di origine tailandese, nel 1992, organizzò Untitled (Free) all’interno della 303 Gallery di New York. Per l’occasione, Tiravanija svuotò completamente lo spazio espositivo per ricrearvi una cucina temporanea: nessuna opera esposta, ma solo curry tailandese di verdure, gratis, per tutti i visitatori.
Fu una mostra decisamente fuori dal comune. L’artista tentò in questa occasione (e in molte a seguire) di coinvolgere il pubblico attivamente: creò una situazione di scambio in cui ciascun visitatore, mangiando il suo curry, interagiva con gli amici e faceva nuove conoscenze.
Da un certo punto di vista, la forza della mostra parrebbe unicamente risiedere nella possibilità di mangiare l’opera– e certamente questo è un elemento determinante – ma, tuttavia, tutti coloro che hanno avuto la fortuna di partecipare potrebbero confermare che c’era di più: la vera protagonista di Untitled (Free) fu la socialità,l’atmosfera che si creò in galleria grazie all’interazione tra le persone, modellata sulla base dell’espediente del cibo. Può sembrare complicato, ma seguitemi: questa atmosfera, creata dentro lo spazio della galleria, diventa anche un fatto estetico. Ecco, Tiravanija non fu il primo, ma riuscì molto bene a far sentire gli spettatori non più spettatori, ma parte attiva dell’opera d’arte.
Questa opera-performance venne ricreata numerose volte e in situazioni sempre nuove. Attualmente la sua documentazione fa parte della collezione permanente del MoMA. Untitled (Free) fu un esperimento di arte relazionale che ebbe molta fortuna, tanto da annoverare Rirkrit Tiravanija tra i massimi esponenti del genere insieme a Felix Gonzalez-Torres.
In questi giorni di stan-by, i nuovi significati che la mia vita sta assumendo mi permettono di rivalutare tutte le mie convinzioni sulle cose, compreso il cibo, che diventa qualcosa di molto diverso da quel che è sempre stato. Fortuna che ci sono gli artisti, che riescono sempre a vedere qualcosa di più. Come se loro, la quarantena, la vivessero sempre!
Immagine di copertina:
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